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ISSN 2282-1694
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Numero 3 / 2022

Saggi

Il Piano d’azione europeo per l’economia sociale e i riflessi sull’ordinamento italiano

Giammaria Gotti

Abstract

Con il presente lavoro[1] si intende analizzare quanto previsto dal Piano d’azione europeo per l’economia sociale pubblicato di recente dalla Commissione europea. Il Piano si pone l’ambizioso obiettivo di sviluppare “quadri politici e giuridici adeguati a far prosperare l’economia sociale”. Rientrano in questo ambito la fiscalità, gli appalti pubblici e la disciplina degli aiuti di Stato, da adattare alle esigenze dell’economia sociale. Sono tutti aspetti che interessano da vicino il legislatore italiano, che su tali temi è tenuto regolarmente a fare i conti con l’ordinamento europeo, compresa la giurisprudenza della Corte di giustizia UE. Si tenterà quindi di comprendere quali sono i riflessi che il Piano d’azione potrà avere sull’ordinamento italiano, anche alla luce delle prospettive lasciate aperte dai decreti legislativi sull’impresa sociale e sul terzo settore. Sullo sfondo, la posizione costituzionale dell’economia sociale, profondamente influenzata dal panorama euro-unitario, nel quadro di una perenne tensione tra principio di solidarietà e principio di concorrenza e di un non sempre facile dialogo tra le categorie italiane e quelle accolte dal diritto UE.

Keywords: Unione europea, Action plan, economia sociale, PNRR, impresa sociale.

DOI: 10.7425/IS.2022.03.01 

Introduzione

Durante la pandemia i soggetti della cd. economia sociale si sono trovati in prima linea di fronte alla crisi. Questo ha permesso di apprezzare ancora di più l’enorme potenziale di risorse, capacità e idee dell’economia sociale nel creare soluzioni concrete e innovative alle sfide chiave che ci troviamo ad affrontare.

Il PNRR italiano, elaborato in risposta alla crisi generata dalla pandemia, non è stato però del tutto esplicito nel riconoscere il ruolo di tali soggetti. Riconoscimento presente invece, per esempio, nel PNRR francese (cd. France Relance), che è ricco di richiami al ruolo degli attori dell’«économie sociale et solidaire (ESS)» e che contiene il preciso impegno a sostenere l’attività di tali soggetti in molteplici ambiti di attività. Così, dopo aver affermato che gli attori dell’ESS parteciperanno a pieno titolo alla resilienza dell’economia francese, il Piano francese dichiara apertamente che «les structures de l’économie sociale et solidaire ont un rôle de premier plan (…) cela s’est vu au plus fort de la crise et sera pris en compte dans la relance». L’economia sociale, di cui non si trova nel PNRR italiano alcun riferimento specifico, è nel Piano francese considerata come un vero e proprio modello economico e sociale il cui sviluppo viene incoraggiato in un’ottica di lungo periodo.

Spiccata attenzione per l’economia sociale hanno mostrato di recente pure le istituzioni UE. Già il Regolamento UE n. 241/2021, istitutivo del Dispositivo per la ripresa e la resilienza, ha previsto che «le riforme e gli investimenti [dei PNRR nazionali] dovrebbero promuovere … l’economia sociale» (considerando 13). Più di recente, la Commissione europea ha pubblicato il suo Piano d’azione per l’economia sociale, con l’obiettivo di “potenziare gli investimenti sociali, sostenere gli operatori dell’economia sociale e le imprese sociali”.

Il presente lavoro, dopo una breve premessa sulla considerazione che l’Unione ha dell’economia sociale, muoverà allora proprio da un’analisi di quanto previsto dal Piano d’azione della Commissione, in particolare degli strumenti previsti per rafforzare l’economia e l’impresa sociale. Il Piano, dopo aver fornito un’importante definizione di “economia sociale”, si pone l’ambizioso obiettivo di sviluppare “quadri politici e giuridici adeguati a far prosperare l’economia sociale”. Rientrano in questo ambito la fiscalità, gli appalti pubblici e la disciplina degli aiuti di Stato, che devono essere adattati alle esigenze dell’economia sociale.

