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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2020

Saggi

Verso un sistema sanitario di comunità. Il contributo del Terzo settore

Giulia Galera


Durante i giorni del lockdown Giulia Galera ha realizzato una inchiesta su come il nostro sistema sanitario e sociosanitario stava affrontando l’emergenza Covid. Ha intervistato operatori e dirigenti sanitari, responsabili di soggetti pubblici e di Terzo settore, annotando, confrontando e rielaborando le loro opinioni; ha raccolto e ordinato l’imponente mole di contributi pubblicati in queste settimane sul tema. In sostanza si tratta di un tentativo di costruzione, attraverso l’intelligenza collettiva, di quanto la crisi Covid sta insegnando al nostro sistema sanitario e del ruolo che il Terzo settore potrebbe avere nelle sue future evoluzioni. Ne è nato un originale lavoro, con tutti i pregi e i limiti derivanti dal suo carattere instant, che Impresa Sociale pubblica unitamente al numero 2/2020.


1. Introduzione

2. Contesto di analisi

2.1. Criticità del sistema sanitario italiano di fronte alla pandemia da Covid-19
2.1.1 Disinvestimento sanitario e prevalenza di un approccio economicistico
2.1.2 Ingerenza partitica nel reclutamento del personale sanitario amministrativo dirigenziale
2.1.3 Separazione tra il tema della salute e dell’ambiente

2.2. I fattori che hanno inciso maggiormente nella gestione dell’emergenza
2.2.2. La disponibilità di posti letto in ospedale 
2.2.3. La carenza di personale sanitario adeguatamente preparato ad affrontare una pandemia
2.2.4. La prevalenza di un approccio patient-centered
2.2.5. L’elevato tasso di ospedalizzazione durante la pandemia
2.2.6. La mancanza di un sistema di assistenza sanitaria di prossimità

3. Quali strategie e paradigmi possono contribuire a rafforzare la resilienza del sistema sanitario? 

3.1. Promuovere politiche di prevenzione efficaci

3.2. Sviluppare un’assistenza sanitaria territoriale 
3.2.1. Ridefinire i rapporti ospedale-territorio
3.2.2. Riorganizzare la governance della medicina di base e specialistica
3.2.3. Stimolare un processo di rinnovamento culturale
3.2.4. Garantire un’assistenza sociosanitaria a tutte le persone in condizione di vulnerabilità ed emarginazione
3.2.5. Ricongiungere la dimensione sociale con quella sanitaria
3.2.6. Utilizzare le nuove tecnologie

4. Attraverso quali istituzioni è possibile sostenere un’attiva partecipazione dei cittadini nella gestione della salute pubblica?

4.1. L’arcipelago del Terzo settore

4.2. Gli ambiti di sviluppo del Terzo settore

4.3. La costruzione di reti e alleanze a livello territoriale 

5. Riflessioni conclusive

Bibliografia

DOI: 10.7425/IS.2020.02.09


L’articolo si basa su una breve rassegna della letteratura e su 28 interviste semi-strutturate a testimoni privilegiati principalmente tramite telefono o video-chiamata, realizzate tra marzo e maggio 2020. Sono stati intervistati: medici ospedalieri, infermieri, medici di base, biologi, dirigenti sanitari e consulenti implicati nella programmazione sanitaria, dirigenti comunali e rappresentanti di organizzazioni e reti di Terzo settore. Il lavoro non valorizza pienamente la ricchezza del pensiero espresso dagli osservatori privilegiati intervisti (identificati nel testo con un codice); è strutturato come sintetica rassegna di pareri, spesso contrastanti, rispetto ai quali l’autrice aggiunge il proprio punto di vista, rimanendo, pertanto, la sola responsabile di quanto rielaborato nel testo.

L’autrice ringrazia per il prezioso contributo: Claudio Beltramello, Medico Specialista in Igiene, Consulente di Management Sanitario; Lino Caserta, Direttore di Medicina Generale, Policlinico Madonna della Consolazione, Reggio Calabria e Presidente dell’Associazione di Epatologia Calabrese; Giampietro Chiamenti, Medico Specialista in Pediatra, già presidente della Federazione Medici Pediatri (FIMP) e già segretario regionale della FIMP Veneto; Paolo Costa, già Direttore di Unità Operativa - Servizio Medicina Territoriale e Specialistica - ASL Verona; Pinuccia Dantino, Consulente dell’Ufficio di Presidenza Auser regionale Lombardia; Giovanni Damiani, Biologo, Esperto in Ecologia Ambientale, già Direttore Generale dell’ANPA (Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente), Docente incaricato all’Università della Tuscia (Viterbo); Alessandro Frati, Medico Specialista in Ortopedia e Traumatologia, Castellanza, Varese; Marco Gargiulo, Presidente del Consorzio Idee in Rete, esperto in progetti sperimentali di abitare sociale; Silvia Ghidotti, Infermiera di Pronto Soccorso presso l’Ospedale Fatebenefratelli-Sacco di Milano e Attivista di Io-Cura per Salute; Renate Goergen, Presidente dell’Associazione Le Mat, Cooperatrice Sociale, già Infermiera presso il Centro di Salute Mentale di Trieste; Claudio Graiff, già Direttore della Divisione di Oncologia Medica, Ospedale Centrale di Bolzano; Martin Langer, già Direttore del Dipartimento di Anestesia, Rianimazione e Cure Palliative Istituto dei Tumori di Milano; Giuseppe Leoni, già Operatore TSLL della USSL / ASL di Olgiate Comasco, attualmente Libero Professionista per la Salute e Sicurezza sul Lavoro; Valeria Messina; Healthcare Director in PwC Public Sector Srl; Silvano Micieli, Medico di Medicina Generale, ATS Insubria; Giuseppe Milanese, Presidente di Confcooperative Sanità; Angelo Moretti, Presidente di Res-Int Rete di Economia Sociale Internazionale e Presidente della Rete di Economia Civile “Sale della Terra”, Benevento; Giuseppe Moretto, già Primario di Neurologia dell’Ospedale Borgo Trento, Docente presso la Scuola di Medicina e Chirurgia l’Università degli Studi di Verona; Valeria Negrini, Presidente di Confcooperative Lombardia; Italo Nessi, Medico di Medicina Generale, ATS Insubria, già Presidente di Medici con l’Africa Como Onlus; Massimo Patrignani, già Dirigente del Comune di Como – Responsabile Partecipazione, componente del CSV Insubria; Marta Pezzati, Presidente dell’Associazione Como Accoglie (grave marginalità); Franco Prandi, già Dirigente dell’Azienda Sanitaria di Reggio Emilia; Guglielmo Pitzalis, Medico Specialista in Tisiologia e Malattie Respiratorie, Specialista in Igiene e Medicina Preventiva, Sopramonte di Madonna Buja, Udine; Claudio Roscitano, Medico Specialista in Anestesista e Rianimazione - Humanitas Gavazzeni Bergamo; Gianni Tamino, Biologo, Docente presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova; Alberto Vaona, Medico di Medicina Generale, ULSS9 Scaligera; Angelo Vertemati, già Presidente del CSV Lecco e attuale Vice-presidente del CSV Monza-Lecco-Sondrio.

 

L’autrice ringrazia inoltre per i preziosi consigli e suggerimenti: Carlo Borzaga, Presidente di Euricse/Università di Trento; Barbara Franchini, Project manager presso Euricse; Leila Giannetto, Ricercatrice presso Fieri - Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull’Immigrazione; Renate Goergen, Presidente dell’Associazione Le Mat; Michela Giovannini, Ricercatrice presso l’Università di Coimbra, Portogallo; Alberto Ianes, Ricercatore presso il Museo Storico del Trentino; Giuseppe Leoni, Libero professionista per la Salute e Sicurezza sul Lavoro; Gianfranco Marocchi, cooperatore sociale e ricercatore, direttore di Impresa Sociale; Giuseppe Moretto, già Primario in Neurologia dell’Ospedale Borgo Trento; Massimo Patrignani, già Dirigente presso il Comune di Como; Edi Rabini, Presidente della Fondazione Alex Langer; Claudio Roscitano, Medico Specialista in Anestesia e Rianimazione.

 

Lentius, profundius, suavius
(Alex Langer, attivista, politico)

Che cos’è (cosa è stata) la deistituzionalizzazione (vera) se non rovesciare il rapporto perverso tra regole e bisogni? Che cos’è il dovere del tecnico se non il suo schierarsi sempre, costi quel che costi, dalla parte dei bisogni? Cos’è stato Basaglia se non un uomo che tra regole e bisogni ha avuto il coraggio di scegliere sempre i secondi? Ma quanti sono disposti a piegare le regole ai bisogni, e quanti invece non fanno nel loro tempo che piegare i bisogni alle regole? 
(Franco Rotelli, psichiatra)

1. Introduzione

Il Coronavirus ha messo l’Italia in ginocchio, ponendola di fronte ad una serie di sfide sanitarie, sociali, etiche ed economiche inedite. Per quanto sconosciuto alla scienza, non si tratta né di un fenomeno isolato, né di un problema nuovo. La pandemia ha fatto venire a galla le conseguenze di una serie di vecchi problemi che hanno acuito numerose situazioni di vulnerabilità, emarginazione e sofferenza (Lara, 2020; Gentile, 2020).[1] I nodi sono venuti al pettine in un clima d’incertezza e paura circa il proprio e altrui futuro, che ha riportato alla memoria vecchi ricordi che nei Paesi occidentali si pensavano archiviati (Proserpio, Clerici, 2020).

La diffusa sensazione di precarietà che la pandemia ha generato è stata aggravata da alcune circostanze. Tra queste, la presa d’atto dell’impreparazione del nostro sistema sanitario di fronte a un’emergenza dalle proporzioni drammatiche, il caos rispetto al numero di decessi e di persone contagiate dal virus Covid-19 e un’informazione giornalistica non sempre di qualità.

Venendo al primo aspetto, nonostante sia stato il primo Paese coinvolto dopo la Cina, in base ai dati attualmente a disposizione l’Italia ha registrato un numero di morti più contenuto rispetto a Stati Uniti e Regno Unito. Ma è anche uno dei Paesi dell’Unione europea che si è trovato meno preparato ad affrontare la pandemia. La spesso rimarcata mancanza di posti di terapia intensiva adeguatamente attrezzati per la ventilazione non è tuttavia l’unico fattore che spiega le difficoltà riscontrate dall’Italia nell’affrontare l’emergenza sanitaria. In altri Paesi, tra cui la Germania, il diverso approccio all’emergenza è riconducibile a un insieme di elementi. Tra questi, anche l’esistenza di una rete capillare di poliambulatori saliti in pochi anni da 1.500 a 3.173 che ha permesso di evitare l’ospedalizzazione e la dotazione di una serie di strumenti necessari per combattere le epidemie tra cui la possibilità di eseguire test di massa e la capacità di isolare i pazienti positivi (Gatti, 2020).

Sul secondo punto, in assenza di protocolli internazionali, l’adozione di criteri difformi di conteggio del numero di persone positive e dei decessi, così come l’incerto numero di persone decedute nelle case di riposo e presso le abitazioni private, hanno portato a fare stime contrastanti sul tasso di letalità del virus.[2] Spiccano profonde discrepanze sui tassi di letalità non solo tra Paesi (ad esempio Germania e Italia), ma anche tra regioni italiane (ad esempio, Lombardia, Trentino e Veneto). Complice una retorica “guerresca” che ha trovato ampio spazio nei media (Faloppa, 2020), l’ossessione per i dati e le quantificazioni che ci ha accompagnato in questo periodo (Ferrara, 2020) hanno accresciuto il panico e fomentato un clima di sospetto.

Venendo al terzo aspetto, ad alimentare il senso d’impotenza ha contribuito una comunicazione giornalistica che non si è sempre dimostrata in grado di veicolare informazioni scientifiche in maniera rigorosa (Agnoletto, 2020). A fronte di un desiderio crescente di una parte della popolazione di accedere a un’informazione di qualità (Paknazar, 2020), i media hanno mescolato informazioni serie a notizie con un elevato grado d’incertezza, spesso condizionate da interessi politici ed economici. Se da un lato è aumentata la consapevolezza, la diffusione di notizie spacciate per fondate scientificamente ha seminato sfiducia nei confronti della medicina e, in generale, della scienza (Intervista#9).

Sebbene una valutazione complessiva di come sia stata gestita l’emergenza necessiterà di qualche tempo e di dati di outcome, crediamo sia utile fare alcune riflessioni preliminari avendo a riferimento l’osservatorio privilegiato di 28 esperti con una profonda esperienza e conoscenza delle criticità del nostro sistema sanitario. Prendendo le mosse dalle loro testimonianze, l’articolo analizza i principali fattori che hanno inficiato la tenuta del sistema a fronte dell’emergenza sanitaria e propone una riflessione preliminare sulle strategie che potrebbero contribuire a migliorarne la capacità di resilienza.

Partendo da questo presupposto, cercheremo di capire se e come l’arcipelago delle organizzazioni in cui si articola il Terzo settore potrebbe contribuire alla costruzione di un sistema sanitario più equo e più vicino ai bisogni della comunità, facendo affidamento su cittadini maggiormente responsabili, informati e inclini a collaborare con il mondo sanitario, dando attuazione al concetto di salute definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e ai principi cardine del nostro Sistema Sanitario Nazionale (Ssn).

E, a questo proposito, secondo molti intervistati, la crescita del senso di responsabilità della cittadinanza è uno degli elementi che hanno caratterizzato la crisi. L’attivazione di reti di solidarietà – a livello di vicinato, tra il pubblico e il privato, a livello inter-regionale, europeo e globale – è stata e rimane la chiave di volta per superare l’emergenza (Giordano, 2020).

Prova ne sono le numerose iniziative fondate sulla cooperazione tra attori che hanno sperimentato soluzioni inedite per rispondere a bisogni insoddisfatti, disegnando ad esempio nuovi servizi sociosanitari, riconvertendo attività produttive o attivandone di nuove in risposta alla carenza di strumenti e dispositivi medicali, oppure creando piattaforme volte a favorire l’incontro tra volontari e persone bisognose di aiuto.

È questo il caso della piattaforma www.covid19alessandria.help, promossa ad Alessandria, in una delle province più colpite dalla pandemia, da un gruppo di organizzazioni del privato sociale che, sulla base di una comune lettura del bisogno, hanno deciso di consolidare in uno spazio virtuale le informazioni di carattere istituzionale e non, le iniziative di solidarietà e i servizi attivi sul territorio durante l’emergenza (Baracco, 2020).

A livello di strutture ospedaliere, sono stati sperimentati nuovi modi di lavorare tra medici che non sono soliti cooperare, come ad esempio chirurghi ortopedici e vascolari assegnati in funzione di supporto ai reparti Covid-19 e internisti, pneuomologi e anestesisti coinvolti in prima linea (Intervista#2).

Ed è sempre grazie alla cooperazione tra sanità pubblica, ricerca e innovazione, anche tecnologica, che si spiega la maggiore resilienza dimostrata dalla Regione Veneto durante la crisi (Paci, 2020).

Degna di nota è anche la strategia adottata da alcuni sindaci, che hanno reagito in modo coordinato per rispondere ai bisogni di assistenza generati dalla pandemia, definendo una strategia comune che coinvolge attori pubblici e privati del territorio. È questo il caso delle Unità Territoriali per l’Emergenza Sociale (UTES), nate su iniziativa dell’Agenzia di Tutela della Salute di Bergamo, il Consiglio di Rappresentanza dei Sindaci e la Fondazione della Comunità Bergamasca con l’obiettivo di rispondere in modo adeguato ai bisogni delle persone, soprattutto le più fragili, maggiormente esposte ai rischi connessi all’emergenza causata dal Covid-19. Le UTES hanno permesso di rafforzare la tenuta del sistema dell’assistenza sociale territoriale, messo sotto stress dal ritorno sul territorio dei malati Covid-19 in dimissione dagli ospedali (Maino, 2020b).

In breve, la crisi ha confermato che c’è un potenziale creativo che prende forma nel momento del bisogno grazie alla capacità di cooperare. Ed è grazie ai legami comunitari, alla reciprocità e ai valori di solidarietà che affondano le radici nelle diverse espressioni d’impegno civico di cui il nostro Paese si è dimostrato ancora ricco, che il sistema non si è ad oggi disgregato. E su cui possiamo contare per ricostruire.

