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ISSN 2282-1694
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Numero 1 / 2024

Echi

Per una filantropia capace di immaginare, osare e collaborare

Marco Perosa


In questo contributo si intende discutere il ruolo che le fondazioni possono avere rispetto allo sviluppo delle imprese sociali.

A tale fine, nel primo paragrafo, si discuterà brevemente delle principali sfide che le imprese sociali si trovano ad affrontare, evidenziando in particolare la capacità di innovare e di innovarsi, cogliendo le opportunità della sostenibilità, che rappresentano un tema trasversale su cui tutti saremo chiamati a confrontarci nei prossimi anni.

Nel secondo paragrafo si ragionerà sulla veste che la filantropia istituzionale dovrebbe assumere per essere in grado di rappresentare un partner di rilievo per le imprese sociali impegnate in tale sfida, sottolineando in particolare la necessità che le fondazioni siano in grado di immaginare nuove visioni, in sostanza di delineare una “idea di futuro” a partire dalla quale costruire partenariati con imprese sociali.

Dati questi presupposti, nel terzo paragrafo si esploreranno gli elementi di un’azione filantropica coerente con quanto sopra affermato, e in particolare si sottolineerà la necessità di superare approcci troppo centrati sul breve termine, di investire sulla valutazione dell’impatto dei propri programmi, di costruire partnership con le imprese sociali.

Tutto ciò non è più solo auspicio o elaborazione teorica: vi sono fondazioni che hanno avviato azioni coerenti con tali presupposti, che sono oggetto della discussione nel quarto paragrafo.

Infine, in sede conclusiva, si proveranno ad indicare alcuni elementi che racchiudono in sé il senso di quanto argomentato.

1. Le sfide per le imprese sociali

In premessa, va evidenziato come le azioni necessarie a mettere a frutto le potenzialità delle imprese sociali si giochino su diversi piani, non tutti affrontabili in questo spazio. Pur consapevoli della semplificazione, si può ritenere che sia necessario agire su due assi, riassumibili a) nell’introduzione di misure normative di semplificazione utili a liberare il potenziale delle imprese sociali e b) in misure di sostegno che rendano le imprese sociali in grado di confrontarsi con le grandi sfide dell’innovazione, tema che sarà al centro dei successivi ragionamenti.

Le semplificazioni

Il primo asse, qui solo accennato per condividere la consapevolezza della complessità delle questioni affrontate, riguarda la semplificazione della normativa limitando, per quanto possibile, le eccessive richieste di adempimenti burocratico – amministrativi nel rispetto dell’esercizio di controllo e vigilanza. In sintesi, si tratta di limitare obblighi che tolgono tempo e risorse che potrebbero essere invece dedicati alle attività “core”. Le imprese sociali, infatti, nate per dare risposta a bisogni, soprattutto nuovi, trascurati dalle imprese a scopo di lucro e a cui le politiche pubbliche di protezione sociale non erano in grado di far fronte in modo adeguato, ad oggi sono trattenute, nella loro funzione costruttiva di bene comune, da un rigidismo burocratico – amministrativo che è molto più orientato all’esercizio di controllo e vigilanza piuttosto che a sostenerne il consolidamento e lo sviluppo. Sarebbe a questo proposito fondamentale una maggiore consapevolezza della classe politica sul ruolo e sulla funzione dell’impresa sociale; una classe politica che tende, ancora oggi, in un contesto profondamente cambiato ed evoluto, a concepire lo Stato come l’unico ed esclusivo titolare del bene comune, non consentendo ai corpi intermedi della società civile di esprimere tutto il loro potenziale. E questo arcaico “pensiero” dovrebbe essere facilmente superato dall’osservazione della realtà e dalle positive, molteplici ed innovative esperienze che le imprese sociali hanno dimostrato saper generare tenuto altresì conto che le stesse imprese sociali sono chiamate ad operare per sostenere lo sviluppo umano integrale di tutte le dimensioni dell’essere. Ma, appunto, questo tema esula dagli intenti di questo contributo e richiederebbe una trattazione specifica.