Per affrontare questi aspetti, nel 2023 la Commissione prevede di proporre una raccomandazione del Consiglio sullo sviluppo delle condizioni quadro dell’economia sociale, di pubblicare orientamenti per gli Stati membri sui quadri fiscali per le organizzazioni dell’economia sociale, di agevolare l’accesso agli orientamenti in materia di aiuti di Stato e di migliorare le buone pratiche in materia di appalti pubblici “socialmente responsabili”.

Sono tutti aspetti di grande attualità per il legislatore italiano, che su tali temi è tenuto regolarmente a fare i conti con l’ordinamento europeo, compresa la giurisprudenza della Corte di giustizia UE. L’analisi si sposterà poi sullo spazio che l’economia sociale (non) ha trovato nel PNRR italiano, a differenza di quanto previsto dal più ambizioso Piano francese. Infine, si tenterà di comprendere quali sono i riflessi che il Piano d’azione potrà avere sull’ordinamento italiano, anche alla luce delle prospettive lasciate aperte dai decreti legislativi sull’impresa sociale e sul terzo settore. Sullo sfondo, la posizione costituzionale dell’economia sociale, profondamente influenzata dal panorama euro-unitario, con una perenne tensione tra principio di solidarietà e principio di concorrenza e un non sempre facile dialogo tra le categorie italiane e quelle accolte dal diritto UE.

La considerazione dell’Unione europea per l’economia sociale, tra tentativi di regolazione dall’alto e incentivazione delle spinte dal basso

L’economia sociale non è un concetto incardinato solidamente all’interno della cultura istituzionale dell’Unione europea[2]. Non se ne trova infatti menzione esplicita nei Trattati così come è assente, con le sole eccezioni che si vedranno, in gran parte del diritto derivato dell’Unione. Cosa diversa è pure l’economia sociale di mercato cui fa riferimento l’art. 3 TUE[3], una clausola generale dall’ampia accezione destinata ad essere storicamente concretizzata da parte delle istituzioni euro-unitarie. Essa è piuttosto un’idea fondamentale che mira a contemperare i vantaggi dell’economia di mercato con esigenze di carattere sociale e che esprime l’esigenza che il mercato sia sottoposto a regole e controlli volti a correggere il suo funzionamento ogni volta in cui esso non è in grado di giungere spontaneamente a soluzione adeguate. Inoltre, l’Unione europea ha tendenzialmente evitato di dettare una disciplina in materia di organizzazioni non lucrative, concentrando invece la sua attenzione sugli enti commerciali e i lavoratori, quali veri protagonisti del “mercato unico” europeo. Infatti, l’art. 55 TFUE sulla libertà di stabilimento ha espressamente escluso gli enti senza scopo di lucro aventi sede in uno Stato membro dal diritto di stabilirsi nel territorio di un altro Stato membro, diritto riconosciuto invece alle imprese a scopo di lucro e i lavoratori.

Ci si è chiesti allora in quali altre disposizioni dei Trattati si potesse rinvenire una competenza euro-unitaria in materia[4]. In assenza di una specifica previsione normativa, si è detto che la base giuridica per intervenire potrebbe essere quella dell’articolo 352 del TFUE, che disciplina le modalità di adozione di disposizioni “quando un’azione dell’Unione appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesto”[5]. Tale articolo prevede l’unanimità del Consiglio, rendendo così particolarmente difficile l’elaborazione di un diritto uniforme in materia da parte delle istituzioni UE.

Come è stato attentamente osservato, il ruolo sempre crescente che l’economia sociale ha assunto negli ultimi anni nei paesi europei è stata piuttosto “la conseguenza di processi spontanei che emergono dal basso, a livello locale, piuttosto che l’effetto di una effettiva capacità di policy a livello comunitario”[6]. L’ostacolo più rilevante incontrato dalle istituzioni dell’Unione nell’intervenire in questo settore è stato soprattutto la varietà di forme che l’economia sociale ha assunto nei diversi ordinamenti giuridici europei e la conseguente “resistenza di questo fenomeno nei confronti di tentativi di classificazione all’interno di un disegno unitario”, che ha ostacolato la formulazione di atti di policy comunitaria veramente efficaci. Tanto è vero che si è detto che “tutta la materia dipende infatti dalla costante ricerca di un equilibrio tra l’intervento di regolazione e incentivazione dall’alto e le spinte dal basso”[7].