L’articolo rappresenta il tentativo di recuperare e mettere a disposizione, attraverso un’opera di costruzione basata sull’intelligenza collettiva, due tipi di materiali: 1) l’imponente massa di articoli pubblicati in queste settimane sul tema del Covid, sia su media specialistici che su canali generalisti, che hanno proposto dati, letture, interpretazioni che, proprio per la loro quantità, rischiano di perdersi nel flusso quotidiano senza lasciare la propria eredità di stimolo al cambiamento e 2) materiali originali, prodotti nell’ambito di questa indagine e derivanti dalle testimonianze di 28 esperti di estrazione diversa: medici, infermieri, dirigenti della sanità, responsabili di organizzazioni di Terzo settore, ciascuno dei quali ha portato il proprio contributo sui temi trattati. Si è quindi cercato di dare conto di quanto emerso, integrando le opinioni degli intervistati entro un quadro coerente.

L’articolo presenta la seguente struttura: dopo una breve disamina delle criticità del sistema sanitario italiano di fronte alla pandemia da Covid-19, ci si sofferma sui fattori che hanno maggiormente inciso nella gestione dell’emergenza sanitaria. Nella sezione successiva si cerca di mettere a fuoco le strategie e i paradigmi che potrebbero contribuire a rafforzare la resilienza del sistema sanitario per poi analizzare le istituzioni attraverso cui si potrebbe favorire una più attiva partecipazione dei cittadini nella gestione della salute pubblica. È qui che entra in campo l’arcipelago del Terzo settore. Dopo una breve analisi dei suoi ambiti di sviluppo e delle diverse espressioni della capacità di fare rete che le organizzazioni di Terzo settore hanno saputo esprimere a livello professionale, disciplinare e organizzativo, nelle riflessioni conclusive si analizzano le condizioni di policy secondo noi necessarie a valorizzare maggiormente il contributo della società civile organizzata, nell’ottica di una più efficace co-gestione della salute come bene comune.

2. Contesto di analisi

Oltre ad incoraggiare nuove forme di cooperazione, la crisi ha fatto emergere numerose criticità che rendono – ormai a detta di quasi tutti gli esperti – necessario un ripensamento dell’organizzazione del sistema sanitario e più in generale del welfare. Ma in quale direzione? Ben consapevoli dei limiti di un’analisi a caldo, ci sembra, sulla base delle testimonianze delle persone intervistate, comunque utile proporre una prima riflessione su un possibile scenario di evoluzione del sistema sanitario che veda nel rafforzamento della sanità a livello territoriale e nel potenziamento del ruolo del Terzo settore uno sbocco, contrapposto a uno scenario alternativo contraddistinto dal dilagare della sanità privata for profit, incentrata sulla cura e sugli ospedali invece che sulla prevenzione, con un conseguente peggioramento dei problemi di accesso e di qualità delle cure per alcuni gruppi sociali e, in generale, per le regioni del Sud Italia.

La riflessione svolta rimette al centro del dibattito il tema della salute pubblica e ci riporta indietro nel tempo alle origini del percorso di deistituzionalizzazione in ambito psichiatrico (Baldascino, Mosca, 2018), che ha portato alla formalizzazione di un nuovo impegno civile a fine anni Settanta (Ianes e Borzaga 2006), mettendoci di fronte, oggi come allora, ad un’evidenza incontrovertibile: la salute non è una questione prettamente individuale, ma riguarda tutta la comunità.

La tesi che emerge in questo lavoro, in accordo con le indicazioni della maggior parte degli esperti intervistati, è che un sistema sanitario di prossimità, incentrato sull’empowerment della cittadinanza, sarebbe meglio attrezzato a prevenire tutti i tipi di malattie, sia degenerative che infettive e, in generale, ad affrontare le impegnative sfide nell’ambito della salute che questi anni ci riserveranno.

Rispetto alle malattie infettive è necessario tenere conto del fatto che, oltre alle patologie note, il futuro potrebbe, infatti, riservarci altre sfide sanitarie, provocate dall’allevamento industriale intensivo che ha aumentato i contatti tra fauna selvatica e bestiame, dal massiccio impiego di antibiotici in allevamento così come da nuove malattie legate ai cambiamenti climatici (Tamino, 2020); e questo potrebbe rendere la circostanza di infezioni indotte dal contatto con altre specie più frequenti.

Ma accanto a questo tipo di rischi, un’analisi più ampia dei bisogni emergenti deve tenere conto di altri problemi che da tempo assillano il nostro Paese, connessi alla riduzione della spesa sanitaria pro-capite e della crescente fetta di popolazione, concentrata fra quella a redditi medio-bassi, che afferma di dover rinunciare ad alcune cure sanitarie per motivi di costo, distanza o liste di attesa (Pavolini, 2020); è questo il caso di molti territori del Sud Italia dove le condizioni di disuguaglianza nell’accesso alle cure si sono tradotte in una diminuzione della speranza di vita e in un peggioramento del livello di benessere (Caserta, 2020).[3] Affrontare le problematiche connesse alle conseguenze della diseguaglianza di reddito e territoriale nella tutela della salute rimanda al tema del potenziamento delle strutture territoriali e del Terzo settore.

Emergono inoltre molti bisogni di natura sociosanitaria, attualmente parzialmente inevasi o comunque non adeguatamente soddisfatti, che potrebbero trovare risposta grazie a forme di rinnovato impegno civico all’interno di un sistema di welfare di comunità. Tra questi l’assistenza sociosanitaria alle persone anziane e sanitaria alle persone senza fissa dimora e ai migranti esclusi dal sistema di accoglienza per i quali l’hashtag “state a casa”, che ci ha accompagnati in questi mesi, è divenuto a dir poco paradossale.

2.1. Criticità del sistema sanitario italiano di fronte alla pandemia da Covid-19

L’Italia può essere vista come un laboratorio di analisi del profondo processo trasformativo indotto dall’emergenza sanitaria, che ha messo in luce l’inadeguatezza del sistema sanitario nazionale nonostante esso sia considerato, più sul piano della copertura assicurativa che su quello dell’organizzazione dell’offerta, uno dei migliori del mondo.

I dati positivi del nostro SSN sono noti: l’elevata speranza di vita alla nascita rispetto agli altri Paesi europei, i tassi di mortalità prevenibile bassi e in continua evoluzione e il basso tasso di ricovero per malattie croniche (Intervista#7). Tutti gli intervistati ritengono che il SSN istituito nel 1978 con l’intento di offrire una copertura sanitaria a tutta la popolazione e dar corpo a una nuova visione di società che rimettesse al centro il cittadino come soggetto di diritto, sia una conquista da difendere e rafforzare (Jop, 2020). In quanto finanziato dalla fiscalità generale e volutamente universalistico in attuazione all’articolo 32 della Costituzione, quello italiano è uno dei sistemi sanitari più equi al mondo (Intervista#14). La sua eccezionalità deriva nondimeno dal fatto che fu istituito grazie ad una delle più rivoluzionarie riforme in materia di welfare in un momento storico in cui a livello internazionale l’ambito della sanità era diventato il bersaglio di politiche di contenimento della spesa pubblica (Perazzoli, 2020). A 40 anni dalla sua istituzione, i principi ispiratori – universalismo, globalità dell’approccio, equità di accesso indipendentemente dalle condizioni reddituali e di residenza – sono ancora largamente riconosciuti come rilevanti dalla maggioranza dei cittadini (Intervista#7).

Tuttavia, gli intervistati concordano nell’affermare che, nonostante i tre interventi legislativi in poco più di 20 anni (1978, 1992, 1999), alcune aspettative siano state tradite. Permane, quindi, uno scarto rilevante tra i principi affermati e la loro declinazione nella realtà. Nella pratica, il sistema sanitario è a macchia di leopardo ed è profondamente diseguale. Presenta pesanti disparità tra territori soprattutto in termini di accesso ai servizi ed esiti di salute e non si è dimostrato in grado né di adeguarsi ai mutamenti demografici e sociali, né di impostare strategie strutturate di prevenzione rispetto ai rischi di salute connessi alle grandi evoluzioni che interessano questa fase storica come le alterazioni dell’ambiente e i cambiamenti climatici.

Tra gli aspetti problematici che caratterizzano questa fase vi è una perdita, negli anni, in termini di equità, confermata dal progressivo spostamento della domanda verso il privato per ovviare ai troppo lunghi tempi di attesa e alla progressiva sfiducia nel servizio pubblico. Oltre a forti divari tra il Nord e il Sud del Paese, vi sono importanti squilibri tra regioni che hanno maggiormente puntato sulla privatizzazione e regioni dove il sistema sanitario è rimasto prevalentemente pubblico; regioni che hanno gestito il sistema sanitario regionale in condizioni di efficienza e regioni che hanno mal-governato, accumulando deficit di bilancio unitamente a una riduzione della qualità dei servizi sanitari offerti (Intervista#4).

In secondo luogo, il sistema sanitario non è stato in grado di adeguarsi ai profondi mutamenti demografici verificatisi in Italia quali l’allungamento della vita media, la prevalenza della malattia cronica rispetto a quella acuta e la presenza di una fetta importante di popolazione con comorbilità.[4]

Di fronte a questi cambiamenti, notano numerosi intervistati, il sistema sanitario è rimasto ospedale-centrico e ha continuato a curare la malattia acuta, non la persona con pluri-patologie croniche (Intervista#1). Infine, sebbene la Riforma Sanitaria 833/1978 abbia messo in primo piano la prevenzione, primaria e secondaria, nel concreto, non è mai stata data la necessaria attuazione a sviluppare un sistema di prevenzione a livello territoriale. A un periodo d’oro iniziale è seguita una controrivoluzione strisciante, che si è rivelata funesta alla luce della recente pandemia non essendosi dimostrati i dipartimenti di prevenzione e i distretti assistenziali in grado di guidare l’azione di sanità pubblica (Paci, 2020).

Le ragioni che spiegherebbero lo scarto tra quanto dichiarato e realizzato sono diverse. Oltre a caratteristiche di contesto afferenti al tessuto socioeconomico e ad alcuni fattori esogeni, tra cui le infiltrazioni della criminalità organizzata, rilevano a detta degli intervistati soprattutto alcuni orientamenti strategici discutibili che hanno in questi anni dato forma all’attuale assetto dell’organizzazione sanitaria. Senza pretendere di esplorare le criticità del sistema sanitario nel dettaglio, in questa sede ci soffermiamo sulle scelte politiche che hanno, a detta degli intervistati, inciso maggiormente sulla capacità di fronteggiare l’emergenza sanitaria in cui è precipitato il nostro Paese.

2.1.1 Disinvestimento sanitario e prevalenza di un approccio economicistico

Un elemento di criticità all’origine della progressiva involuzione del sistema sanitario, segnalato da molti intervistati, è la limitatezza delle risorse economiche messe a disposizione. L’Italia è un paese che ormai da due decenni spende molto meno per la salute pro-capite rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale. Già nel 2000 la spesa pro-capite pubblica in sanità era di circa 9 punti percentuali più bassa della media dei paesi dell’UE-15. La situazione è precipitata negli anni della crisi, tant’è che nel 2018 il nostro paese spendeva oltre un quarto di meno per ciascun abitante rispetto alla media dell’UE-15 (Pavolini 2020). Si tratta, come rilevato dalla Fondazione GIMBE, di un disinvestimento complessivo pari a 37 miliardi di Euro (Cartabellotta et al. 2019) che è stato solo in parte compensato da un miglioramento dell’efficienza del sistema grazie alle nuove tecnologie, che hanno permesso di ridurre i costi di permanenza ospedaliera (Intervista#3). Il disinvestimento in sanità oltre i margini fisiologici ha accresciuto negli ultimi 10-15 anni il gap tra bisogni e risorse e ha causato il blocco del turnover delle risorse umane (Intervista#10), all’origine dell’inevitabile sovraccarico del personale sanitario e della grave carenza di strumenti e protezioni necessari a fronteggiare la recente pandemia (Maciocco, 2020a).[5]

A conferma dell’allargamento della forbice tra bisogni e risorse disponibili, nel 2018 si è registrato un aumento della spesa sanitaria privata pari a +7,2% rispetto al 2014, che ammontava nello stesso anno a 37,3 miliardi di euro (Rbm-Censis, 2019). A questa spesa a carico delle famiglie, va aggiunta quella sostenuta per accudire anziani non autosufficienti ricorrendo al lavoro di “badanti”, pari a circa 7 miliardi di euro all’anno (De Luca, 2017). Rileva inoltre l’esistenza di una fetta crescente di popolazione – più o meno mezzo milione di persone – che versa in una situazione di povertà sanitaria ed è costretta a ricorrere al “Banco Farmaceutico” per accedere ai farmaci necessari per l’automedicazione (Percorsi di Secondo Welfare, 2020).

Oltre agli aspetti quantitativi, esiste anche un problema di allocazione efficace delle risorse. A detta di una delle persone intervistate, scontiamo una delle caratteristiche del nostro sistema di welfare, ovvero l’aver privilegiato a livello di politiche pubbliche lo strumento del trasferimento monetario agli assistiti in condizioni di fragilità (indennità, pensioni, etc.), piuttosto che l’offerta di servizi. Questa scelta è costata decine di miliardi di euro l’anno in forma di sussidi, senza alcuna tracciabilità della spesa e misurabilità della loro efficacia in termini di salute (Intervista#5).

A detta degli intervistati, non sembra inoltre che la scelta di applicare principi aziendalistici, che ha portato a una riorganizzazione del modo di erogare i servizi sanitari, abbia contribuito a migliorare l’efficacia e l’efficienza. In base al D.Lgs. 502/92, alle nuove Aziende Sanitarie Locali e Aziende Ospedaliere è stata attribuita un’ampia autonomia “organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica, fermo restando il diritto-dovere degli organi rappresentativi di esprimere il bisogno socio-sanitario delle comunità locali”, nonché il dovere di “assicurare i livelli di assistenza in condizioni di uniformità sul territorio nazionale” (Intervista#7).[6] Sebbene quasi tutti gli intervistati convengano sulla necessità di applicare logiche aziendalistiche e introdurre vincoli di pareggio di bilancio per controllare la spesa sanitaria, sottolineano anche la necessità di finalizzare in maniera più stringente l’applicazione delle logiche di razionalizzazione dei costi al raggiungimento dell’obiettivo di generare salute. Numerosi intervistati evidenziano come la prevalenza di un approccio economicistico che ha dato priorità alla capacità di far quadrare i conti abbia portato a trascurare l’efficacia e l’appropriatezza collegata all’evidenza scientifica. Una persona sottolinea, ad esempio, come la riduzione dei costi e dei tempi di permanenza ospedaliera avrebbe fatto venire meno la possibilità di seguire adeguatamente da un punto di vista psicologico i pazienti nel post intervento, con ricadute negative, in alcuni casi, sull’efficacia delle stesse prestazioni sanitarie (Intervista#28).

In sintesi, concentrandosi sul “prodotto intermedio”, l’approccio dominante avrebbe fatto perdere di vista il “prodotto finale”, quello di mantenere o migliorare lo stato di salute delle persone (Intervista#22). In aggiunta a questo, in mancanza di un sistema di valutazione idoneo, è stato costruito un sistema di verifica dell’appropriatezza delle cure che si fonda su un eccesso di burocrazia e di aspetti formali, che hanno soffocato pesantemente l’innovazione (Intervista#8).

Di qui l’importanza di sostenere il processo di cambiamento già in atto nella programmazione sanitaria, in un’ottica value based health care, che implica il rafforzamento delle azioni volte a misurare il valore creato dai processi organizzativi e dall’impiego delle risorse al fine di individuare, tra diverse opzioni allocative, quelle con i migliori rapporti costi benefici, secondo un approccio olistico che ne misuri l’impatto su tutto il servizio sanitario o, meglio ancora, su tutto il welfare nella sua accezione più ampia (Intervista#7).