L’innovazione

Il secondo asse cui è dedicato questo contributo è rappresentato dalla necessità che le imprese sociali siano in grado di innovare e di innovarsi. E per innovazione – tipicamente per l’impresa sociale – mi viene a sostegno la definizione data da Lippi, Bruni, Rago e Ugolini nel 2012, come «l’applicazione di idee innovative in un prodotto/processo/modalità organizzativa, (che) genera un impatto sociale, ovvero modifica in maniera stabile e positiva il livello di benessere di una società o di parte di essa attraverso la creazione di valore aggiunto».  Ed è per questo che l’innovazione sociale va compresa più per la sua capacità di generare impatto sociale, che per l’elemento innovativo dell’idea. Quello che conta è il «miglioramento del risultato sociale in termini comparativi tra le soluzioni già esistenti e quelle nuove, piuttosto che la novità dei servizi in sé» (Neumeier, 2012).

L’innovazione nell’impresa sociale è molto legata alla capacità di mobilitare risorse umane, tecniche, progettuali, finanziarie per consentire la moltiplicazione delle forze e delle energie a disposizione del miglioramento sociale.  

Si tratta quindi di interrogarsi su come sostenere le imprese sociali per potenziare la dimensione organizzativa dell’impresa sociale, sostenendo gli investimenti nel capitale sociale in modo da dare ossigeno alla sua operatività e permettendo di generare redditività.

Nell’ambito di questi ragionamenti, particolare attenzione va dedicata al tema della sostenibilità, che costituisce il leitmotiv dei tempi odierni. Un tema delicato, articolato, di difficile trattazione per la molteplicità e la diversità delle organizzazioni coinvolte e per la complessità dei fattori interessati. Sperando che non sia l’ennesima “moda” del momento, la sostenibilità impone uno sguardo – o meglio – una visione di orizzonte positivo e di benessere da costruire. Proprio in tale prospettiva – che assume la dimensione di medio e lungo periodo – il tema della sostenibilità ha un valore particolare per l’impresa sociale.

2. Quale filantropia per questa sfida?

Se questo è l’orizzonte per le imprese sociali, come deve a sua volta evolvere la filantropia per rappresentare un partner adeguato di questo processo di cambiamento?

In prima istanza, la risposta è che i partner di un’impresa sociale innovativa e dinamica sono le fondazioni bancarie e tra esse quelle capaci di osare, rischiare, immaginare nuove visioni, costruire nuovi orizzonti inesplorati, avere il coraggio di “gettare il cuore oltre l’ostacolo”, operare senza limitarsi ad un’azione sul presente, ma votate a costruire opportunità per il futuro.

Le fondazioni bancarie hanno la forza economica e la titolarità per farlo in quanto enti di diritto privato che possiedono competenze, talenti e capitali ed hanno la responsabilità di agire per un bene comunitario, in quanto esse stesse espressione della comunità; ma per dare visione e strategia, le fondazioni bancarie devono uscire dal guscio dell’autoreferenzialità e devono assumersi il coraggio di rischiare superando la paura del fallimento.

Fondazioni per il cambiamento: le visioni di futuro

La vera sfida per le fondazioni bancarie è il coraggio del cambiamento, perché il cambiamento coinvolge non solo una sfera di responsabilità personale, ma risulta connesso ad una dimensione comunitaria dove tutti gli attori in gioco sono chiamati ad indirizzare non solo le proprie attività ed il proprio agire ma soprattutto il proprio pensiero verso un interesse comune. Ed è per questo che è possibile sostenere che le fondazioni devono agire nell’ordinarietà con straordinarietà ed operare con straordinarietà significa, prima di tutto, pensare, immaginare visioni.

La visione è il futuro condiviso che si vuole creare, l'immagine condivisa di ciò che è possibile, ciò che motiva le azioni per la creazione della comunità.

Non c’è un modo univoco per descrivere la “visione”; quello che – a mio parere - maggiormente lo rappresenta è scriverla al presente, come se stesse succedendo ora.