La discussione si è allora spostata su quale fosse lo strumento di politica pubblica più adatto a sostenere un settore molto spesso contrassegnato da spontaneità e informalità. La dottrina ha parlato di diverse strategie di sostegno possibili (strategia degli incentivi; dell’appalto; dei voucher; del supporto)[8]. Quelle che l’Unione è riuscita a implementare maggiormente sono quella “del supporto” e quella “dell’appalto”. La strategia del supporto, consistente nel riconoscimento di sussidi per la creazione di nuove imprese dell’economia sociale, è stata tra le politiche pubbliche di punta della Commissione. A tale strategia va ricondotta per esempio la cd. Social Business Initiative del 2011, un’iniziativa volta a creare un ecosistema favorevole allo sviluppo di imprese sociali attraverso misure volte a migliorarne la visibilità e il riconoscimento, semplificando il contesto legislativo e migliorando l’accessibilità ai finanziamenti. Quanto alla strategia dell’appalto, consistente nella regolazione dei contratti pubblici in modo tale da tenere in considerazione anche le aspettative e la posizione degli enti dell’economia sociale, la tendenza che oggi si osserva (si pensi ad es. alla recente direttiva 2014/24/UE) è quella di aumentare le soglie di valore sotto le quali le pubbliche amministrazioni possono rivolgersi direttamente alle imprese sociali. Tuttavia, pur lasciando qualche spazio di agibilità ai singoli Stati membri, quello degli appalti è uno degli ambiti in cui in realtà l’Unione è ancora molto lontana dalle logiche di pieno riconoscimento dell’economia sociale, a causa soprattutto – come fra poco si spiegherà – di una perdurante ideologia di mercato che ispira le sue politiche.

Piuttosto che impegnarsi in una difficile opera di sintesi normativa delle diverse esperienze riconducibili all’economia sociale e alla puntuale definizione di un approccio regolatorio euro-unitario sul tema, la scelta è stata quella di favorire le “spinte dal basso”, incoraggiando (tramite supporto finanziario o tramite una maggiore flessibilità nell’accesso ai contratti pubblici) le sperimentazioni diffuse provenienti dagli enti dell’economia sociale. Rimane dunque assente, ad oggi, un preciso quadro normativo europeo sul tema[9]. Gli unici e non particolarmente rilevanti strumenti normativi dell’Unione specificamente dedicati agli enti dell’economia sociale sono stati il Regolamento 1435/2003 relativo allo statuto della Società Cooperative Europea[10] e la Comunicazione della Commissione sulla promozione delle società cooperative in Europa del 2004[11], diretto a migliorare le normative degli Stati membri in materia di società cooperative.

La recente “svolta sociale” dell’Unione europea

Dopo aver descritto la considerazione dell’Unione europea per l’economia sociale, non può non farsi riferimento all’evoluzione del suo approccio sul più ampio tema correlato alla protezione dei diritti sociali. Di recente, infatti, si è parlato di una “svolta sociale” dell’Unione: un vero e proprio cambio di paradigma nel suo approccio politico destinato a lasciare tracce importanti anche nella materia di cui ci stiamo occupando. Un po’ di storia può aiutare a comprendere meglio.

Agli albori dell’integrazione comunitaria, il Trattato di Roma del 1957 affidava alla Comunità economica europea il compito di promuovere un “miglioramento sempre più rapido del tenore di vita” degli europei, da realizzarsi mediante l’instaurazione di un mercato comune[12]. Nelle intenzioni degli Stati firmatari sarebbe stato il “buon funzionamento” del mercato, assicurato dall’azione comunitaria, a creare le condizioni (di benessere economico, innanzitutto) tali da permettere agli Stati membri, all’interno dei propri ordinamenti nazionali, di rafforzare le politiche sociali[13].