2.1.2 Ingerenza partitica nel reclutamento del personale sanitario amministrativo dirigenziale

Tra le ragioni che spiegherebbero la mancata attuazione dei principi della Riforma Sanitaria 833/1978, numerosi intervistati nominano l’interferenza della politica. Responsabile è, a detta di alcuni, la stessa riforma nella misura in cui ha previsto che le USL fossero costituite come coordinamento degli enti territoriali (Intervista#7-24). Di parere contrario è un altro intervistato che valuta invece positivamente l’organizzazione dei Servizi Territoriali a partire dalle Unità Sociosanitarie Locali, dove il Comitato di Gestione era eletto dal territorio tramite l’Assemblea dei Comuni e dalle Comunità Montane, cosicché il territorio potesse più facilmente “controllare” i delegati (Intervista#21).

I meccanismi di nomina sono cambiati a seguito della Riforma del 1992 (art. 1, c. 1, d.lgs. 502/92) che ha previsto la separazione delle attività d’indirizzo politico da quelle gestionali (Intervista#7) e ha introdotto la nomina diretta regionale dei dirigenti sanitari. Questa modifica, finalizzata a evitare l’ingerenza dei comuni nell’amministrazione delle USL, non ha tuttavia ridotto l’interferenza della politica. Anzi, la maggior parte degli intervistati ritiene che la prassi molto diffusa di reclutare la classe dirigente – in particolar modo direttori generali sanitari e i direttori amministrativi – non in base a criteri meritocratici ma in base a logiche di appartenenza politica unitamente alla mancanza di adeguati percorsi educativi e di formazione per i dirigenti sanitari, siano all’origine del pesante sperperamento di risorse pubbliche e del progressivo dirottamento dei fondi pubblici sulla medicina ospedaliera e su quella privata a scapito della medicina preventiva. Le ragioni sono abbastanza intuitive. Come ci ricorda la storia recente di deistituzionalizzazione degli ospedali psichiatrici, è indubbia la maggiore attrattività delle strutture ospedaliere rispetto al territorio, non soltanto per gli interessi economici in gioco, ma soprattutto in quanto centri di potere (Intervista#23).

Questa evoluzione ha avuto come conseguenza il progressivo scollamento del sistema sanitario da una domanda crescente, sempre più diversificata di servizi sociosanitari. E costruendosi sia la domanda, sia la risposta, spesso partendo da quest’ultima in maniera autoreferenziale, il sistema ha finito per rompere la relazione con il territorio, creando situazioni di grave iniquità (Intervista#6). Prova ne è la mancanza di un percorso condiviso tra ospedale e territorio e viceversa e lo scarso dialogo tra medici di medicina generale e medici ospedalieri, che hanno inevitabilmente acuito le difficoltà e i disservizi (Intervista#1). Queste difficoltà hanno impedito di gestire in maniera efficace le conseguenze della pandemia e in alcune regioni, in particolar modo, hanno esacerbato la già profonda frattura creatasi tra ospedale e territorio.

2.1.3 Separazione tra il tema della salute e dell’ambiente

Tra i temi tornati di drammatica attualità con il Covid-19 vi è la capacità del sistema sanitario di prevenire i rischi e tutelare la salute pubblica intercettando possibili elementi di rischio, ad esempio individuando le cause sociali e ambientali che generano determinate patologie.

A questo proposito, secondo diversi intervistati, una lacuna importante all’origine del crollo del sistema sanitario a cui abbiamo assistito è lo scollamento tra il tema della salute e quello dell’ambiente. Alcuni intervistati ricordano a questo proposito come la Riforma 833/1978 avrebbe portato all’attivazione d’importanti servizi deputati alla prevenzione[7] (Interviste#21 e 28). Servizi che avrebbero dovuto affiancarsi ai laboratori d’igiene e profilassi che, dagli anni Trenta, avevano garantito la prevenzione sul territorio contribuendo a individuare le cause sociali e ambientali di numerose patologie, svolgendo così un ruolo fondamentale a tutela della salute pubblica (Intervista#24). La riforma disegnò quindi sia le strutture tecniche che quelle di governo (i consorzi sanitari di zona), salvo poi depotenziare le stesse strutture negli anni successivi a favore di una medicina ospedale-centrica. Nell’analizzare le cause del suddetto depotenziamento, un intervistato richiama “l’occupazione partitica” legata ai meccanismi di nomina previsti dalla legge, che avrebbe lasciato languire tutto il sistema di prevenzione (Intervista#24).

Prescindendo dai diversi punti di vista, la riforma del 1994[8] che seguì al referendum abrogativo del 18 aprile 1993, fece comunque il resto (Baracca, Garetti, 2020). Partendo dall’obiettivo di ridare centralità alla questione ambientale, la riforma separò i temi dell’ambiente da quelli del sistema sanitario nazionale e nel concreto non riuscì nell’intento di creare strutture autonome che si occupassero di ambiente in maniera adeguata. Nonostante la riorganizzazione dei laboratori storici e l’istituzione dell’agenzia nazionale per l’ambiente (ANPA) e le agenzie regionali per l’ambiente (ARPA), si è così assistito a una progressiva distruzione del sistema di prevenzione primaria a cui avrebbe contribuito in particolar modo la decisione di finanziare le ARPA non attraverso un finanziamento diretto, ma per il tramite della sanità regionale, aspetto questo che ha ridotto drasticamente la percentuale di risorse allocate. Condizionandone l’autonomia, la regionalizzazione delle competenze delle ARPA sarebbe quindi all’origine del calo vertiginoso del numero di controlli routinari, crollati del 68% in 15 anni, a dimostrazione del ruolo sempre più marginale assegnato alla prevenzione (Intervista#24).

E nemmeno la Riforma 132/2016, istitutiva del sistema nazionale di protezione dell’ambiente è ad oggi riuscita nell’intento di coordinare le attività delle agenzie regionali. I fondi allocati in materia di prevenzione continuano a essere irrisori e l’esistenza di prestazioni ambientali disomogenee persiste nell’alimentare concorrenza sleale da parte di produttori meno attenti all’ambiente e diseconomie. E, aspetto centrale e particolarmente rilevante alla luce della recente pandemia, continua a mancare l’imprescindibile dialogo tra il mondo della sanità e quello dell’ambiente, dell’ambientalismo o ecologismo, nonostante sia accertato che le epidemie e le pandemie originino da fattori legati a distruzioni ambientali.

A questo proposito, la maggiore insorgenza dei “salti di specie” è ricondotta da numerosi studiosi alla crescita esponenziale della popolazione umana, avvenuta in un arco temporale relativamente breve, che avrebbe invaso le nicchie ecologiche degli animali selvatici frammentandone gli ecosistemi per creare insediamenti abitativi e produttivi (Grossi et al., 2020; Quammen, 2014). È, inoltre, ben riconosciuto che malattie di tipo tropicale come la febbre del Nilo e il virus Zika e la Chikungunya, siano state portate alla luce da cambiamenti climatici (Tamino, 2020) e, alla stessa stregua, alcuni studi recenti hanno ipotizzato la relazione tra l’esposizione a inquinamento atmosferico e la diffusione del coronavirus (Petronio, 2020).

Rileva quindi il grave errore di aver trascurato lo sviluppo di adeguate politiche di prevenzione e di programmi volti a gestire situazioni come quella in cui ci troviamo. Nonostante il rapporto del Global Preparedness Monitoring Board del 2019, formato da esperti della Banca Mondiale e dell’OMS, avesse messo in guardia il mondo circa la minaccia di una pandemia globale, nessuno paese, Italia compresa, si è attrezzato adeguatamente: i piani predisposti per affrontare le pandemie sono rimasti sulla carta e l’Italia è risultata impreparata ad affrontare il coronavirus (Dentico, 2020). 

2.2. I fattori che hanno inciso maggiormente nella gestione dell’emergenza

Nel tentare di rispondere a bisogni sempre più complessi a fronte di una riduzione delle risorse, negli anni scorsi le regioni sono andate ognuna per conto proprio, chiudendo i piccoli ospedali, riorganizzandosi in centri hub and spoke[9] e in generale introducendo in misura diversa da regione a regione elementi di mercato o logiche di tipo aziendalistico volte a favorire una razionalizzazione delle risorse (Intervista#1). Nel complesso si è così assistito a una desertificazione assistenziale del territorio, ad uno sperpero di risorse nel Centro-Sud, che sta uscendo solo ora da piani rigidi di rientro dai debiti e, complice la regionalizzazione, ad un incremento del così detto “turismo sanitario"[10].

Il Covid-19 ha fatto emergere in maniera eclatante alcuni dei limiti del sistema sanitario e ha messo in discussione l’eccellenza del sistema sanitario lombardo, ritenuto fino a prima della crisi quello meglio in grado di arginare e rimediare alle inefficienze pubbliche (Vecchietti, 2018), malgrado l’evidenza di fenomeni corruttivi e di alcune carenze organizzative e gestionali (Intervista#25). Tutti gli intervistati riconoscono l’impreparazione del sistema lombardo a gestire la crisi sanitaria. Tuttavia, mentre alcuni ci tengono a specificare che nessun altro sistema sarebbe stato in grado di arginare, da epicentro, la pandemia, altri intervistati riconducono la gravità della situazione alla gestione avventata dell’emergenza unitamente ad alcune caratteristiche strutturali. Tra queste – come si vedrà – l’approccio fortemente ospedale-centrico del sistema sanitario lombardo, la prevalenza di un paradigma competitivo e lo stato di trascuratezza in cui versa la sanità a livello territoriale.

Gli approcci e le strategie adottate dalle diverse regioni per far fronte alla pandemia hanno messo inoltre sotto pesante accusa la frammentazione regionale, che ha ritardato l’adozione di misure coerenti in grado di contenere la diffusione del virus e rafforzare la tenuta del sistema sanitario a livello nazionale (De Ceukelaire, Bodini, 2020), in un momento in cui la collaborazione tra regioni avrebbe dovuto prevalere sulla competizione.

Analizzando quanto successo nei mesi scorsi, è possibile individuare anche alcuni tra i fattori che hanno maggiormente influito sulla capacità di contenere la diffusione del virus nelle diverse regioni.

2.2.1. I tempi di reazione

Un fattore che ha fortemente inciso nella gestione dell’emergenza sono stati i tempi di reazione. A questo proposito, a detta di molti, le scelte fatte in Veneto sembrano essersi rivelate più efficaci nel contenere la pandemia rispetto a quanto avvenuto in altre regioni. Ad aver fatto la differenza sono stati sia il numero di tamponi eseguiti su indicazione di un gruppo di microbiologi e contro il parere dell’OMS, del Ministero della Sanità e inizialmente anche della stessa regione Veneto (Intervista#10), sia la tenuta del territorio. In Veneto è stato realizzato il primo esperimento epidemiologico su un’intera popolazione, quella di Vò Euganeo, colpita da un focolaio Covid-19 a marzo 2020. Scoprendo che il 50% delle persone erano asintomatiche ma portatrici del virus, lo studio ha permesso di capire sul campo attraverso quali strategie è possibile spegnere i focolai: chiudendo la zona entro cui sono presenti, analizzando sistematicamente tutta la popolazione, tracciando i contatti. In molti altri territori soggetti a focolai si sono invece perse settimane intere prima di decidere come fare i test, anche a causa d’indebite pressioni lobbystiche da parte di Confindustria nei confronti dei decisori politici.[11] E questo ritardo, avvenuto nella fase di crescita esponenziale dei contagi, ha significato il raddoppio dei casi (Turini, 2020). In Lombardia, le prime azioni messe in campo quando i focolai erano ancora limitati non sono state in sostanza adeguate alla gravità della situazione (Intervista#5).

Il Veneto possiede inoltre da alcune caratteristiche che hanno verosimilmente contribuito a creare un contesto più idoneo alla gestione di una pandemia. È dotato di un sistema sanitario più collaborativo e meglio integrato tra ospedale e territorio, ha un numero contenuto di ospedali privati convenzionati e ha una storia di resistenza di cittadini e sindaci, nata per difendere le strutture ospedaliere di base del territorio. Una resistenza che ha caratterizzato gli ultimi 10 anni e da cui è scaturito un senso di comunità a difesa del proprio sistema sanitario (Intervista#15).

Rispetto al Nord, il Centro-Sud ha probabilmente tenuto perché il lockdown ha fermato in tempo la diffusione. Interessante è comunque il caso di alcuni piccoli comuni e aree interne del Centro-Sud in cui le amministrazioni comunali, il Terzo settore e la medicina territoriale hanno agito come un corpo solo, sorvegliando tutte le persone a rischio e assicurandosi che nessuno restasse solo, anche se a casa. È questo il caso delle aree interne del Salento, unica zona completamente non contaminata di tutta la Puglia (Intervista#16).

2.2.2. La disponibilità di posti letto in ospedale

Secondo i dati dell’Annuario del Ssn del Ministero della Salute nel 2007 il sistema sanitario nazionale poteva contare su 1.197 strutture ospedaliere, mentre nel 2017 le stesse sono scese a 1.000 (Fassari, 2020).

Prescindendo dalla situazione di emergenza che ha portato a un raddoppio dei posti in terapia intensiva, le interviste e la letteratura confermano come la ristrutturazione del sistema ospedaliero e la chiusura dei presidi ospedalieri sottodimensionati, secondo alcuni auspicabile (Interviste#13 e 19), sia avvenuta in un contesto di diminuzione della spesa sanitaria dettata da una logica aziendalistica, o meglio di ragionieristica riduzione della spesa pubblica. Questa logica, focalizzata esclusivamente sul breve periodo, ha impedito di migliorare l’efficacia del sistema nel suo complesso a livello territoriale (Angelici, 2020; Pavolini, 2020). La de-ospedalizzazione avrebbe dovuto essere affiancata da un potenziamento dell’assistenza domiciliare per i malati di patologie non trasmissibili, che tendono a cronicizzarsi e per i quali è considerato non appropriato il ricovero ospedaliero al di fuori della fase acuta della malattia (Intervista#5) e da un accompagnamento post-ricovero in particolar modo per le persone sole, anziane e che hanno criticità in famiglia (Intervista#12).

Purtroppo, ciò non è avvenuto nella gran parte delle regioni italiane: né nel Centro-Sud, né tanto meno in regioni come la Lombardia che hanno puntato esclusivamente sull’eccellenza di alcuni grossi centri ospedalieri investendo molto sul privato for profit accreditato. Di conseguenza, in moltissimi territori i cittadini hanno visto dissolvere il proprio punto di riferimento tradizionale rappresentato dal piccolo presidio ospedaliero, senza che fosse compensato da un incremento degli investimenti sul fronte dell’assistenza territoriale ed extra-ospedaliera (Intervista#5).[12]

2.2.3. La carenza di personale sanitario adeguatamente preparato ad affrontare una pandemia

La riduzione dei posti disponibili in ospedale è andata di pari passo alla riduzione del personale sanitario, sia medico sia infermieristico. Come sottolineato da un documento elaborato dagli anestesisti-rianimatori della società scientifica SIAARTI, il progressivo disinvestimento del finanziamento pubblico si è tradotto in uno squilibrio tra necessità e risorse disponibili, che è stato pagato soprattutto dal personale sanitario sotto forma di pesanti carenze nell’organico e scelte devastanti su chi curare e chi no (SIAARTI, 2020). Il blocco del turn over, unitamente al sovraccarico di lavoro e ai bassi salari hanno inoltre provocato una fuga di professionalità all’estero, che spiega una delle caratteristiche tipiche del Ssn: la presenza di una forza lavoro di medici che va invecchiando e calando numericamente (Pavolini, 2020).

Dal 2007 al 2017 il numero dei medici è sceso da 106.800 a 101.100 mila (-5.700). Allo stesso tempo si è registrato un calo dei medici del territorio e dei titolari di guardia medica. I medici di famiglia nel 2007 erano 46.961, dieci anni dopo 43.731 (-3.230, il 6,8%), mentre i medici titolari di guardia medica sono diminuiti da 13.109 nel 2007 a 11.688 nel 2017 (-1.421, il 10%) (Fassari 2020). A questa criticità deve aggiungersi la scarsa e decrescente presenza di infermieri (Pavolini 2020), passati dalle 264.177 unità del 2007 a 253.430 del 2017 (-10.747) (Fassari 2020).

Se il numero dei medici è sottodimensionato rispetto al bisogno, lo è a maggior ragione quello degli infermieri. In Italia vi sono 4 infermieri per ogni medico, mentre in Germania la proporzione è di 12 a uno, a conferma di una concezione italiana della clinica tutta incentrata sulla gestione specialistica (Intervista#6).[13] A detta di alcuni non è però solo un problema di numeri, ma anche di responsabilità.