Le nostre comunità stanno vivendo una particolare metamorfosi: ci troviamo dinanzi a sistemi complessi caratterizzati da imprevedibilità, interconnessione e continua evoluzione. La crisi che stiamo affrontando ha una portata geografica mondiale, ovvero interessa tutti i territori, e non è assolutamente pensabile di poter risolvere questa crisi mettendo in campo solo una quantità considerevole di risorse se non cambiamo strategia, visione e modelli di intervento. E quindi i problemi – o meglio, i bisogni – che emergevano già pochi anni fa, ora hanno una caratterizzazione radicalmente diversa.

Dobbiamo superare l’incapacità di valutare una situazione secondo la logica del consenso istantaneo ed è necessario adottare un ragionamento di prospettiva: una combinazione tra riconoscimento del ruolo dell’incertezza e del cambiamento, e la necessità di tenere conto di più prospettive alternative e di una loro significativa integrazione.

E quindi, alle fondazioni bancarie, serve uno scatto nuovo nello “sguardo”. Le fondazioni devono contribuire a creare un cambiamento sistemico inteso come “agire visionario” che si fonda sulla capacità di assumere e integrare punti di vista differenti legandoli ad un futuro desiderato; le fondazioni non saranno in grado di produrre un pensiero e una policy adeguati alle sfide che devono essere affrontate se non modificando, anche integralmente, modelli culturali, comportamentali, abitudini, regole e dinamiche di auctoritas esistenti.

L’incapacità di “vedere” al di là della propria prospettiva personale o istituzionale, come individui e come collettività, è la principale causa dei nostri fallimenti rispetto alle grandi sfide sociali ed economiche del nostro tempo. Ed è per questo motivo che Aldo Bonomi sostiene, a mio parere in modo illuminante, che “siamo in un tempo caratterizzato da una bulimia di mezzi e da un'atrofia di fini”.

Strategia e metodo

Perché questo sia realizzabile e concretizzabile non basta ragionare sulla visione, ma sono necessari anche strategia e metodo.

Come già detto, la visione è essenziale, sia perché deve essere condivisa e sia perché permette di immaginare la comunità che desideriamo, dove i rapporti di prossimità ed il desiderio di costruire il bene comune, rappresentano il collante su cui costruire una solida base sociale.

La strategia è fondamentale perché rappresenta la strada che gli stakeholder ed i policy maker decidono di tracciare e perseguire insieme per raggiungere tutti gli stessi obiettivi.

Il metodo è necessario perché senza metodo si genera confusione, incapacità, disorganizzazione e non si raggiungono i risultati.

Insieme si vince, perché si integrano e si mobilitano competenze, culture organizzative, approcci professionali trasformando i matrimoni di interesse in convivenze basate sulla fiducia reciproca.

3. Ingredienti dell’azione filantropica

Quindi: da una parte imprese sociali innovative, dall’altra fondazioni con una visione di futuro, ingaggiate nel produrre cambiamento. Se questo è l’orizzonte verso cui tendere, quali sono delle indicazioni pratiche per una filantropia che voglia fare sino in fondo la sua parte in questa direzione?

L’alleanza tra filantropia e imprese sociali

Il primo passaggio è che fondazioni e le imprese sociali acquisiscano la consapevolezza di essere portatrici di un interesse comune, superando le dialettiche che caratterizzano il rapporto tra “finanziatore e finanziato” e puntando invece su una vera alleanza di lungo termine. Insieme, fondazioni e imprese sociali possono:

  • sperimentare nuovi modelli di intervento basati sulle strategie trasformative. Un esempio è la co-progettazione e la co-programmazione che permette di agire in modo inclusivo, aggregante. Si tratta di andare verso pratiche che permettono di generare una sintesi corresponsabile di visione ed azione;
  • sperimentare nuove soluzioni e restituirle funzionanti come linee di lavoro per tutti; sperimentare prospettive di innovazione sociale di cui la comunità tutta deve essere portatrice. In sintesi, si devono attivare e condividere non solo le risorse economiche, ma anche una più ampia gamma di competenze tecniche, relazionali, finanziarie e progettuali orientandosi verso logiche di misurazione dell’impatto.
  • favorire la costruzione di reti e sinergie tra tutti gli attori territoriali e passare da un modello competitivo ad un nuovo modello inclusivo e di leadership partecipata o, meglio ancora, ad un modello collaborativo - cooperativo;
  • essere promotori di impatto, operando per la crescita sociale, economica, culturale e civile delle comunità. E tutto ciò è possibile e realizzabile con le imprese sociali perché esse hanno nel proprio DNA il perseguimento del bene comune con l’intraprendere, con il generare valore.