Queste ultime, a fronte di una finalizzazione essenzialmente economica dell’iniziale progetto di integrazione europea, venivano lasciate come in secondo piano, così che si parlò di una iniziale “frigidità sociale”[14] della Comunità, e di una originaria “minorità comunitaria”[15] dei diritti sociali. Allo stesso tempo si è però anche sottolineato l’indissolubile intreccio tra dimensione economica e dimensione sociale nello spirito fondatore dell’integrazione comunitaria[16], sino ad affermare che l’Unione “è sempre stata fondamentalmente un progetto sociale”[17].

Dal 1957 ad oggi molto è cambiato, anche solo nel tenore testuale – decisamente più ambizioso – dei Trattati[18]. Un problema pare però immutato, anzi forse acuito, specie dopo i recenti momenti di crisi: quello della ricerca di un punto di equilibrio tra le esigenze del mercato e la tutela dei diritti sociali.

Dal punto di vista della configurazione “costituzionale” dei Trattati, che prevedono il ricorso al metodo comunitario e al cd. “metodo sociale”[19] per l’adozione di politiche sociali (Titolo X del TFUE), potrebbe pure dirsi raggiunto una sorta di ponderato bilanciamento tra i due elementi[20]. Al contrario, se si guarda alla ritrosìa della Corte di Giustizia dell’Unione europea nella tutela dei diritti sociali[21], specie dopo le note pronunce Viking, Laval e Rütter[22], e ai meccanismi di governance delle politiche economiche, soprattutto nell’ambito del cd. Semestre europeo, la valutazione cambia radicalmente, osservandosi un chiaro sbilanciamento tutto a favore del mercato[23].

Uno dei più incoraggianti segnali di ri-equilibrio verso il sociale è da individuarsi senza dubbio nella solenne proclamazione, il 17 novembre 2017 a Göteborg, del Pilastro europeo dei diritti sociali. Pare allora utile ripercorrere in breve il cammino che ha portato alla proclamazione di tale ambizioso documento, spiegando in particolare il contesto entro il quale quest’ultimo è stato pensato ed elaborato. Con il Consiglio europeo di Lisbona del 23-24 marzo 2000, l’Unione europea pose a se stessa l’obiettivo strategico di divenire entro il 2010 un’economia più competitiva e dinamica in grado di realizzare una “crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro” e una “maggiore coesione sociale”[24]. Tale obiettivo sarebbe stato raggiunto con una strategia (la cd. Strategia di Lisbona) volta, tra l’altro, a modernizzare il “modello sociale europeo”[25] investendo sulle persone e costruendo uno “stato sociale attivo”.

Nel tempo, diversi fattori, di natura sia lato sensu costituzionale che politica, hanno contribuito a frenare le ambizioni di Lisbona[26]. Specialmente la crisi finanziaria del 2011 ha reso più difficile, sia a livello nazionale che a livello europeo, il mantenimento di standard sociali elevati[27]. Le politiche di risanamento di bilancio imposte dall’Unione, come spiegato dallo stesso Parlamento europeo nel 2016, hanno prodotto “gravi disagi sociali”, cosicché “la Unione europea stessa ha iniziato a essere percepita da molti cittadini quale fautrice di divergenza, disuguaglianze e ingiustizia sociale”[28].

Se la precarietà delle condizioni sociali ed economiche determinata dalla crisi ha reso l’integrazione sociale a livello dell’UE più difficile, è al contempo aumentata la pressione per una maggiore attenzione dell’Unione verso il sociale[29]. In occasione del discorso sullo Stato dell’Unione del settembre 2015, il Presidente Juncker annunciava la creazione di un Pilastro europeo dei diritti sociali. Il Pilastro elenca venti principi e diritti in materia sociale[30], che, come chiarito dalla Commissione, sono già presenti nell’acquis dell’Unione (in particolare nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), ma che, essendo stati “fissati in momenti diversi, in modi diversi e in forme diverse”, sono riuniti in unico documento al fine di “renderli più visibili, più comprensibili e più espliciti per i cittadini e per gli attori a tutti i livelli”[31]. A livello dell’Unione, l’attuazione del Pilastro dovrebbe consistere essenzialmente nell’aggiornamento e nel completamento della normativa esistente in materia sociale e nell’introduzione di nuove iniziative legislative, insieme all’integrazione delle “priorità sociali” in tutti i settori di competenza dell’Unione[32].