Se si eccettuano alcuni ambiti specifici, come quello delle cure palliative dove c’è un cambiamento in atto, permane in generale una resistenza nei confronti della responsabilizzazione degli infermieri sia da parte dei medici che temono di perdere ruolo, sia da parte degli infermieri stessi, che stentano ad assumersi nuove responsabilità (Intervista#1).

Di fronte alla pandemia, il sovraccarico di lavoro unitamente alla mancanza di un piano epidemiologico, hanno aggravato il carico del personale sanitario, sia medico che infermieristico, che si è trovato impreparato ad affrontare l’emergenza, pagando un tributo elevato anche in termini di vite umane.

2.2.4. La prevalenza di un approccio patient-centered

L’incapacità del sistema di adeguarsi ai cambiamenti in atto unitamente all’approccio patient-centered, tipico della medicina occidentale, hanno impedito secondo molti intervistati di adottare un approccio idoneo a contenere una pandemia, come invece sarebbe successo se si fosse adottato un approccio community-centred (Nacoti et al., 2020). L’approccio dominante centrato sul paziente insieme alla strategia di ridurre i costi sanitari senza considerare gli esiti di salute, hanno infatti portato a porre una forte attenzione alla medicina specialistica e agli ospedali e troppo poca, o nessuna attenzione, all’epidemiologia e all’igiene pubblica (Intervista#2).

Quest’evoluzione è proceduta di pari passo a un progressivo spostamento dell’attenzione della medicina dal contesto sociale e ambientale al corpo umano. E questo cambio di prospettiva ha innescato una profonda modifica di natura epistemologica, che ha relegato l’azione medica esclusivamente al contesto clinico (Intervista#9). Le ragioni alla base di quest’evoluzione sono legate sia a interessi economici, sia all’evoluzione delle stesse discipline mediche, che hanno progressivamente portato verso un’iper-specializzazione tesa a spostare sempre più avanti la frontiera della conoscenza (Dente, 2020). Di qui la ricerca affannosa di nuove tecnologie, tra cui farmaci sempre più costosi, che spesso s’intreccia con altri interessi in gioco, in primis quello delle case farmaceutiche (Intervista#13). Questa interpretazione della medicina, improntata principalmente alla ricerca tecnologica, ha accentuato la distanza dai bisogni e dalle aspettative della comunità (Intervista#9).

2.2.5. L’elevato tasso di ospedalizzazione durante la pandemia

Essendo basato su una visione tipicamente short-term, il paradigma dominante non ha lasciato spazio alla medicina preventiva e protettiva di comunità, che presuppone invece un approccio di lungo periodo (Intervista#2), e ha trovato applicazione soprattutto nei sistemi ospedale-centrici e con scarsa tenuta sul territorio tipicamente rappresentati dal modello lombardo, dove le strutture ospedaliere pubbliche e accreditate sono diventate “ipermercati delle prestazioni sanitarie” (Intervista#6). A questo riguardo, numerosi intervistati sottolineano come la scelta di introdurre il “privato accreditato”, motivata dalla necessità di potenziare la risposta sociosanitaria ai bisogni dell’utenza e favorire una virtuosa concorrenza, abbia generato pesanti distorsioni.

In primis, ha determinato un progressivo rilassamento dell’impegno del Ssn pubblico con effetti negativi soprattutto sullo sviluppo del sistema di offerta pubblica. Quest’ultimo ha, da un lato, introiettato ideologie e valori del privato for profit (Intervista#19) e, dall’altro, ha portato i cittadini a percepire il servizio pubblico come residuale rispetto al privato. Riprendendo le parole di una persona intervistata: il servizio pubblico è percepito come “un alveo di servizi accessibili solo a chi non riesce a entrare nel privato accreditato” (Intervista#16).

Inoltre, come evidenziato da più intervistati, l’introduzione del privato accreditato ha portato a prediligere un tipo di attività sanitaria che non è necessariamente quella più rispondente al benessere della comunità. Di qui, la forte propensione verso la chirurgia ortopedica e la cardiochirurgia (Intervista#27) a discapito della chirurgia generale, con un ovvio incremento dei tempi di attesa per tutta quell’attività sanitaria considerata non conveniente. In aggiunta, si è assistito soprattutto in passato al dilagare di ulteriori fenomeni distorsivi nelle cliniche private accreditate, come quello della sofisticazione dei DRG (ovvero dei codici associati alle classificazioni dei ricoveri ospedalieri nell’ambito del Ssn), attraverso diagnosi e “codici intervento” non sempre appropriati ai fini di garantire rimborsi maggiorati (Intervista#14).[14]

Scegliendo di privilegiare le strutture private, oltre a garantire profitti significativi ai grandi operatori privati, una regione come la Lombardia ha scaricato sul sistema pubblico gli interventi più onerosi e meno remunerativi e ha rafforzato il paradigma della clinicizzazione dell’intervento medico (Esposito, 2020).

L’approccio ospedale-centrico ha trovato conferma durante la pandemia con l’aggravante che l’ospedale non solo è rimasto l’unico punto di riferimento, ma è anche diventato un efficace veicolo di diffusione del contagio tra pazienti e sanitari. Questo anche a causa dell’alto tasso di ospedalizzazione di pazienti positivi non gravi che si è avuto in Lombardia soprattutto nella prima fase della pandemia. Nella scelta di ospedalizzare sembrano aver influito anche aspetti di natura medico legale e incentivi economici che nel privato accreditato assumono particolare rilevanza. In primo luogo, l’atteggiamento difensivo da parte del personale medico di pronto soccorso e, in secondo luogo, l’esigenza di prendere in carico un numero significativo di pazienti Covid-19, a fronte della sospensione degli interventi specialistici programmati. La conseguente saturazione dei posti letto ospedalieri ha quindi portato a trattenere sul territorio pazienti che, in altre circostanze, avrebbero dovuto essere messi in sicurezza mediante ricovero (Federazione Regionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Lombardia, 05/04/2020), riducendo così gli accessi a cure adeguate.

Diversamente dalla Lombardia, in Veneto le disposizioni a curare a domicilio i casi non gravi ha ridotto lo stress degli ospedali e soprattutto la diffusione del contagio tra i sanitari (Intervista#1).

2.2.6. La mancanza di un sistema di assistenza sanitaria di prossimità

Più persone intervistate hanno sottolineato come in una crisi come quella che ci siamo trovati ad affrontare avrebbero potuto fare la differenza gli avamposti della medicina territoriale: i medici di medicina generale, la medicina del lavoro e gli ambulatori di igiene e profilassi, che in passato hanno svolto un ruolo fondamentale nel prevenire la diffusione di una pluralità di patologie (Intervista#24).

Invece, a 40 anni dall’entrata in vigore della L. 833/78, la mancata costruzione di un sistema di assistenza territoriale capillare e, in particolare, la mancanza di un rapporto tra salute e territorio ha influito negativamente nella gestione della pandemia (Bodini, 2020). Come denunciato dalla Federazione Regionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Lombardia (2020), nel caso lombardo l’assenza di strategie relative alla gestione del territorio va ricondotta alla scelta dell’eccellenza ad ogni costo (Intervista#4).

Sebbene un tentativo di organizzare una medicina territoriale sia stato fatto in via sperimentale in Lombardia dalla Legge Regionale 23/2015, a distanza di 5 anni la sperimentazione è ancora aperta e non sembra che abbia prodotto i risultati sperati anche a causa della frammentazione dei soggetti pubblici e privati, che sono entrati in competizione tra loro (Intervista#25). Il tentativo di riproporre logiche concorrenziali sul territorio, per la presa in carico della cronicità, mettendo in contrapposizione cure primarie ed ospedaliere è stato fortemente criticato dai MMG (Tidoli 2020) e ha alimentato la frattura tra medicina di base e servizio sanitario nazionale. A conferma della distanza tra questi due mondi sanitari, vi è lo stato di abbandono durante la pandemia dei medici di medicina generale, a cui è stato chiesto di gestire l’emergenza sostanzialmente grazie al loro buon senso (Bodini, 2020).

Diversamente dalla Lombardia, in Emilia-Romagna la costruzione di un servizio sanitario più resiliente e radicato, unitamente alla latenza nella diffusione della pandemia ha dato il tempo di mettere in atto misure organizzative supplementari, che hanno permesso di alleggerire gli accessi ai reparti di pronto soccorso. Sia il sistema emiliano che quello veneto sono stati quindi in grado di mettere in atto un’azione mirata, tempestiva ed efficace a livello territoriale, che ha contribuito sensibilmente al contenimento del fenomeno grazie al forte supporto sul territorio della sanità pubblica (Bodini 2020). Tuttavia, anche in Emilia-Romagna e Veneto sono state denunciate gravi insufficienze e una grande mancanza di coordinamento tra strutture ospedaliere e medici di medicina di base (Intervista#10).

Nel complesso, la recente esperienza della pandemia ha mostrato che l’ospedale da solo non basta. Se la scelta di puntare su ospedali pubblici e cliniche private accreditate poteva forse risultare ragionevole quando la vita media delle persone era di circa 70 anni, la scelta di investire solo in grandi strutture di eccellenza a scapito del territorio non è più un’opzione praticabile oggi (Intervista#4). Come evidenziato da uno degli intervistati, si tratta di una scelta destinata a impattare in maniera più o meno rilevante in funzione di due parametri: il livello del PIL e l’età media della popolazione. La scelta di investire prioritariamente nelle strutture ospedaliere, trascurando il territorio, ha alimentato lunghissime liste d’attesa in particolar modo laddove vi è una popolazione con una età media elevata e un basso livello di reddito; diversamente, nei territori con un reddito più elevato e un’età media più bassa il ricorso al privato ha permesso di contenere le liste d’attesa (Intervista#20). Considerando i trend demografici e sociali del nostro paese, tra cui l’aumento delle aspettative di vita e del numero delle persone single e la conseguente evoluzione dei bisogni, l’investimento in grandi ospedali diventerà una scelta sempre meno funzionale.

Il nostro Paese conta quasi 14 milioni di persone over 65: una popolazione anziana con più patologie rispetto a quella degli altri paesi europei, che ha sempre più bisogno di cure, essendosi abbassata rispetto al passato la soglia di accettazione della malattia (Intervista#20). In un tale contesto, lo Stato e le Regioni saranno sempre più in difficoltà a rispondere a vecchi e nuovi bisogni. Inoltre, le modifiche della struttura familiare e la riduzione del numero dei figli renderanno sempre più gravosi i compiti di cura per un sistema di welfare come il nostro basato sul ruolo della famiglia (Intervista#4). In breve, le difficoltà emerse durante la pandemia confermano la necessità di investire in una rete sanitaria territoriale che presuppone non solo molto più personale, ma anche un’adeguata architettura istituzionale in grado di garantire un efficace coordinamento tra i diversi attori coinvolti (Bodini, 2020) e un cambiamento culturale, che coinvolga il personale medico, paramedico e tutta la cittadinanza.

3. Quali strategie e paradigmi possono contribuire a rafforzare la resilienza del sistema sanitario?

La riflessione sulle criticità del nostro sistema sanitario che la pandemia Covid-19 ha fatto esplodere conferma la necessità di investire più risorse nella sanità pubblica, investendo in primo luogo nel personale sanitario, che nel periodo acuto dell’emergenza è stato sottoposto a un sovraccarico di lavoro non sostenibile. Secondo alcuni intervistati emerge inoltre la necessità di introdurre una regolamentazione più restrittiva ed oculata dell’attività sanitaria affidata alle strutture private for profit al fine di contenerne le distorsioni e garantire una risposta più aderente ai reali bisogni sanitari e una maggiore possibilità di accesso alla prevenzione, alle cure e all’assistenza sociale senza spese aggiuntive per tutti i cittadini (Intervista#19).

Dalle interviste realizzate emergono alcune riflessioni su possibili piste di sviluppo, nell’ottica di una riorganizzazione del sistema sanitario a livello territoriale, che sia in grado di bilanciare i bisogni dei singoli e della comunità e sia attrezzato a governare situazioni di emergenza, come quelle connesse a epidemie e pandemie in un’ottica di cooperazione tra differenti comparti del Ssn e di coordinamento tra i diversi livelli sistemici e attori professionali (Campagna ‘Primary Health Care: Now or Never’, 2020).

3.1. Promuovere politiche di prevenzione efficaci

Complice un’informazione spesso confusa e contraddittoria, allo scoppio della pandemia ha prevalso una scarsa consapevolezza della popolazione circa la gravità della situazione. Il senso di responsabilità e l’impegno individuale ad assumere comportamenti corretti per contenere la diffusione del virus è però cresciuto nel corso delle settimane, man mano che il numero di decessi aumentava esponenzialmente. All’indifferenza è quindi seguita la paura mista al desiderio di una parte della popolazione d’informarsi. A spiegare la bassa consapevolezza iniziale ha contribuito la stessa modalità con cui è stata gestita la pandemia, o meglio lo scarso coinvolgimento della cittadinanza e la sua mancata responsabilizzazione attraverso un idoneo programma di prevenzione e sorveglianza epidemiologica che avrebbe potuto favorire l’assunzione di comportamenti corretti e un cambiamento degli stili di vita in maniera più consapevole e spontanea fin dall’apparire dei primi casi di contagio.

Come sottolineato da numerosi esperti, il futuro ci costringerà a confrontarci con un aumento sia di patologie degenerative quali l’ipertensione, il diabete, i problemi vascolari, sia di patologie oggi sconosciute in cui il comportamento dei cittadini sarà determinante (Intervista#15). Così come in passato la medicina del territorio ha permesso di vincere contro molte patologie determinate da condizioni di vita poco igieniche (Intervista #2) e da contaminazioni ambientali, oggi i sistemi sanitari regionali non hanno altra scelta che investire nell’educazione sanitaria (Agnoletto 2020). A questo riguardo alcuni intervistati hanno fatto ricorso ad esempi del passato per invitare a riscoprire pratiche mediche che potrebbero favorire questa opera di prevenzione: quello dei medici che nei secoli scorsi si recavano nelle miniere di carbone a verificare le condizioni di vita dei propri pazienti (Intervista#9), e quella dei laboratori di profilassi che hanno permesso di vincere malattie virali come la rabbia, hanno portato avanti campagne contro contaminazioni ambientali nocive per la salute, come il vino al metanolo e i pomodori al temik, e hanno permesso di fare diagnosi precoci grazie alla medicina sociale nelle fabbriche e scuole (Intervista#24). È quindi evidente che le sfide che ci aspettano potranno essere affrontate opportunamente solo investendo in maniera significativamente maggiore in una medicina fondata sulla collaborazione tra cittadinanza, sanità e ambiente. Di qui, l’importanza di un’educazione al rischio, che incoraggi l’assunzione di stili di vita rispettosi della natura che ci circonda (Intervista#28).

A questo proposito, un tema particolarmente attuale è quello della tracciabilità dei contagi. Alcuni intervistati ritengono che la tracciabilità potrebbe essere garantita in maniera più efficace se si ricorresse al coinvolgimento di personale in grado di dialogare con i pazienti e ricostruire i contatti avuti con persone portatrici di patologie. È tracciando i contatti via telefono che sono stati isolati i focolai veneti nell’ambito dell’esperimento di Vo’ Euganeo. Ed è la strada del contact-tracing vecchia maniera a essere stata intrapresa anche da alcuni paesi colpiti dalla recente pandemia. Tra questi il Massachusetts, il primo Stato USA a investire ben 44 milioni di dollari e assumere 1.000 operatori in un ambizioso programma gestito dall’ONG Partner in Health, un’organizzazione con una vasta esperienza internazionale nella gestione di epidemie (ebola, zika, colera). Idem l’Irlanda che, mettendo in atto il più grande esercizio di riconversione occupazionale nella storia irlandese, ha arruolato più di mille persone. Come riferito dal Financial Times, l’Inghilterra ha varato un programma d’emergenza su larga scala per formare operatori sanitari di comunità (Community Health Workers) con il compito di supportare le persone più vulnerabili, nell’intento di estendere tale modello di assistenza proattiva, incluso il contact-tracing, a tutta la popolazione del Regno Unito (Innocenti et al. 2020).