Così facendo si realizzano interventi e politiche innovative, efficaci e flessibili e si promuove una cultura della collaborazione, antidoto alle tendenze individualistiche. Così facendo si generano visioni!

Dal progetto al processo, superando un approccio di breve termine

Nell’ambito di questa logica, una conseguenza necessaria è quella di transitare da una “logica di progetto ad una logica di processo”, superando il brevetermismo ed alimentando un sistema di corpi intermedi per permettere agli stessi di esprimere tutto il loro potenziale.

Ciò palesa la diversità di strategia ed azione tra il sostenere l’impresa sociale ed il sostenere il volontariato o altri enti che operano in modo non imprenditoriale; nella seconda fattispecie, è molto più funzionale assicurare un sostegno per progetto oppure in grado di compensare i costi di funzionamento delle organizzazioni che, per loro natura, hanno una dimensione organizzativa più contenuta e potrebbe risultare di maggior valore un’attività di fund raising.

Costruire reti

Edgar Morin sosteneva che “Ciò che non si rigenera, degenera”!

Dobbiamo essere consapevoli che non ci possiamo permettere di costruire il futuro di qualcosa che è già accaduto. In questo contesto chi gioca da solo, fa perdere tutti, incluso sé stesso, perché i problemi sono interdipendenti a livello organizzativo e delle conoscenze tanto che possono essere risolti solo in modo integrato, intersettoriale ed interdisciplinare. Per cui il concetto di partnership, oggi non può più costituire l’eccezione ad un agire individualistico ma rappresenta l’unica regola possibile e conveniente per tutti. E quindi l’alleanza diventa un fattore strategico per costruire una visione.

Cosa dovrebbe fare allora la filantropia, ed in particolare, cosa dovrebbero fare le fondazioni bancarie, per sostenere l’impresa sociale? A questa domanda risulta spontaneo rispondere che le fondazioni devono fornire soluzioni ai problemi delle comunità, devono intervenire per consolidare il Terzo Settore, devono favorire la costruzione di reti e sinergie perché le imprese sociali possano diventare il riferimento dell’intraprendere per finalità solidaristiche e comunitarie. Ma tutto questo risulterebbe ordinario, necessario ma scontato.

Impatto

Quando si lavora a costruire partenariati di lungo termine per finalità comuni, bisogna essere consapevoli che le risorse sono scarse e vanno quindi allocate nella maniera più efficace ed efficiente possibile.

Per questo motivo, le fondazioni bancarie stanno ponendo moltissima attenzione nel verificare l'impatto sociale generato dalle loro erogazioni. Questo vuol dire non parlare più in termini di quante risorse sono state date a determinati soggetti, ma indicare qual è il cambiamento che si vuole generare in un programma o attraverso la strategia che si intende adottare.

Come sostiene Mario Calderini «La missione è culturale e politica: preservare l’integrità e la radicalità dell’impatto. Preservare integrità e radicalità dell’impatto significa fare le cose sul serio, perché è l’unica arma per trasformare l’economia al servizio di un progresso più equo”. Da ciò deriva che l’utilizzo di strumenti e metriche di misurazione dell’impatto in grado di fornire indicazioni certe sui risultati raggiunti e sul cambiamento prodotto dagli investimenti realizzati dalle imprese sociali permette – in modo ragionevole ed inequivocabile – di comprendere quali investimenti sono in grado di produrre cambiamenti positivi.

Entrare nel capitale sociale delle imprese sociali

Considerando la natura delle imprese sociali, è fondamentale che le fondazioni bancarie traghettino i loro modelli ordinari di intervento verso forme evolute ed innovative. Per cui la costituzione di fondi, funzionali anche all’ingresso nel capitale sociale, permette alle imprese sociali esistenti di consolidare i loro modelli di intervento e costruire nuove progettualità, mentre le imprese sociali nuove sono facilitate nella loro costituzione e nell’avvio della loro operatività.