Il 4 marzo 2021 la Commissione ha pubblicato il Piano d’azione sul pilastro europeo dei diritti sociali[33], trasformando i principi in azioni concrete a vantaggio dei cittadini e proponendo una serie di traguardi che l’UE è chiamata a raggiungere entro il 2030 (almeno il 78% della popolazione di età compresa tra i 20 e i 64 anni dovrebbe avere un lavoro; almeno il 60% degli adulti dovrebbe partecipare ogni anno ad attività di formazione; ridurre di almeno 15 milioni il numero delle persone a rischio di povertà o di esclusione sociale). Come si noterà nel prosieguo, numerose sono le connessioni che la Commissione individua tra esso e il Piano d’azione per l’economia sociale.

In definitiva, oggi si assiste ad un nuovo e inaspettato “ardore”[34] sociale dell’Unione europea, alimentato dalla necessità di rispondere con forza alla crisi economica causata dalla pandemia. Tale svolta saprà dare uno stimolo anche alla considerazione dell’Unione per l’economia sociale? La Commissione ha spesso evidenziato negli ultimi mesi la necessità che la ripresa dalla crisi da COVID-19 sia “equa e inclusiva”, assumendo “come punto di riferimento” il Pilastro europeo dei diritti sociali del 2017[35]. La pandemia, infatti, non solo ha “evidenziato la necessità di proseguire su questa strada”, ma ha chiaramente mostrato che è indispensabile “premere sull’acceleratore”[36]. La crisi COVID-19 ha infatti spinto l’Unione ad una straordinaria mobilitazione di risorse, che ha come primario obiettivo quello di aiutare la popolazione europea. Si pensi che l’Unione richiede agli Stati membri, quale criterio di redazione dei propri Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza ai sensi del Regolamento n. 241 del 2021, di dimostrare come essi siano in grado di rafforzare “la resilienza sociale dello Stato membro, contribuendo all’attuazione del pilastro europeo dei diritti sociali” e di attenuare “l’impatto sociale della crisi COVID-19, migliorando in tal modo la coesione sociale all'interno dell’Unione”[37]. Siamo dunque di fronte ad un nuovo approccio dell’Unione, coerente con l’intento di rafforzare una (debole) dimensione sociale dell’Europa e destinato a spiegare i suoi effetti in numerosi altri ambiti di intervento dell’Unione, tra i quali certamente figura quello oggetto della presente analisi. Il Piano che ora andremo a esaminare è quindi un’altra tappa importante di questo percorso già avviato.

Il Piano d’azione europeo per l’economia sociale

Il 9 dicembre 2021 la Commissione, con una Comunicazione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, ha pubblicato il Piano d’azione per l’economia sociale, con l’accattivante titolo “Creare un’economia al servizio delle persone[38].

Il Piano d’azione, accompagnato da due documenti di lavoro[39], fornisce un quadro europeo con un orizzonte fino al 2030 per sostenere lo sviluppo dell’economia sociale. Il piano definisce una serie di azioni da attuare in concomitanza con l’attuazione del citato Piano d’azione sul Pilastro europeo dei diritti sociali. In particolare, si riconosce che l’economia sociale può contribuire all’attuazione dei principi del Pilastro e alla realizzazione del relativo Piano d’azione per il 2021, ad esempio attraverso l’aumento del tasso di occupazione e la riduzione del numero di persone a rischio di povertà e di esclusione sociale. Questo perché, come rilevato dalla Commissione, “l’economia sociale dà lavoro a circa 13,6 milioni di persone; la percentuale di posti di lavoro retribuiti nell’economia sociale varia tra i diversi Stati membri tra lo 0,6% e il 9,9% del totale dell’occupazione retribuita” e che essa “contribuisce in misura significativa al PIL nei paesi in cui è più sviluppata, ad esempio in Francia, dove rappresenta il 10%”[40]. In questi termini, il collegamento sopra rilevato tra economia sociale e diritti sociali, tra il presente Piano d’azione e quello di attuazione del Pilastro, emerge in maniera netta.