3.2. Sviluppare un’assistenza sanitaria territoriale

Un approccio partecipato presupporrebbe un radicale cambio di prospettiva rispetto a com’è attualmente considerata la salute pubblica: andrebbe concepita come un valore profondamente collettivo, di cui tutti siamo responsabili (Bodini, 2020). In altre parole, non possiamo pensare alla salute solo in ottica “riparativa”, quando è danneggiata e va “riparata” (ibidem). Di qui, la necessità di superare l’idea che la salute si faccia solo nei centri di cura, negli ambulatori, negli ospedali e focalizzarsi maggiormente su una medicina protettiva di comunità, che rifletta le caratteristiche sociali, demografiche ed economiche dei diversi territori (Intervista#28).

Partendo dal concetto di “salute”, definito dall’OMS come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”, è in sintesi fondamentale concentrarsi sul potenziamento della prevenzione primaria destinata a tutta la popolazione, ad esempio attraverso l’adozione di stili di vita e lavoro sani e della prevenzione della medicina di base (medicina preventiva secondaria). Solo quando fallisce la medicina preventiva, dovrebbe entrare in gioco la medicina riparativa, intesa come terzo livello che, diversamente dagli altri interventi, presuppone investimenti rilevanti in strutture sanitarie di grandi dimensioni (Intervista#21).

3.2.1. Ridefinire i rapporti ospedale-territorio

Pur essendo un presidio fondamentale e irrinunciabile, l’ospedale andrebbe ripensato come una delle componenti, non più “la” componente totemica delle politiche e degli investimenti sanitari (Esposito 2020). Al modello ospedale-centrico andrebbe contrapposto un sistema capillare di medicina del territorio, che faccia assegnamento su reti di monitoraggio, informazione e assistenza sociosanitaria. Un sistema che funga da scudo e antenna rispetto a situazioni come quella che stiamo vivendo e che contribuisca a promuovere una cultura della salute come bene comune. Un sistema come quello descritto dovrebbe fare affidamento sulla consapevolezza e la responsabilità di ciascuno (Landra et al., 2019).

Di qui la necessità di investire maggiormente in informazione per migliorare la consapevolezza sanitaria della popolazione circa la finitezza delle risorse a disposizione e la futilità di molti interventi sanitari e terapie, la cui riduzione potrebbe liberare risorse da destinare a interventi d’importanza prioritaria. Non è un caso che in piena pandemia gli accessi di pronto soccorso per patologie diverse da quelle respiratorie si siano drasticamente ridotti. A detta di un intervistato, ciò è avvenuto non solo a seguito della riduzione del rischio connesso al lockdown, ma principalmente per ragioni di autotutela. Sarebbe stata invece auspicabile una maggiore presa di coscienza del ruolo essenziale svolto dai punti di primo intervento, spesso utilizzati come surrogati delle strutture ambulatoriali per prestazioni non urgenti o comunque differibili per cattiva informazione o difficoltà di accesso ai servizi ambulatoriali del sistema sanitario pubblico (Intervista#27).

L’alfabetizzazione sanitaria – intesa come la capacità delle persone di accedere, comprendere, elaborare e applicare informazioni a tutela della propria e altrui salute – è quindi ritenuta indispensabile non soltanto in situazioni di cronicità, ma anche per la prevenzione di patologie infettive a rapida e drammatica diffusione e per aumentare la consapevolezza della cittadinanza sul corretto utilizzo dei servizi a sua disposizione. (Bonaccorsi, Lorini, 2020). A questo scopo andrebbe ripensato il modello medico-centrico e andrebbe ridata centralità a infermieri e assistenti sanitari che sono in contatto continuo con le persone che abbisognano di assistenza (Intervista#12).

Giova sottolineare a questo riguardo alcune novità introdotte dal Decreto Legge 19 maggio 2020, n. 34 (il così detto “Decreto Rilancio”) che tra le varie misure urgenti in materia di salute nonché di politiche sociali, connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19, ha previsto il potenziamento e la riorganizzazione della rete assistenziale, il rafforzamento dei servizi infermieristici distrettuali, con l’introduzione dell’infermiere di famiglia o di comunità, l’assunzione di assistenti sociali e socio-sanitari.

Come rimarcato da alcuni intervistati, il tema di fondo dovrebbe tornare ad essere la comunità, dove il cittadino dovrebbe trovare risposte alla maggior parte dei suoi problemi. Comunità, come luogo d’incontro, aggregazione dei bisogni, valorizzazione delle risorse tangibili e intangibili, e luogo di co-definizione delle strategie di intervento grazie alla partecipazione dei diversi attori pubblici e privati. Al pari di altri bisogni, i problemi sanitari tendono, infatti, a cambiare in misura significativa da territorio a territorio in funzione di alcune caratteristiche demografiche, sociali, ambientali. Il territorio è stato trascurato in maniera diversa nelle varie regioni e, quando preso in considerazione, è stato concepito come funzionale all’ospedale; invece, il tema della salute dovrebbe basarsi sui servizi sanitari di base e l’ospedale dovrebbe essere concepito come integrativo.

Se, infatti, guardiamo al cittadino, ciò di cui ha bisogno è un processo che garantisca, da un lato, un forte rinnovamento e potenziamento dell’offerta assistenziale territoriale – residenziale e semiresidenziale; domiciliare extramurale; agli anziani e ai disabili; domiciliare integrata; ai malati psichiatrici; hospice per i malati terminali – e dall’altro la continuità della cura, ben al di là del ricovero ospedaliero (Intervista#7). Invece, in quanto fulcro dell’assistenza sanitaria, l’ospedale tende ad andare per conto suo in maniera autoreferenziale, disinteressandosi di cosa avviene quando il paziente viene dimesso (Intervista#6). In una logica di continuità, potenziare il territorio significherebbe, quindi, rafforzare anche lo stesso ospedale (Intervista#5). A questo riguardo, alcuni intervistati sottolineano la necessità di aumentare la concentrazione degli ospedali, altri rimarcano invece l’importanza di trovare un giusto equilibrio tra strutture centralizzate di alto livello e strutture ospedaliere decentrate a tutela delle persone che vivono in aree periferiche (Intervista#15).

3.2.2. Riorganizzare la governance della medicina di base e specialistica

La riorganizzazione della sanità in senso territoriale presuppone un ripensamento della governance e dell’organizzazione della medicina di base e della specialistica ambulatoriale e quindi, dei ruoli, modalità di lavoro e contratti lavorativi del personale coinvolto (Dente, 2020). Non poche contraddizioni derivano dal fatto che i medici di medicina di base siano legati al Ssn da un accordo stipulato a livello nazionale, che ne regola i rapporti, le funzioni ed i compiti (Intervista#20), ma non essendo incardinati come dipendenti delle ULSS/ATS, non possono operare in continuità con i servizi di pronto soccorso e non sono soggetti ad assessment (Intervista#20). Di qui, il complicato rapporto tra strutture ospedaliere e medicina di base, che si ripercuote inevitabilmente sui pazienti (Intervista#14). La mancanza di un continuum si traduce nell’incapacità di garantire un’assistenza H24, che rende necessario il ricorso al pronto soccorso in caso di emergenze soprattutto per quelle categorie di pazienti con patologie che richiedono assistenza maggiore e continuativa, come ad esempio i malati di Alzheimer, i cardiopatici e i malati terminali.

Oltre ad un ripensamento dei contratti di lavoro e delle modalità di remunerazione del personale medico al fine di superare la frammentazione attuale (Intervista#20), la riorganizzazione della sanità territoriale dovrebbe presupporre anche il superamento della specialistica ambulatoriale all’interno delle ULS. I medici specialisti andrebbero ancorati alle strutture ospedaliere onde evitare ridondanze che si traducono non solo in un inutile aumento della spesa sanitaria (Intervista#20), ma anche in estenuanti traversie per i pazienti (Intervista#16).[15] Nell’ottica di garantire assistenza domiciliare H24 ed evitare il ricorso al 112 per qualsiasi problema, una possibilità potrebbe essere la costituzione di team multidisciplinari (medici di famiglia, infermieri di comunità, specialisti, operatori sociali) con lo scopo di identificare e trattare precocemente i problemi di salute della popolazione e prevenirne o ritardarne l’aggravamento (Intervista#12). L’associazione tra diverse figure professionali potrebbe non solo migliorare la capacità di gestire le problematiche connesse alle malattie croniche, ma permetterebbe anche di intervenire in maniera più efficace e tempestiva nel caso di epidemie infettive (Maciocco, 2020b).

3.2.3. Stimolare un processo di rinnovamento culturale

La frattura tra medicina del territorio e medicina ospedaliera è ricondotta da alcuni intervistati a ostacoli di natura culturale, tra cui numerosi pregiudizi e paure che impediscono il dialogo e la comprensione tra diverse categorie professionali, chiamate spesso ad affrontare le medesime problematiche sul campo.[16] Di qui la necessità di impegnarsi in un profondo lavoro di rinnovamento culturale e scientifico, che richiede giocoforza tempi medio-lunghi (Falzone, 2020).

Si tratta di un percorso non dissimile dal cambiamento culturale che accompagnò il processo di trasferimento di centinaia d’infermieri e decine di medici dai manicomi al territorio a seguito della deistituzionalizzazione degli ospedali psichiatrici negli anni Ottanta. Un cambiamento radicale che non fu privo di conflitti e scontri con il mondo sindacale e gli infermieri, divisi tra giovani infermieri volenterosi di sperimentare nuove iniziative di impresa non per il profitto ma per perseguire il benessere generale, e infermieri tendenzialmente più anziani e conservatori, affezionati allo status associato al lavoro ospedaliero (Intervista#23).

Da un punto di vista professionale, lo studio delle cure primarie e della medicina di famiglia è attualmente basato esclusivamente sull’impegno e buona volontà dei singoli medici, i quali sono tenuti a svolgere un percorso formativo al di fuori dell’università, gestito autonomamente dai medici di medicina generale (MMG) a livello regionale. Urge la necessità di allinearsi a quei paesi in cui la medicina di famiglia e di base è diventata una specializzazione accademica (Maciocco, 2020b) anche al fine di rendere questa professione maggiormente attraente per molti giovani medici (Dente, 2020). Come sottolineato da Bordignon e Turati (2020), sarebbero a questo proposito auspicabili investimenti nelle università, in particolare nelle Facoltà di Medicina e Chirurgia, che dovrebbero definire i percorsi formativi per una nuova specializzazione in medicina territoriale che possa formare nuove figure.

3.2.4. Garantire un’assistenza sociosanitaria a tutte le persone in condizione di vulnerabilità ed emarginazione

Le difficoltà connesse all’emergenza Coronavirus sono maggiori per alcuni gruppi di persone particolarmente vulnerabili e fragili. Tra le persone più esposte vi sono, innanzi tutto, coloro che vivono in luoghi sovraffollati come case di riposo, carceri, centri di detenzione amministrativa (Roman, 2020), insediamenti informali, centri di accoglienza e tutti coloro che non hanno una fissa dimora e sono quindi costretti a vivere per strada o nei dormitori.

Tra questi, gli anziani hanno pagato il tributo maggiore in termini di vite umane anche a causa della scelta scellerata di trasferire pazienti positivi al Covid-19 nelle residenze sanitarie assistenziali (RSA), sebbene fosse chiaro da mesi che erano gli anziani ad essere le persone più a rischio. Ed è nelle RSA che è avvenuto il 50% dei contagi e si è verificata una percentuale assai maggiore di morti: oltre metà dei 26.422 anziani deceduti a causa del Covid al 27 maggio 2020, con il Pio Albergo Trivulzio, la più grande casa di cura italiana, diventato il simbolo del dramma in cui è precipitato l’intero Paese, (Di Feo, 2020; De Giorgio, De Riccardis, 2020). Ciò nonostante, le persone più fragili sono state lasciate morire senza una cura o quantomeno senza una cura adeguata, in ragione del loro essere anziane o disabili (De Carli, 2020).

La tragedia a cui abbiamo assistito rimette al centro del dibattito due aspetti: la necessità di ribadire con forza il diritto universale alle cure (Comunità di Sant’Egidio, 2020) e di affrontare invecchiamento, disabilità e cronicità in un’ottica integrata di welfare, prevenzione e cura (Paci, 2020). Di qui la necessità di progettare soluzioni abitative diverse dai grandi istituiti dove, in una prospettiva di più lungo periodo, potrebbero essere ospitate le persone anziane, rivelandosi le RSA una soluzione sempre più inadeguata a fronteggiare i bisogni di quella quota crescente di popolazione che, a causa del progressivo invecchiamento, si trova in condizioni di non autosufficienza (Majorino 2020; Razetti 2020).

Altre persone potenzialmente a rischio sono i richiedenti asilo ospitati presso centri di accoglienza sovraffollati. Ad aumentare la loro esposizione a fattori di rischio sanitario hanno in particolar modo inciso le modifiche introdotte dal del D.L.113/18, convertito in L. 132/18, che hanno modificato profondamente il sistema di accoglienza, smantellando l’accoglienza diffusa a favore dell’accoglienza collettiva in centri di grandi dimensioni. Per quanto riguarda i grandi centri di accoglienza, i richiedenti asilo che hanno la possibilità di lavorare all’esterno del centro sono potenziali vettori del virus che, se portato in ambienti in cui il distanziamento sociale è impossibile, rischia di avere effetti gravissimi. Si noti che l’eventualità del contagio non è remota: sono stati, infatti, segnalati alcuni casi di contagio all’interno di centri di accoglienza[17] e misure straordinarie sono state previste per il loro contenimento dal Ministero dell’Interno.[18] Anche oggi, in un momento in cui gli arrivi sono stati drasticamente ridotti per via degli accordi controversi con la Libia,[19] non esiste in Italia un sistema di accoglienza che sia in grado di gestire nuove emergenze, imparando dalle esperienze passate (e in particolare dagli anni della cosiddetta “crisi dei rifugiati” del 2015-2017) (Giannetto, 2020; Beires, 2020).

Esistono poi alcune categorie di soggetti, spesso dimenticate, come ad esempio i migranti fuori accoglienza e i migranti irregolari, le persone senza fissa dimora e i Popoli romanì, che vivono spesso ammassati in insediamenti informali. Quindi, in luoghi in cui è particolarmente complicato rispettare misure igieniche e di distanziamento sociale e dove spesso mancano strumenti di protezione. Si tratta di persone che non trovano normalmente risposta nel nostro sistema sanitario pubblico e tendono a rivolgersi al pronto soccorso quando presentano problemi di natura sanitaria (Intervista#12). Sono gruppi particolarmente esposti al rischio di problemi di salute in generale che, a causa delle precarie condizioni abitative, il basso tasso di scolarità e di occupazione e le difficoltà di accesso ai servizi sanitari, in caso di contagio sarebbero difficilmente soggetti a monitoraggio dei primi sintomi da Covid-19, esponendo quindi se stessi e la collettività ai rischi correlati. Nel caso delle persone senza fissa dimora, la letteratura scientifica sottolinea da tempo come la vita in strada e nei servizi di bassa soglia rappresentino un fattore di rischio per la salute e l’incolumità fisica, rischio che in caso di epidemie e pandemie inevitabilmente esporrebbe queste persone alle conseguenze più gravi (Stefani, 2020).

Vista l’eccezionalità della situazione generata dalla pandemia, appare pertanto inspiegabile sia la chiusura di strutture e campi temporanei per persone senza fissa dimora decretata da alcune amministrazioni,[20] sia la mancata predisposizione di soluzioni abitative idonee. Questo non solo a tutela dei diritti delle persone interessate, ma anche della salute pubblica e nell’ottica del contenimento dei rischi sociali connessi alla chiusura temporanea di molti servizi. La presenza di persone senza fissa dimora, prive di qualsiasi riferimento e costrette a vagare come fantasmi in città disabitate ha infatti aumentato la tensione sociale in maniera significativa in alcuni territori (Intervista#26).