In questo modo le fondazioni bancarie possono rispondere al bisogno di crescita e di consolidamento delle imprese sociali in un’ottica di sostenibilità e di partenariato attivo attraverso una condivisione di competenze, esperienze, professionalità e risorse finanziarie. Non più meri erogatori di contributi, ma attori territoriali che – corresponsabilmente – diventano agenti di sviluppo, sostenendo il fare impresa e perseguendo il duplice obiettivo dell’utilità sociale e dello sviluppo economico.

La scommessa della sostenibilità

A questo proposito è utile tornare al tema della sostenibilità che, come si è detto, rappresenta un tema trasversale che attraversa le grandi sfide del prossimo futuro.

La domanda da porsi è come aiutare le imprese sociali a trovare risorse da finalizzare al sostegno di investimenti limitando il ricorso al credito bancario. Sicuramente la finanza di impatto può essere di profondo aiuto per il consolidamento organizzativo delle imprese sociali ma risulterebbe – a mio modesto avviso – più coerente e vincente la costituzione di un fondo rotativo nazionale con il fattivo coinvolgimento delle fondazioni bancarie in grado di permettere alle imprese sociale di sostenere nuovi investimenti. In sintesi, è possibile pensare a strumenti in grado di dotare le imprese sociali di risorse, entrando anche nel capitale sociale delle stesse – una modalità assimilabile al tipico “contributo a fondo perduto”; realizzato l’investimento, l’impresa sociale ha la possibilità di generare reddito ed una parte del reddito prodotto viene finalizzato alla restituzione del capitale al fondo rotativo. Il tutto in una prospettiva di 7 – 10 anni che costituisce un lasso di tempo variabile ma congruo per garantire il rendimento al capitale investito. Il fondo rotativo avrebbe la possibilità di autoalimentarsi nel corso del tempo garantendo la propria sostenibilità.

4. In parte, tutto ciò è già il presente

Sino ad ora si sono espressi auspici su come le fondazioni bancarie dovrebbero agire per sostenere l’impresa sociale nel suo sforzo di innovazione; ma tutto ciò è in parte un orientamento per sviluppi futuri, in parte un elemento che già inizia ad attraversare l’azione delle fondazioni.

Alcuni esempi

Nel panorama italiano ci sono fondazioni bancarie in grado di esprimere un grande potenziale di visione e strategia; sicuramente la Fondazione Compagnia San Paolo che pone in evidenza un claim affascinante come “Una precisa idea di fondazione. Guardare lontano per agire nel presente” o la Fondazione Cariplo che “promuove la vita delle comunità”. Mi limito a citare solo due esempi, ma sono diverse le fondazioni bancarie che hanno intrapreso innovativi percorsi di sviluppo in condivisione con le comunità di riferimento. Come sostiene Francesco Profumo - Presidente di Compagnia San Paolo e di Acri - “le Fondazioni sono al fianco di chi nel Paese lavora per offrire nuove opportunità a chi non le ha mai avute, a chi vuole rendere realtà delle buone idee ed a chi ha bisogno di una spinta per ripartire”.

A livello di interventi di sistema realizzati dalle fondazioni bancarie in ambito nazionale vale la pena ricordare la recente costituzione del Fondo per la Repubblica Digitale; si tratta di una partnership tra pubblico e privato sociale (Governo e Associazione di Fondazioni e di Casse di risparmio – Acri), che si muove nell’ambito degli obiettivi di digitalizzazione previsti dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) e dall’FNC (Fondo Nazionale Complementare) con il fine di accompagnare l’Italia verso la transizione digitale con il coinvolgimento del Terzo Settore. L’obiettivo è sostenere interventi rivolti alla formazione e all’inclusione digitale, per accrescere le competenze digitali e migliorare i corrispondenti indicatori del Digital Economy and Society Index (DESI). In tal modo si interviene, con visione e strategia, per ridurre il divario digitale e promuovere l’educazione sulle tecnologie del futuro, supportando il processo di sviluppo delle comunità. L’iniziativa agisce con interventi sinergici e di sistema, mettendo in rete le esperienze e le competenze sviluppate nell’ambito di tutti i settori e di tutte le componenti del nostro Paese.