L’esigenza di elaborare un Piano d’azione sul tema è dettata, secondo la Commissione, dal fatto che “le autorità pubbliche non utilizzano appieno le possibilità esistenti per facilitare l’accesso delle imprese sociali agli appalti pubblici o ai finanziamenti, né la flessibilità offerta dalle attuali norme UE in materia di aiuti di Stato. Non essendo sufficientemente compresi né riconosciuti, i soggetti dell’economia sociale si trovano ad affrontare difficoltà nello sviluppo e nell’espansione delle loro attività, che impediscono loro di incidere in misura ancora maggiore a livello economico e sociale”[41]. Gli ostacoli al pieno sviluppo dell’economia sociale, sempre secondo la Commissione, non sono però solo culturali o politici, ma sono anche ostacoli di natura squisitamente giuridica. Per questo si rendono necessarie azioni dirette a rafforzare, principalmente, la collaborazione tra amministrazioni pubbliche e organizzazioni dell’economia sociale e la flessibilità in materia di aiuti di stato e di fiscalità.

Nel presente lavoro si avrà quindi modo di soffermarsi sull’illustrazione delle misure immaginate dalla Commissione per venire incontro alle esigenze dell’economia sociale, non prima di aver messo in luce l’importante sforzo definitorio intrapreso dalla Commissione in apertura del Piano. È infatti nella parte dedicata a definire l’economia sociale che la Commissione compie un passo in avanti importante rispetto alle precedenti posizioni dell’Unione sul tema, senza tuttavia lasciare il campo sgombro da ambiguità.

La definizione di economia sociale. Qualche critica e un elogio

Il Piano si apre con un’importante definizione di economia sociale. Un aspetto non scontato, considerata la pluralità di esperienze, forme e definizioni giuridiche dell’economia sociale nel panorama europeo[42]. Aspetto non scontato inoltre se si guarda al passato approccio euro-unitario sul tema, che potremmo definire “occasionale” o “casistico”. Il diritto dell’Unione europea, infatti, ha sempre evitato di definire l’economia sociale in termini generali ed astratti[43], limitandosi a definire alcuni dei soggetti ad essa riconducibili nel contesto di iniziative specifiche. Si ricordi, ad esempio, la definizione di impresa sociale contenuta nell’art. 2 del Regolamento UE n. 1296 del 2013, relativo a un programma europeo per l’occupazione e l’innovazione sociale (“EaSI”)[44] – definizione espressamente dettata “ai fini del presente Regolamento” – o quella di organizzazioni legittimate a partecipare agli appalti riservati di cui all’art. 77 della direttiva UE n. 24 del 2014[45].

Come è stato notato in dottrina, manca quindi a livello europeo una nozione corrispondente a quella di Terzo settore accolta oggi in Italia e, ancora più in generale, di associazione o fondazione senza scopo di lucro: “oltre alla difficoltà sul piano teorico generale, vi è da considerare una certa gelosia degli Stati membri, che hanno ritenuto le iniziative della Commissione in tal senso come «indebite ingerenze», in grado di interferire con il modo in cui sono organizzati i sistemi di welfare nazionale”[46].

Anzitutto, è importante notare che la definizione contenuta nel Piano vale non solo “nel contesto del Piano” ma anche in quello “delle iniziative dell’UE correlate”. Il descritto approccio casistico e settoriale adottato in passato dall’Unione sembra allora abbandonato. L’aspirazione è infatti quella di dettare una definizione di ampio respiro valevole anche oltre il Piano d’azione, in tutte le iniziative dell’UE ad esso correlate che sono, tra l’altro, quelle in materia di aiuti di Stato, fiscalità e contratti pubblici.