In un’ottica di salvaguardia dell’igiene pubblica non si comprende la mancanza di strategie di prevenzione della diffusione del contagio mirate ad incentivare l’accesso delle persone senza fissa dimora e di altre categorie socialmente escluse ai servizi sanitari e sociosanitari pubblici, in aggiunta agli ambulatori promossi in molte città da istituzioni religiose e associazioni di volontariato grazie alla collaborazione gratuita di centinaia di medici. Questi ambulatori sono spesso gli unici presidi medici di riferimento; tra questi, si ricordano i presidi gestiti da Emergency e da Medici Senza Frontiere, che svolgono una fondamentale funzione epidemiologica a favore di utenti sconosciuti alle anagrafi sanitarie, come le sex worker e i braccianti irregolari (Intervista#13).[21]

Box 1. NAGA è un’associazione di volontariato nata a Milano nel 1987 che fornisce tramite 400 volontari assistenza sanitaria, legale e sociale gratuita a cittadini stranieri irregolari e non, a rom, sinti, richiedenti asilo, rifugiati e vittime di tortura, oltre a portare avanti attività di formazione, documentazione e lobby sulle istituzioni. In ambito sociosanitario, offre servizi di medicina di base e specialistica, consulenze psicologiche, psichiatriche e di orientamento ai servizi. Inoltre effettua un costante monitoraggio dell’applicazione del diritto alla salute e denuncia ogni violazione. Le attività sanitarie si svolgono sia nella sede dell’Associazione che sul territorio. L’associazione NAGA collabora strettamente con il SIMM (Società Italiana di Medicina delle Migrazioni).

 

3.2.5. Ricongiungere la dimensione sociale con quella sanitaria

Impoverendo il sistema di medicina territoriale, il paradigma dell’ospedalizzazione ha portato alla desertificazione dell’elemento sociale, relazionale e umano della sanità (Esposito 2020). Quindi, sebbene a livello normativo l’importanza di curare la persona nella sua globalità sia sancita da numerose normative nazionali (L. 328/2000, L. 833/78) e regionali e ci siano numerose esperienze positive di riorganizzazione territoriale dei servizi sociosanitari in questa direzione, sociale e sanitario continuano a rispondere a due filiere distinte (Aburrà 2016). In mancanza di una medicina che risponda alle esigenze di tutta la comunità, la strategia prevalente è quella di voler guarire e sanare a tutti i costi l’organo malato senza considerare le aspettative della persona malata, tendendo di conseguenza a cronicizzare il paziente (Intervista#9). La pandemia conferma, quindi, l’urgenza di rovesciare il paradigma sanitario al fine di tornare a una dimensione sociale della medicina e a una dimensione territoriale della sanità che sappiano armonizzare le competenze dei diversi professionisti coinvolti: medici, infermieri, assistenti sociali, operatori socio assistenziali (OSS). Sebbene spesso isolati, gli esempi positivi di welfare di comunità che hanno saputo integrare la componente sanitaria e sociale non mancano.

Box 2. Prima la Comunità è un’associazione, evoluzione naturale del Manifesto sulla salute promosso dalla Fondazione Santa Clelia Barbieri e dalla Casa della carità di Milano a cui aderiscono numerose persone impegnate nell’ambito delle politiche sociali e della sanità pubblica di tutta l’Italia. Partendo dalla necessità di superare attraverso un’azione politica, ecologica, pedagogica e di solidarietà umana, l’approccio assistenziale e riparativo tipico del nostro sistema sanitario, l’associazione propone un ripensamento profondo dell’idea di salute/benessere e della riorganizzazione dell’avere e dare cura. Prima la Comunità promuove una nuova visione di comunità che sappia valorizzare tutte le risorse umane, economiche, sociali, strutturali presenti sul territorio. A questo proposito, dà visibilità e voce ad alcune pratiche particolarmente rilevanti tra cui le progettualità comunitarie che hanno realizzato i così detti “budget integrati di welfare di comunità” come risultato di alleanze plurali e consapevoli, l’esperienza delle “Case della salute” e altre forme strutturate di cure primarie integrate (Prima la Comunità, 2019). Interessante è un lavoro di ricerca/laboratorio di formazione, finalizzato a mettere insieme le diverse componenti sociali nei contesti locali denominato “Community Building” e condotto congiuntamente con l’Università Bocconi e la Scuola Superiore S. Anna di Pisa insieme a Fiaso e Federsanità-Anci che coinvolge 29 realtà locali (Aziende sanitarie, Enti locali, associazioni e cooperative sociali).

 

3.2.6. Utilizzare le nuove tecnologie

Un aspetto che la crisi sanitaria e sociale, determinata dall’emergenza Covid-19 ha fatto emergere è il gravissimo ritardo nel processo di digitalizzazione. La pandemia ha evidenziato l’arretratezza tecnologica del sistema sanitario a causa di sistemi informatici desueti e frammentati, che non sono stati capaci di garantire una comunicazione efficace, sia interna al territorio che fra territorio e ospedale (Campagna ‘Primary Health Care: Now or Never’, 2020). Allo stesso tempo, la pandemia ci ha confermato che la digitalizzazione non è una sfida così irraggiungibile, se si considera la quantità di persone anziane sempre più digitali (Intervista#11). Ma affinché la digitalizzazione non diventi un elemento di disuguaglianza e possa essere messa a disposizione di tutti, in particolare di chi ne ha più bisogno, va certamente accompagnata da un investimento (Intervista#12) per rendere le tecnologie accessibili e diffuse.

Il sistema sanitario nazionale ha sofferto per anni dell’assenza di dati e informazioni centrate sul paziente, per ovviare alla quale è nato il percorso di costruzione del cosiddetto Nuovo Sistema Informativo Sanitario, alimentato da flussi informativi su base individuale relativi alle prestazioni erogate dal Ssn. A detta di un intervistato si tratta di uno dei patrimoni informativi tra i più completi e strutturati al mondo, in quanto abiliterebbe i soggetti istituzionali che possono disporre di tali dati, e in particolare il Ministero della Salute, alla raccolta e analisi di dati per supportare la programmazione e pianificazione sanitaria (Intervista#13).

Ciò detto, il percorso di digitalizzazione della sanità in Italia è ancora all’inizio per due ragioni. In primo luogo, il Fascicolo Sanitario Elettronico, che dovrebbe essere la base di condivisione delle informazioni del paziente tra gli operatori, non è stato ancora implementato appieno (Intervista#9). In particolare, l’informatizzazione realizzata riflette, a detta di un intervistato, l’autoreferenzialità delle categorie professionali coinvolte, con una pletora di piattaforme che non dialogano fra loro, rendendo molto complesso consolidare anche solo una base dati comune (Intervista#5).

Anche sul fronte della telemedicina la strada è in salita, nonostante sia un tema con grandi potenzialità di sviluppo, presente sul tavolo del sistema sanitario da oltre 30 anni. Se durante la pandemia fosse stato possibile monitorare i parametri da remoto, sarebbero state fatte molte più diagnosi Covid-19 tempestive, limitando al tempo stesso l’afflusso di persone potenzialmente infette agli ospedali. Invece, anche nei territori considerati tra i più avanzati dal punto di vista economico e tecnologico, si è cominciato a parlare di telemedicina soltanto dopo oltre un mese dallo scoppio della crisi (Maino, 2020a). La telemedicina permetterebbe inoltre di portare a casa dei pazienti una serie di competenze che sono oggi accentrate negli ospedali. E il monitoraggio di molte patologie da remoto permetterebbe di raggiungere in misura maggiore o migliore chi si trova in difficoltà (Dente, 2020).

L’attuale crisi potrebbe essere l’occasione per accelerare lo sviluppo di forme di tele-assistenza rivolte ai più anziani, per assisterli nel prosieguo dell’emergenza e potrebbe, inoltre, permettere di strutturare modelli di assistenza a distanza in grado di migliorare l’accesso alle cure (Valassina, 2020). La pandemia ha accelerato la diffusione di modalità di “cura virtuale” che sono state apprezzate da curanti e pazienti, perché efficaci e a costi contenuti (Intervista#1). Il ritorno alla normalità, che richiederà un lungo percorso di transizione, ci offre l’opportunità di riflettere criticamente sul modus operandi della medicina.

I possibili scenari di sviluppo sono tre: i) il recupero del contatto diretto con il paziente nei luoghi e tempi consueti, una volta passata l’emergenza; ii) la sostituzione dell’ambulatorio come luogo simbolo del tradizionale modo di cura con il web (tele-visita, tele-monitoraggio, tele-assistenza, tele-riabilitazione), relegando il primo a reperto dei musei di storia della medicina; iii) l’integrazione tra prossimità fisica quando necessario e modalità di cura virtuale (Intervista#1). La maggioranza degli intervistati propende per il terzo scenario ritenendo che, per quanto presenti enormi potenzialità, la telemedicina non possa prescindere dall’empatia nella relazione medico-paziente ed operatore-paziente.

Deve quindi essere intesa come integrativa e funzionale sia allo snellimento di alcuni percorsi diagnostici nell’interesse del paziente, sia alla riduzione delle liste di attesa delle visite ambulatoriali (Intervista#9). La relazione personale deve rimanere, quindi, un fondamentale strumento “terapeutico” di una sanità che non solo “cura” ma che si “prende cura” (Intervista#27) e incoraggia le persone a “curarsi” (Intervista#28). A questo riguardo, un solo intervistato prevede il tramonto dell’esame obiettivo ed evidenzia come il contatto fisico con il paziente possa essere nella maggior parte dei casi sostituito completamente dalla visita a distanza che, nelle circostanze attuali, oltre a rivelarsi più pratica, annulla anche i rischi di contagio (Intervista#11).

In conclusione, per avere successo l’innovazione tecnologica deve essere accompagnata anche da innovazioni organizzative, essendosi dimostrato – come ricorda un intervistato - fallimentare innestare nuove tecnologie su vecchi modelli. Di qui, emerge la necessità di ideare strumenti tecnologici su misura in funzione delle professionalità degli operatori (Intervista#5).

4. Attraverso quali istituzioni è possibile sostenere un’attiva partecipazione dei cittadini nella gestione della salute pubblica?

La promozione di un’efficace strategia di prevenzione, assistenza territoriale, integrazione sociosanitaria e utilizzo virtuoso delle tecnologie, presuppone un ripensamento della governance del sistema, dei modelli organizzativi e delle relazioni tra gli attori coinvolti soprattutto a livello territoriale. Non saranno discussi in questa sede i problemi di coordinamento Stato-Regioni, all’origine di numerosi conflitti politici e problemi operativi negli ultimi mesi (Bordignon e Turati 2020). Tuttavia, a detta della maggioranza degli intervistati, è fondamentale che lo Stato recuperi il ruolo di regia del sistema sanitario definendone, innanzitutto, il disegno strategico complessivo in termini di ruoli e regole attraverso un processo condiviso ma vincolante per le Regioni, le quali dovrebbero però mantenere la responsabilità della declinazione contestuale degli indirizzi nazionali. Ed è parimenti importante che siano raccordati i temi dell’ambiente e della sanità, garantiti canali di finanziamento autonomi e adeguati alle agenzie per l’ambiente e riaccorpate le competenze che afferiscono alla prevenzione primaria (Intervista#24).

La pandemia ci suggerisce anche che, nel rispetto delle linee guida strategiche che dovrebbero essere definite a livello centrale, in un’ottica di sussidiarietà, l’organizzazione del sistema sanitario dovrebbe essere avvicinata al territorio, dotato di strumenti adeguati. La recente assunzione di ruolo di molti sindaci rimette al centro del dibattito la dimensione locale della gestione della salute e ci porta a riflettere sul ruolo dei sindaci così come sancito dall’art 32 della L. 833/1978 e dell’art. 117 del D.lgs. 112/1998, in quanto titolati a vigilare sulla salute pubblica dei cittadini e del territorio e giuridicamente responsabili dell’emanazione di “ordinanze contingibili ed urgenti” con efficacia estesa al territorio comunale in caso di emergenze sanitarie e di igiene pubblica, come quelle indotte da malattie infettive che potrebbero esporre la cittadinanza a rischi e pericoli per la salute (Intervista#15).

Di qui, l’importanza di focalizzarsi sugli attori locali che si adoperano per tutelare la salute tra cui le organizzazioni di Terzo settore. Analizzeremo quindi i diversi ruoli, limiti, principali dinamiche evolutive e condizioni di contesto necessarie a valorizzare al meglio il contributo della società civile organizzata in risposta alla pluralità di bisogni di natura sociosanitaria sempre più complessi, che i territori esprimono.

4.1. L’arcipelago del Terzo settore

È indubbio che in questi mesi in cui il sistema sanitario si è trovato sull’orlo del collasso e il sistema economico si sta confrontando con una crisi senza precedenti, il Terzo settore nelle sue varie forme – dal volontariato alla componente più imprenditoriale – abbia svolto un ruolo fondamentale. Il Terzo settore ha da una parte continuato a garantire i propri servizi contro ogni ostacolo, dalla mancanza di DPI, alla presenza di indicazioni contrastanti da parte delle autorità pubbliche (Intervista#12); dall’altra, un numero significativo di organizzazioni è stata in grado di modificare in poche settimane la propria offerta di servizi e si è impegnata per assicurare servizi essenziali ai cittadini e alle comunità in cui operano, ponendo particolare attenzione alle fasce più deboli della popolazione (Bernardoni, 2020a).[22]

Nell’analizzare le peculiarità e le linee evolutive del Terzo settore, molti intervistati si sono soffermati sulla capacità di queste organizzazioni di leggere e intercettare i bisogni a fronte di un’inappropriatezza strutturale delle unità sanitarie locali (Intervista#10). E questa capacità appare tanto più spiccata quanto più il Terzo settore è radicato sul territorio e incline a collaborare con altri attori secondo logiche di coprogettazione.

Richiamando i valori della solidarietà, mutualità e partecipazione, gli intervistati concordano che le organizzazioni di Terzo settore potrebbero contribuire a rispondere a un più ampio insieme di bisogni sanitari e sociosanitari la cui mancata soddisfazione è all’origine di numerose criticità. Molti ritengono che la capacità del Terzo settore di stimolare un’evoluzione del sistema grazie alla contaminazione di pensieri che esso innesca, non sia adeguatamente valorizzata e andrebbe potenziata soprattutto nello sviluppo della medicina territoriale in una logica di continuità con la medicina ospedaliera.

La scarsa valorizzazione del Terzo settore, confermata a detta di un intervistato dagli ostacoli frapposti nell’applicazione delle parti più qualificanti del Codice del Terzo Settore in vigore da ormai tre anni (Intervista#25), è ricondotta da alcuni al dibattito spesso fuorviante che, contrapponendo in modo generico pubblico e privato, tende a ignorare le specificità che connotano le organizzazioni di Terzo settore. Di qui la necessità di distinguere innanzi tutto tra i valori e la mission di un’organizzazione di Terzo settore che opera in ambito sociosanitario e una clinica privata accreditata. Mentre un’organizzazione di Terzo settore nasce per rispondere ai bisogni delle persone e della comunità e mira a migliorarne il benessere, il fine ultimo di una clinica privata rimane quello di generare profitti e distribuirli ai propri proprietari. Il suo guadagno è, infatti, nella cura del malato - sebbene attraverso l’erogazione di prestazioni di alta qualità - non nella prevenzione (Nalbone, 2020).

Ad alimentare molti pregiudizi nei confronti del Terzo settore è certamente il ruolo subalterno che una parte di organizzazioni ha assunto a seguito dei processi di esternalizzazione dei servizi sociosanitari e che ha portato un numero crescente di organizzazioni a gestire prestazioni sanitarie per conto della sanità pubblica. A questo riguardo, soffermandosi sulle diverse direzioni di sviluppo del Terzo settore, alcuni intervistati rimarcano come esso sia stato in molti casi utilizzato – e si sia prestato – esclusivamente per “aziendalizzare l’offerta sanitaria” diventando così a tutti gli effetti un “player del mercato sanitario” che ha permesso alle pubbliche amministrazioni di contenere i costi in maniera significativa grazie alla fornitura di forza lavoro, in particolare personale infermieristico, a basso costo.

Sotto accusa sono messe in primo luogo le gare al massimo ribasso che, favorendo il Terzo settore meno ancorato al territorio, hanno generato fenomeni distorsivi, contribuendo a degradare la qualità dei servizi sanitari e sociosanitari e del lavoro.