La mia esperienza diretta

Un altro intervento, in cui mi trovo direttamente coinvolto, è il progetto “PINQUA – Forme dell’abitare” realizzato con partenariato pubblico – privato tra il Comune di Ascoli Piceno e la locale Fondazione Cassa di Risparmio. Il progetto ha ottenuto un contributo pubblico di 75 milioni di euro a valere sulle risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Un esempio vincente di collaborazione pubblico, privato e privato sociale. Il progetto si caratterizza per l’integrazione di variegate dimensioni strategiche di intervento condivise in una visione unitaria. La dimensione welfare e quella della salute per attivare un polo sanitario solidale rivolto a fasce sociali fragili e a rischio di emarginazione, strutturato come servizio socio-sanitario a bassa soglia d’accesso; la dimensione culturale per realizzare una piattaforma partecipativa per l’identità e la cultura urbana; la promozione dello start up di un’impresa sociale per la gestione di un albergo etico, un’iniziativa di turismo accessibile; l’istituzione del “Parco Scientifico, Tecnologico e Culturale”, attraverso la creazione di una piattaforma logistica, tecnologica, culturale e scientifica fondata su misure e dispositivi di Social Outcome Contracting e dei Social Impact Finance; l’attivazione di un Centro commerciale diffuso nel centro storico di Ascoli Piceno; la dimensione accessibilità con l’attivazione di un servizio flessibile di trasporto a chiamata, individuale e collettivo, per una mobilità sostenibile; la dimensione partecipativa con la realizzazione di un centro direzionale per il Terzo Settore urbano che consenta di attivare un ruolo di coordinamento, di contaminazione, scambio e cross fertilization, in grado di accrescere l’efficacia e l’impatto del privato sociale; l’implementazione di un polo polifunzionale in grado di divenire punto di riferimento educativo per il sostegno della crescita individuale, sociale, identitaria e relazionale dei minori e delle famiglie.

Questo intervento è risultato vincente perché la vera sfida è stata quella di trovare nuovi format per tenere vivi i valori comunitari in un contesto che cambia, e veicolarli presso Istituzioni, mercati, proponendo percorsi condivisi. Si è partiti dalla consapevolezza che, se le comunità sono forti, lo sono anche le Istituzioni ed i mercati. E le imprese sociali vengono coinvolte ed attivate non solo come mere erogatrici di servizi ma come parte significativa di un sistema di rapporti e legami comunitari.

L’utilizzo di strumenti innovativi di partecipazione può produrre effetti positivi se e solo se vengono legati ad un processo di medio – lungo termine. Tale intervento, per l’esperienza di Ascoli Piceno, si è potuto realizzare perché ha trovato una comunità – ed in particolare un Terzo Settore – fertile all’ascolto ed alla condivisione. Ci vuole una buona dose di apertura e condivisione per far sì che esperienze autonome e distinte possano conoscersi e contaminarsi.

La sfida delle 4C

In queste pagine si è provato a riassumere sinteticamente alcune delle principali sfide per delle fondazioni bancarie che vogliano essere partner di un’impresa sociale entro una visione di cambiamento. Questa è, a mio avviso, la sfida del nostro tempo.

Ma, al di là delle singole azioni, mi piace sintetizzarla come la sfida delle 4C: cuore, cervello, confronto e coraggio.

Cuore perché per costruire ci vuole una grande passione. La passione del fare, del cooperare per costruire un futuro migliore.

Cervello, perché il fare non basta. Il fare richiede competenza, conoscenza, riflessione, ragionamento, visione e tanta immaginazione.

Confronto, perché le relazioni sono fondamentali nella costruzione delle soluzioni.

E coraggio, un ingrediente fondamentale per far sì che le cose cambino e per responsabilizzare tutti gli attori in campo.

Per cui, la vera sfida che ci attende è il coraggio del cambiamento. E per cambiare bisogna osare. E per osare bisogna avere una visione e il coraggio di assumersi una corresponsabilità condivisa che abbia un unico fine: generare valore sociale e migliorare il benessere del nostro territorio.

Se vogliamo costruire questo cammino possiamo farlo solo insieme alle imprese sociali.

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