La Commissione afferma che “l’economia sociale comprende i soggetti che condividono le caratteristiche e i principi comuni fondamentali descritti di seguito: il primato delle persone, nonché del fine sociale e/o ambientale, rispetto al profitto, il reinvestimento della maggior parte degli utili e delle eccedenze per svolgere attività nell’interesse dei membri/degli utenti (interesse collettivo) o della società in generale (interesse generale) e la governance democratica e/o partecipativa”[47]. Viene inserito anche un elenco dei tipi principali di soggetti riconducibili all’economia sociale, entità private, indipendenti dalle autorità pubbliche e con forme giuridiche specifiche: cooperative, società di mutuo soccorso, associazioni (comprese le associazioni di beneficenza), fondazioni, imprese sociali[48]. Si dà conto, infine, della varietà di termini per riferirsi al mondo dei soggetti dell’economia sociale, tra cui quello di “terzo settore”.

L’opera definitoria della Commissione si presta a qualche critica e ad un elogio. Anzitutto, non si può non notare la considerevole ampiezza della definizione, che, invece di aiutare l’interprete nell’individuare gli esatti confini dell’economia sociale – sempre che ciò sia possibile –, ne estende di parecchio la nozione. Sono poi molteplici i criteri discretivi considerati dalla Commissione: questo impedisce di comprendere quale sia il tratto veramente caratterizzante gli enti dell’economia sociale. Il primo piano considerato è infatti quello della forma giuridica: cooperative, società di mutuo soccorso, associazioni, fondazioni, imprese sociali[49]. Si prende poi in considerazione la qualifica giuridica (“economia sociale”, “imprese sociali”, “terzo settore”), dimenticando però che a livello nazionale quelle qualifiche giuridiche sono attribuibili a quei soli soggetti che possiedono le caratteristiche definite dalla normativa nazionale (si pensi all’art. 4 CTS)[50]. A tal proposito, più che utile sarebbe stato un coordinamento europeo in grado di far parlare tra loro tali diverse esperienze nazionali[51]. Si prende poi in considerazione il modello organizzativo, che non è solo quello dell’assenza di scopo di lucrativo, ma anche quello della governance democratica. Infine, un altro aspetto preso in considerazione è quello dell’ambito di attività: secondo la Commissione, “l’economia sociale comprende una serie di soggetti… che operano in un’ampia gamma di settori economici: agricoltura, silvicoltura e pesca, edilizia, riutilizzo e riparazione, gestione dei rifiuti, commercio all’ingrosso e al dettaglio, energia e clima, informazione e comunicazione, attività finanziarie e assicurative, attività immobiliari, attività professionali, scientifiche e tecniche, istruzione, salute umana e attività sociali, arte, cultura e media”.

A ben vedere, a livello dell’Unione europea, quella di economia sociale appare più come una categoria narrativa o sociologica. L’Unione non sembra infatti avere sviluppato sul tema una mentalità giuridica. Netta è però la dicotomia tra la definizione del sociologo e quella del giurista. Quando infatti da una definizione (sociologica) si vogliono trarre conseguenze giuridiche, si pongono alcune difficoltà legate alla necessità di individuare con precisione chi sono i destinatari degli interventi normativi o delle misure di vantaggio che si vogliono prevedere. Inoltre, pur non essendo più in discussione, come dimostrato supra, il fatto che l’Unione persegua anche obiettivi extra-economici (ambientali, sociali, comunue legati al benessere e non più solo alla crescita economica), è invece ancora poco chiaro quale sia il ruolo dei soggetti dell’economia sociale nel perseguirli e ancor più – mancando un fondamento “costituzionale” solido della loro attività, al pari di quanto disposto dall’art. 118, quarto comma, Cost. in Italia – a che titolo essi possano instaurare un rapporto specifico con le pubbliche amministrazioni per perseguire tali obiettivi condivisi. Sono queste le maggiori difficoltà che si accompagnano all’assenza di una solida definizione giuridica di economia sociale a livello dell’Unione.