Come ricordato da Bernardoni e Picciotti (2019) e da Fazzi e Longhi (2009), la prevalenza delle logiche competitive su quelle collaborative si afferma dalla metà degli anni ‘90 in poi, dopo decenni in cui la collaborazione tra amministrazioni pubbliche e cooperative sociali aveva favorito l’innovazione di una parte importante dei servizi di welfare. In quegli anni si diffonde l’utilizzo delle gare di appalto quale strumento regolatore del mercato, aumenta la pressione da parte delle amministrazioni pubbliche sul lato dei costi e, in modo più generale, si realizzano politiche volte a favorire la concorrenza tra i soggetti erogatori dei servizi socioassistenziali. Complice una giustizia amministrativa che ha sempre avuto un occhio benevolo nei confronti delle logiche competitive, la logica concorrenziale subisce una forte accelerazione dopo il 2010.

La co-progettazione, prevista dalla Legge 328/2000 e poi rilanciata dal Codice del Terzo settore, seppure, assai più frequente di un tempo è ancora sottoutilizzata e la pratica della collaborazione tra attori pubblici e cooperative sociali è sostituita, in definitiva, dalla concorrenza tra i diversi soggetti privati erogatori (Bernardoni, Picciotti, 2019).

Nella realtà è doveroso ricordare che il Terzo settore non si limita a operare per conto delle pubbliche amministrazioni, ma si articola in una pluralità d’iniziative che, sebbene presentino caratteristiche, bisogni e trend evolutivi molto diversi, svolgono spesso in silenzio un ruolo di grande rilevanza sociale a tutela della salute. È questo sia il caso del mondo del volontariato che della componente più imprenditoriale del Terzo settore, che spesso origina da iniziative volontarie. Sebbene il ruolo delle organizzazioni di volontariato sia riconosciuto all’unanimità come fondamentale soprattutto negli ambiti che richiedono elevate capacità relazionali, come l’accompagnamento a visite mediche, il ritiro dei farmaci, il supporto in ospedale, alcuni intervistati mettono in dubbio la tenuta del volontariato per l’erogazione di servizi che presuppongono invece una continuità dell’offerta e l’impiego di professionalità tecniche. Di qui la necessità -secondo alcuni - di strutturare in questi casi il servizio attraverso modelli organizzativi idonei che vedono in primis implicata l’impresa sociale (Interviste#10 e #20).

Box 3. L’impresa sociale consorzio Girasole è un’esperienza di welfare innovativo nata nel 2019 in risposta a due esigenze differenti: da un lato la nuova normativa regionale sull’integrazione sociosanitaria (Legge Regionale 2015/23), che imponeva la separazione tra la forma programmatoria e quella gestionale, e la necessità di rafforzare un meccanismo di partnership tra pubblico e privato, che era ormai operativo da dodici anni. Nasce non a caso nel lecchese, un territorio che vanta una storia ultradecennale di co-progettazione nella gestione di servizi socioassistenziali e socioeducativi anche attraverso lo strumento dei piani territoriali. Girasole si costituisce grazie alla collaborazione tra diversi attori facendo assegnamento su una rete che si estende a tutto il tessuto del territorio (i soci ricomprendono: l’associazione dei comuni, l’associazione di volontariato Anteas, Auser e sette cooperative sociali). Si tratta di un esempio interessante di co-programmazione, che mostra come il Terzo settore possa diventare un attore chiave nel disegno delle politiche, grazie alla sua profonda conoscenza del quadro dei bisogni. Questo, operando accanto all’ente pubblico, in capo al quale permane la responsabilità (Cibinel, 2020).

 

4.2. Gli ambiti di sviluppo del Terzo settore

Gli ambiti di natura sociosanitaria in cui gli intervistati ravvisano potenzialità di sviluppo per il Terzo settore, sia quello di natura imprenditoriale sia la componente che si avvale principalmente di volontari, sono molteplici. Riguardano tutti quei settori dove il pubblico fatica ad intervenire e il settore for profit non ha interesse ad investire, perché scarsamente remunerativi. Questi spaziano dalle attività di promozione della salute, come l’educazione sanitaria, l’informazione e la formazione al fine di favorire la prevenzione delle malattie, le attività di advocacy per pretendere una maggiore accountability, le attività di auto-aiuto per gruppi fragili, la co-produzione e co-gestione di servizi locali.

Box 4. L’Associazione Calabrese di Epatologia (ACE) nasce nel 2001 su iniziativa di un gruppo di ricercatori impegnati nello studio delle determinanti di alcune patologie, che hanno scelto di non fermarsi alla denuncia delle violazioni del diritto alla salute, ma si sono rimboccati le maniche per prendersi cura delle persone meno abbienti di Pellaro, un quartiere periferico di Reggio Calabria. ACE non è semplicemente un ambulatorio gratuito. Con gli anni è diventato un poliambulatorio d’eccellenza in cui ogni aspetto della relazione con il paziente che ha bisogno di cura è ben disegnato. Contribuisce a questo anche il luogo dell’ambulatorio, esteticamente gradevole e in grado di trasmettere un senso di accoglienza e cura, che mette i pazienti a proprio agio. Si rivolge a tutta la popolazione, finanziandosi prevalentemente attraverso micro-donazioni degli stessi pazienti. Promuove una medicina integrale che condanna la ricerca affannosa verso nuove tecnologie di cui può beneficiare solo una piccola percentuale della popolazione e propone di tornare a promuovere una medicina sociale in cui il medico assolva il ruolo di un tempo. Un modello, quindi, che non si limita a garantire gratuitamente diritti e servizi altrimenti negati, ma che ha l’ambizione di promuovere un nuovo paradigma sanitario incentrato sulla prevenzione e salvaguardia della salute. Oltre a offrire servizi sanitari e occuparsi di ricerca in ambito epidemiologico, sostiene percorsi educativi e progetti di rigenerazione del territorio finalizzati a promuovere uno stile di vita sano e valorizzare il patrimonio urbano, storico e paesaggistico (progetto Parco Diffuso con l’Università di Reggio Calabria) (Caserta, 2020).


Tra i servizi che potrebbero essere offerti da organizzazioni del Terzo settore con una maggiore connotazione imprenditoriale, rientrano i programmi di screening e gli interventi di natura sociosanitaria che presuppongono la costruzione di reti di supporto attorno al paziente e alla famiglia. Un ambito dove il Terzo settore svolge un ruolo prezioso che potrebbe essere ulteriormente potenziato è quello delle cure palliative, una medicina semplice e fino a pochi anni fa fortemente trascurata (Intervista#22).

Box 5. L’Acero di Daphne è un’associazione di Verona, nata per rendere viva la memoria di Laura, una giovane donna deceduta all’età di ventisei anni dopo una lunga malattia. L’associazione promuove la diffusione della cultura e della pratica delle cure palliative affinché esse diventino più facilmente disponibili e accessibili a quanti, giovani e meno giovani, ne possono trarre beneficio. Partendo dalla promozione della partecipazione a percorsi formativi sulle cure palliative, finanziata dall’associazione a personale medico e paramedico, le attività realizzate sono aumentate e si sono diversificate significativamente nel corso degli anni per rispondere a sempre nuovi bisogni. I servizi offerti spaziano ora dalla consulenza medica, counselling, supporto all’elaborazione del lutto, fisioterapia, musicoterapia, psicoterapia, sostegno psicologico e yoga integrale. L’associazione è anche operativa in ambito formativo. Ha attualmente all’attivo tre percorsi formativi: un corso in cure palliative; un corso sulla terapia della dignità e un Master in Primo Livello in Cure Palliative. I percorsi proposti sono destinati a medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali e altre figure che operano in ospedale, a domicilio, in hospice o in RSA.


Un’area dove il Terzo settore ricoprirà verosimilmente un ruolo crescente nei prossimi anni è la gestione delle cronicità e degli anziani soli. In particolar modo, s’intravedono spazi di sviluppo nell’ambito delle cure domiciliari ad anziani fragili e persone con disabilità accompagnate a forme dell’abitare sociale congruenti (Intervista#17). Un’area aggiuntiva d’intervento, recentemente riscoperta, è quella della collettivizzazione dei rischi connessi alla salute, garantita dai sistemi mutualistici, che non si sostituiscono ma si affiancano all’assistenza pubblica, dando risposte più mirate ai propri soci a fronte di un costo contenuto (Intervista#12). Si tratta di un’interessante integrazione del servizio sanitario pubblico che, in un’ottica di welfare sociale (a differenza del business delle assicurazioni), presenta potenzialità di sviluppo anche alla luce della recente Riforma del Terzo Settore (Vella 2019).

Box 6. EBTNA-LAB è un’impresa sociale fondata nel 2018 dal gruppo MAGI che dal 2006 si occupa di ricerca e diagnosi delle malattie genetiche e rare e da MAGI EUREGIO, nato per studiare alcune malattie genetiche poco diagnosticate per carenza di laboratori sul territorio nazionale, tra le quali le distrofie retiniche e corneali, gli ictus giovanili e le malformazioni vascolari e linfatiche. EBTNA-LAB cerca di curare le malattie genetiche rare attraverso l’estrazione di molecole di origine naturale vegetale. Si tratta dell’unica o di una delle poche aziende nel settore farmaceutico presenti in Italia a essersi costituita come impresa sociale con l’obiettivo di reinvestire gli utili in ricerca scientifica e nella formazione di giovani ricercatori. Nei laboratori EBTNA-LAB si stanno sviluppando anche ricerche sul microbioma, volte a individuare microrganismi con funzione antinfiammatoria naturale per curare alcune malattie rare infiammatorie del cavo orale.

 

4.3. La costruzione di reti e alleanze a livello territoriale

Un aspetto che contraddistingue molte organizzazioni di Terzo settore è la loro inclinazione a coinvolgere una pluralità di attori e portatori d’interesse, creando spazi di discussione che favoriscono la condivisione e la co-decisione su temi di particolare rilevanza pubblica. La propensione del Terzo settore a innescare processi partecipativi, che ha portato alla costruzione di modelli organizzativi fortemente inclusivi, ben descritti dalla letteratura (Sacchetti, 2019; Borzaga et al., 2016, Pestoff, 2015; Sacchetti, 2015), potrebbe essere a detta di molti intervistati maggiormente valorizzata sia per coagulare professionalità diverse e disegnare percorsi di cura integrati (Intervista#22), sia per costruire alleanze a livello territoriale nell’ottica del potenziamento di una medicina di prossimità in continuità con altri interventi di natura sociale.

Se fosse portata a sistema, la creazione di équipe multidisciplinari, che coinvolgano, attraverso la creazione di cooperative sociali, medici di base, specialisti, infermieri di comunità, assistenti sanitari e educatori, potrebbe garantire la presa in carico modulata rispetto alla scala del bisogno di assistenza. Questo permetterebbe di migliorare l’accesso alle cure, contenere l’intasamento del sistema e ridurre il carico sociale ed economico per la cura dei pazienti.

Rileva a questo riguardo un modello d’intervento che andrebbe maggiormente valorizzato, perché propone un nuovo modo di costruire le relazioni tra pubblico e privato in tema di politiche sociosanitarie: il budget di salute (Mosca, 2018). Oltre a scardinare il concetto d’istituzionalizzazione, questo strumento si basa sulla definizione di un piano di cura individualizzato, avendo un unico budget di riferimento (Intervista#17). Il budget di salute consente in pratica di svincolarsi dal mercato delle prestazioni sanitarie ed entrare nel campo della progettazione sociale, attraverso la quale si può contribuire alla costruzione di progetti personalizzati di vita dei pazienti e non semplicemente al mantenimento del loro stato di salute (Intervista#16). Questo implica la definizione per ogni paziente di un progetto che sia capace di attivare le determinanti sociali ed ambientali della salute del territorio abitato. Il ruolo che il Terzo settore è chiamato a svolgere in un contesto di questo tipo è di co-gestione, e non semplicemente gestione di servizi. Quindi, sebbene la regia rimarrebbe una prerogativa della sanità pubblica, il Terzo settore potrebbe svolgere quel compito precipuo che nessun altro attore è in grado di mettere in campo: attivare i legami sociali e congiungerli per costruire una risposta territoriale e personale (Intervista#16).

Box 7. Budget di salute. Grazie al budget di salute, avviene così che per ogni paziente psichiatrico preso in cura, ad esempio, in una Fattoria Sociale di Casal di Principe, si riduca il tasso di mafiosità subito per anni dalla popolazione, si attivino nuovi anticorpi contro la camorra, si inneschi un nuovo processo produttivo di agricoltura biologica che ristora lo scempio di tante terre inquinate da sistemi malavitosi ed omertosi. Ed accade così che sia proprio la presa in carico di una persona disabile ad emancipare un territorio. Non più dunque la delega che relega il disabile ad essere ostaggio di un sistema di cura, ma una presa in carico che rende il disabile protagonista della liberazione ed il riscatto di un territorio. È avvenuto in modo diverso ma analogo a Benevento, dove i budget di salute hanno attivato risposte nell’agricoltura e nella ristorazione e nei servizi alberghieri dando nuova vita a terre spopolate e colpite dal progressivo abbandono di giovani o in Sicilia, dove i pazienti psichiatrici in uscita dall’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotta hanno investito il loro budget di salute in collaborazione con la Fondazione di Comunità di Messina attivando percorsi di contrasto alla povertà educativa nei quartieri più difficili di Messina, attivando uno scambio tra impianti fotovoltaici assicurati dai budget di salute ed il risparmio dei costi energetici di famiglie in difficoltà che si sono impegnate ad inviare i propri figli a scuola anche oltre l’età dell’obbligo formativo (Intervista#16) (De Blasio et al., 2018).

 

5. Riflessioni conclusive

Ricordandoci che la salute non è una questione prettamente individuale, ma riguarda tutta la comunità, quest’analisi preliminare ci ha permesso di individuare alcuni nodi di criticità che sono all’origine delle debolezze del nostro sistema sanitario. Di qui la necessità di adottare una visione olistica della società che raccordi il tema dell’ambiente con quello della sanità e di “passare da un’economia e una civiltà del breve a una del lungo termine” (Langer, 1990).

Come già sottolineato da altre riflessioni, le interviste confermano la necessità di ridiscutere le politiche sanitarie e avviare un forte rinnovamento e potenziamento dell’offerta assistenziale territoriale, che permetta sia di gestire situazioni di emergenza, sia di adeguare i servizi ai profondi mutamenti demografici e sociali verificatisi in Italia.

La crisi del sistema sanitario ha inoltre indicato a chiare lettere che efficienza non implica necessariamente efficacia. L’esperienza positiva di alcuni territori rurali contraddistinti da un’elevata percentuale di popolazione anziana, porta a ipotizzare la maggiore capacità di contenere la diffusione del virus delle comunità più resilienti (Intervista#16). E ciò porta a ritenere che, in quanto valore profondamente collettivo di cui tutti siamo responsabili (Bodini, 2020), la presa in carico della salute richieda innanzitutto un rafforzamento delle politiche territoriali in un’ottica di continuità con le strutture ospedaliere e con gli interventi di prevenzione di natura ambientale.

La mancanza di coordinamento ha impedito – specialmente in alcuni territori – di gestire l’emergenza in maniera efficace e ha messo in luce i rischi connessi all’applicazione di una logica concorrenziale, contraddistinta dal dilagare del privato for profit accreditato. A sua volta, inseguendo il mercato dell’efficienza delle prestazioni, la privatizzazione non si è rilevata un asset della promozione (Intervista#16).

Come sottolineato dai medici promotori della campagna ‘Primary Health Care: Now or Never’ l’emergenza Covid-19 conferma l’urgenza di abbandonare la tradizionale separazione dei percorsi assistenziali, per sviluppare una rete di cure basata su una concreta collaborazione interdisciplinare, interprofessionale e intersettoriale che sia guidata e coordinata e favorisca il dialogo tra i diversi settori e tra la filiera sociale e sanitaria. La pandemia può quindi essere l’occasione per riorganizzare il sistema e le relazioni tra i diversi attori e per ricostruire la comunità di pratica dei medici del territorio, facendo leva sulle potenziali risorse delle cure primarie (Campagna ‘Primary Health Care: Now or Never’, 2020).

Ragionare in termini organizzativi significa riflettere in primo luogo sulla cornice normativa e istituzionale entro la quale potrebbe essere possibile sviluppare nuove alleanze che coinvolgano il Terzo settore. A questo riguardo, le interviste confermano, da un lato, la limitata conoscenza della complessità del Terzo settore da parte di alcune persone coinvolte nella ricerca; dall’altro, sottolineano la scarsa collaborazione tra organizzazioni di Terzo settore ed enti pubblici.

Riguardo al primo aspetto, prevale la tendenza di numerosi intervistati a classificare le tipologie di organizzazioni che fanno parte del Terzo settore in maniera dicotomica, individuando da un lato il mondo del volontariato e dall’altro le organizzazioni che operano come succursali delle pubbliche amministrazioni e del privato accreditato. Nella realtà, il panorama è, come abbiamo visto, molto più articolato e ricomprende anche una fetta importante di organizzazioni di natura imprenditoriale, che hanno un grado elevato di autonomia e sono inclini ad ascoltare i bisogni della collettività e delle persone più fragili, spesso dimenticate dai servizi pubblici. Si tratta di organizzazioni che, grazie al loro forte ancoraggio territoriale, intercettano bisogni inevasi e sperimentano nuove strategie d’intervento, facendo assegnamento sulla capacità di dialogare con una pluralità di attori locali e valorizzare un ampio spettro di risorse ambientali e culturali inutilizzate.

La scarsa collaborazione tra organizzazioni del Terzo settore ed enti pubblici è declinata in maniera diversa a seconda del tipo di attività. Nel caso delle marginalità più gravi, a fronte di un’oggettiva difficoltà o talvolta disinteresse delle pubbliche amministrazioni a intervenire per motivi di consenso politico, le organizzazioni di Terzo settore sono diventate in molti territori gli unici presidi sociosanitari per le persone senza fissa dimora (Intervista#26). Operano in molti casi in totale autonomia senza interagire con l’ente pubblico, entrando spesso in conflitto con i poteri pubblici. Con riferimento invece alle grandi organizzazioni di Terzo settore, che in questa pandemia sono state chiamate a gestire strutture ospedaliere temporanee, la scarsa collaborazione è ricondotta all’incapacità delle istituzioni pubbliche di valorizzare le competenze del Terzo settore, nella fattispecie le conoscenze in materia di prevenzione e gestione di epidemie nei paesi in via di sviluppo (Intervista#13). Nel caso di prestazioni sociosanitarie e sanitarie rivolte alla cittadinanza o a categorie di utenti fragili, alcuni intervistati denunciano l’inadeguatezza del paradigma competitivo che, come abbiamo visto, si è affermato a partire degli anni Novanta.

Si rimarca la necessità di “ridefinire le regole del gioco”, sostituendo laddove possibile le gare con partnership autentiche tra Terzo settore ed enti pubblici entro una visione di pianificazione comunitaria. All’interno di questa cornice, anziché gestire prestazioni sanitarie per conto della sanità pubblica, il Terzo settore dovrebbe configurarsi come un attivatore di risposte sociali innovative, che facciano leva sulla prossimità alle persone e ai territori (Intervista#16). Particolarmente interessanti sono a questo riguardo alcune esperienze volte a supportare la continuità dell’assistenza e l’integrazione tra la dimensione sociale e sanitaria seguendo un paradigma di tipo collaborativo.[23]

Box 8. Il PreSST Valsassina si sviluppa dalla positiva esperienza della Medicina di Rete Valsassina e dalle sinergie tra ATS della Brianza, ASST Lecco, Federfarma, Auser Leucum Volontariato ONLUS e Gestione Associata – Ambito distrettuale di Bellano. Si tratta del primo presidio nato a seguito della Riforma Sanitaria della Regione Lombardia 23/2015, come sperimentazione volta a mettere insieme attività e prestazioni di carattere sanitario, sociosanitario e sociale, promuovendo un approccio olistico e mirato volto a migliorare il benessere delle persone, in particolare dei soggetti con fragilità clinica o funzionale, considerando la loro particolare condizione familiare. Oltre ai Medici di Medicina Generale, che si sono costituiti come gruppo di cura supportato dai medici specialisti, sono coinvolti alcuni soggetti di Terzo settore, tra cui Auser e garantisce la consegna di farmaci ai malati cronici in accordo con Federfarma e con i medici di base.

 

Box 9. Il Progetto Habitat Micro-aree nasce per rafforzare la coesione sociale in aree territoriali che ne sono tradizionalmente carenti o sprovviste. È stato promosso congiuntamente dall’Azienda sanitaria di Trieste (ASUITS), dai Comuni di Trieste e Muggia e dall’Azienda per l’Edilizia Residenziale Pubblica (ATER) in collaborazione con numerose organizzazioni di Terzo settore. Si tratta di un’interessante sperimentazione che ha da un lato offerto ai cittadini di fruire di beni comuni nei luoghi in cui vivono, dall’altro ha permesso di mettere a punto una cartografia dei bisogni sanitari, sia raccogliendo informazioni sul campo, sia esaminando dati statistici. Il progetto ha permesso di sviluppare un metodo di intervento che è al tempo stesso locale, plurale e globale (Jop, 2020). Le associazioni di volontariato, di promozione sociale, di cittadini coinvolte svolgono un duplice ruolo: da un lato offrono un supporto ai servizi nell’aiutare le persone fragili, dall’altro favoriscono la diffusione della cultura della solidarietà, della partecipazione e della cittadinanza attiva.


Il ricorso a strumenti di tipo collaborativo è aumentato negli ultimi anni sia per gestire progetti sperimentali, sia per ripensare interi ambiti d’intervento anche grazie alla nuova cornice giuridica disciplinata dall’articolo 55 del Codice del Terzo, che ha per la prima volta introdotto il tema della co-programmazione nel nostro ordinamento (Marocchi, 2018; 2020). Nuove possibilità di ricorrere alla progettazione partecipata sono inoltre previste da una serie di provvedimenti governativi, adottati in risposta alla recente pandemia. Ed è dalla ricchezza delle esperienze di co-progettazione (solo marginalmente descritte in quest’articolo), che valorizzano la partecipazione attiva dei cittadini grazie alle architetture istituzionali messe a disposizione dal nostro ordinamento, che bisognerebbe a nostro avviso prendere ispirazione per ricostruire una sanità più aderente al territorio su più ampia scala (Bernardoni, 2020b).

A questo scopo, l’auspicio è che la pandemia sia l’occasione per avviare una nuova stagione di lotte sul campo per una sanità di prossimità attenta ai bisogni della comunità e delle persone più fragili, non diversa dalle battaglie che portarono alla Riforma Sanitaria 833/1978 e alla deistituzionalizzazione a livello manicomiale, territoriale e di comunità. Una lotta che metta in discussione – oggi come allora – la centralità dell’istituzione ospedaliera e veda protagonisti medici, infermieri, organizzazioni di Terzo settore, ricercatori, sindacati e singoli cittadini nella costruzione di nuovi percorsi d’intervento a tutela della salute.

 

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Note

  1. ^ 1. Per conoscere come numerose realtà di accoglienza e servizi di cura hanno vissuto la pandemia, si veda Animazione Sociale (2020).
  2. ^ 2. Il tasso di letalità è il rapporto tra morti per una malattia e il numero totale di soggetti affetti dalla stessa malattia. Questa misura d’incidenza, basata sul numero di nuovi casi, è strettamente dipendente dalla finestra temporale di osservazione, giornaliera, settimanale, mensile e cumulativa se si sommano i casi osservati dal primo giorno. È diffuso l’errore di confondere il tasso di letalità con quello di mortalità, che è concettualmente diverso e mette a rapporto il numero di morti sul totale della popolazione media presente nello stesso periodo di osservazione (e non sul numero di malati) (Bianchi, 2020).
  3. ^ 3. Uno studio condotto dall’Associazione di Epatologia Calabrese su un campione di bambini e adolescenti residenti a Reggio Calabria ha rilevato la presenza di una correlazione tra sovrappeso, obesità, sindrome metabolica e danno arteriosclerotico che, fino a qualche decennio fa, era riscontrabile solo nella popolazione adulta. L’esposizione a rischi vascolari precoci colpisce principalmente famiglie con un basso livello di reddito e istruzione (Caserta, 2020).
  4. ^ 4. In medicina, il termine “co-morbidità” si riferisce alla presenza contemporanea nello stesso soggetto di due o più malattie: comorbilità, Treccani.
  5. ^ 5. È da rilevare come a fronte della pandemia, il Decreto “Cura Italia” abbia previsto lo stanziamento di risorse aggiuntive pari a circa 3,2 miliardi di euro. Il decreto ha previsto un incremento di 1.410 milioni di euro per il 2020 del livello del finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard cui concorre lo Stato e un incremento, nella misura di 1.650 milioni per il 2020, del Fondo per le emergenze nazionali (articolo 18). Nel complesso 250 milioni di euro sono stati stanziati per elevare le risorse destinate alla remunerazione delle prestazioni di lavoro straordinario del personale sanitario direttamente impiegato nelle attività di contrasto all’emergenza epidemiologica e 100 milioni di euro possono essere destinati al conferimento, da parte degli enti ed aziende del Servizio sanitario nazionale, di incarichi di lavoro autonomo ad iscritti agli albi delle professioni sanitarie e sociosanitarie, compresi gli specializzandi iscritti all’ultimo e al penultimo anno di corso delle scuole di specializzazione. Il decreto ha autorizzato inoltre le regioni, le province autonome e le aziende sanitarie a stipulare accordi per l’acquisto di prestazioni sanitarie in deroga ai limiti di spesa previsti dalla legislazione vigente con un’autorizzazione di spesa pari a 240 milioni di euro per il 2020, permettendo inoltre quando necessario di stipulare accordi con strutture private non accreditate. Il decreto contiene inoltre le norme relative alla sperimentazione clinica dei farmaci e dei dispositivi medici, con riferimento a pazienti affetti dal virus, nonché l’uso compassionevole dei farmaci in fase di sperimentazione destinato agli stessi (Mazzoni, 2020).
  6. ^ 6. L’aziendalizzazione delle strutture ospedaliere ha avuto un impatto anche a livello lessicale. Come ricordato da una persona intervistata, i pazienti hanno iniziato a essere definiti clienti (intervista#28).
  7. ^ 7. La Riforma 833/1978 portò all’attivazione dei seguenti servizi e strutture: i dipartimenti di prevenzione con l’igiene pubblica, l’igiene degli alimenti, l’igiene ambientale e la medicina del lavoro, i consultori familiari, la medicina scolastica, i servizi per le dipendenze.
  8. ^ 8. La riforma fu varata in seguito ai referendum d’iniziativa popolare del 1993 riguardanti alcuni articoli della legge 833/1978 riguardanti l’abrogazione delle norme sui controlli ambientali effettuati per legge dalle USL.
  9. ^ 9. Il modello hub & spoke è un modello organizzativo, preso in prestito dall’aviazione civile americana, che parte dal presupposto per cui determinate condizioni e malattie complesse necessitano di competenze specialistiche e costose. Non possono quindi essere assicurate in modo diffuso e capillare su tutto il territorio. Per questo motivo tale organizzazione prevede la concentrazione della casistica più complessa in un limitato numero di sedi hub (centri di eccellenza) e di centri periferici spoke, dove vengono inviate le persone che hanno superato una certa soglia di complessità.
  10. ^ 10. Lo spacchettamento del Ssn in 21 sottosistemi ha favorito la migrazione passiva di un numero significativo di pazienti dal Sud al Nord, a vantaggio in primo luogo delle aziende private accreditate, interessate ad attrarre pazienti fuori regione per incrementare i propri introiti. Si è così innescato un meccanismo perverso che ha portato a cristallizzare ulteriormente le differenze regionali a causa del trasferimento significativo di risorse da Sud a Nord (Intervista#8)
  11. ^ 11. Per una ricostruzione di come è stata gestita l’emergenza da parte della stampa internazionale si veda: Winfield, 2020; Pisano et al., 2020; Gümpel, 2020.
  12. ^ 12. Su questo aspetto, si è recentemente espressa anche la Corte dei Conti secondo cui è “sempre più evidente che una adeguata rete di assistenza sul territorio non è solo una questione di civiltà a fronte delle difficoltà del singolo e delle persone con disabilità e cronicità, ma rappresenta l’unico strumento di difesa per affrontare e contenere con rapidità fenomeni come quello che stiamo combattendo. L’insufficienza delle risorse destinate al territorio ha reso più tardivo e ha fatto trovare disarmato il primo fronte che doveva potersi opporre al dilagare della malattia e che si è trovato esso stesso coinvolto nelle difficoltà della popolazione, pagando un prezzo in termini di vite molto alte”. Si veda La Stampa, 30 maggio 2020.
  13. ^ 13. Si noti che il Decreto Legge 34/2020 ha autorizzato circa 9600 assunzioni nella sanità per rafforzare i servizi infermieristici e introdurre la figura dell’Infermiere di famiglia. Le nuove risorse saranno assunte a termine fino a fine anno, mentre dall’inizio del 2021 ci saranno inserimenti stabili a tempo indeterminato.
  14. ^ 14. Fatto ben più grave, che richiederebbe un focus specifico perché lesivo in maniera diretta della salute dei pazienti, è la modifica delle indicazioni di trattamento ai fini dell’ottenimento di DRG più convenienti (Intervista#14).
  15. ^ 15. Come rilevato da un intervistato: “Oggi paghiamo medici pubblici di medicina generale, che inviano i pazienti da un medico specialista pubblico che invia una persona disabile in una struttura sociosanitaria accreditata in cui ci sarà ancora un terzo medico a prendere in carico un paziente che vive non una condizione di acuzie transitoria ma di fragilità esistenziale, come la definiva il neuropsichiatra Giorgio Moretti, collegata alla sua diagnosi di partenza. La costruzione di un progetto personalizzato nel luogo in cui la persona vive dovrebbe far saltare due di questi passaggi, dare la possibilità al medico di medicina generale, ascoltato lo specialista (un medico psichiatra o un medico della riabilitazione) e la famiglia del paziente, di poter proporre un progetto personalizzato che utilizzi le leve sociali esistenti sul territorio a favore della presa in carico” (Intervista#16).
  16. ^ 16. Sebbene siano trascorsi vent’anni, è ancora oggi di attualità quanto scrisse Alex Langer in occasione del Congresso Nazionale dell’Associazione Infermieri di Area Critica (ANIARTI) del 1990, dove sostituì all’ultimo momento l’amico Ivan Illich: “Da sempre, e oggi più che mai, la separatezza delle professioni, la salvaguardia della parcellizzazione e della specializzazione si basano anche sul segreto dei “chierici”, sul fatto che gli addetti parlino nel linguaggio degli addetti e solo agli addetti, senza rompere il muro della comunicazione che li separa dai non addetti” (Langer, 1990).
  17. ^ 17. Avvenire, 2 aprile 2020: “Il Viminale: i migranti restino nei centri anche senza titolo”.
  18. ^ 18. Ministero dell’Interno, circolare 1 aprile 2020: “Interventi di prevenzione della diffusione del virus COVID-19 nell’ambito del sistema di accoglienza. Ulteriori indicazioni”.
  19. ^ 19. UNHCR, settembre 2018: “Posizione UNHCR sui rimpatri in Libia, Aggiornamento II”.
  20. ^ 20. Con riferimento alla città di Torino: Quotidiano Piemontese, 4 maggio 2020: “Chiusura del sito umanitario straordinario di Piazza d’Armi a Torino: confronto in consiglio comunale” – Torino Oggi, 4 maggio 2020: “Chiude il presidio di Piazza d’Armi, clochard in sit-in davanti al Comune di Torino: ‘Non sappiamo dove andare’”.
  21. ^ 21. Con riferimento alle attività per i braccianti agricoli in Calabria è stato recentemente lanciato un bando per attivare presidi sanitari su fondi del progetto SU.PRE.ME.
  22. ^ 22. Tra le tante organizzazioni di volontariato che hanno continuato a operare durante la pandemia vi è Auser, che ha messo in campo ben settemila volontari, molti dei quali giovani, per un impegno di oltre 1.402.755 ore di volontariato. Essendo costretta a sospendere le attività di socializzazione, l’associazione ha garantito l’offerta di una serie di servizi, tra cui compagnia e ascolto telefonico, trasposto protetto ai malati oncologici che necessitavano cure urgenti e cicli di terapie e ai dializzati, interventi a domicilio per la consegna di spesa, medicinali e in molti casi anche pasti (Redattore Sociale, 2020).
  23. ^ 23. Tra queste, vanno ricordati anche i Patti di Collaborazione nell’ambito dei regolamenti per la cura dei beni comuni.
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