Vi sono però anche degli aspetti positivi dello sforzo definitorio della Commissione. Anzitutto, la già citata dimostrazione di voler superare il passato approccio settoriale sul tema, chiudendo così “questa fase di riconoscimenti parziali e di generiche perplessità con un riconoscimento pieno dell’economia sociale, della sua presenza più o meno marcata in tutti i settori…, della sua rilevanza economica e sociale e del potenziale ancora inesplorato”[52]. Inoltre, la Commissione, con il descritto impegno definitorio, sembra stia prendendo atto che c’è una sempre crescente difficoltà che opera sul piano definitorio, avvertita non solo dai soggetti del settore, ma soprattutto dalle autorità pubbliche chiamate ad orientarsi in un difficile quadro normativo. Se in passato il problema definitorio veniva accantonato per la supposta scarsa rilevanza transfrontaliera del fenomeno, oggi il Piano sembra operare un “salto culturale”, riconoscendo che questa scarsa rilevanza è tutt’altro che fondata. È lo stesso Piano infatti a riconoscere la sempre maggiore rilevanza sul piano interno del fenomeno dell’economia sociale, rilevanza che non può quindi più essere trascurata dal diritto dell’UE.

Se dunque il Piano europeo non risolve del tutto il problema definitorio, lasciando aperto il centrale problema del coordinamento tra definizioni europee e nazionali, incoraggia però lo sviluppo di un serio dibattito sul tema. Non si dimentichi poi che, nonostante il Piano sia formalmente un atto di soft law, è comunque – come si spiegherà meglio più avanti – un documento ufficiale dell’Unione, come tale destinato ad essere tenuto in attenta considerazione, anche se solo a fini orientativi e interpretativi, dalla Corte di giustizia nell’opera di verifica della compatibilità tra diritto nazionale ed europeo cui è costantemente chiamata da parte dei giudici nazionali. 

Lo sviluppo di quadri giuridici e politici adeguati: verso uno “statuto europeo” per gli enti del Terzo settore?

Obiettivo principale del Piano, secondo quanto riporta la Commissione, è quello di sviluppare “quadri giuridici e politici adeguati” a far prosperare l’economia sociale. Come ricordato, quindi, la Commissione individua tutta una serie di ostacoli – prima ancora che giuridici – politici e culturali al pieno sviluppo di tale fenomeno. Con le parole della Commissione, “la natura intersettoriale dell’economia sociale e il fatto che comprenda diversi tipi di soggetti costituiscono sfide importanti per le autorità pubbliche, in quanto complicano lo sviluppo di un approccio efficace. È raro che vi siano punti di ingresso unici e chiaramente definiti nelle pubbliche amministrazioni”. Sono quindi le autorità pubbliche che spesso non sfruttano gli strumenti giuridici già esistenti e ostacolano così l’attività degli ESS. Molteplici sono quindi gli inviti rivolti alle pubbliche amministrazioni di migliorare il loro approccio sul tema e a tal fine la Commissione si propone di organizzare workshop e incontri tematici dedicati.

La Commissione ammette però che gli ostacoli sono anche giuridici e si impegna quindi a proporre appositi strumenti per superarli. Anzitutto, per fornire un approccio globale all’economia sociale e facilitarne uno sviluppo uniforme in tutti gli Stati membri, nel 2023 la Commissione dichiara di voler presentare una proposta di raccomandazione del Consiglio sullo sviluppo delle condizioni quadro dell’economia sociale, con lo scopo di invitare i decisori politici ad adattare meglio quadri giuridici e le politiche alle esigenze dei soggetti dell’economia sociale.

Inoltre, la Commissione riconosce che un altro ostacolo è costituito dal fatto che fondazioni e associazioni operanti nell’economia sociale incontrano spesso notevoli difficoltà nell’usufruire appieno dei vantaggi del mercato unico. Ad esempio, alcune associazioni sono soggette a vincoli nell’esercizio delle loro attività a livello transfrontaliero.

Tale questione viene affrontata in una recente risoluzione del Parlamento europeo del 17 febbraio 2022 recante raccomandazioni alla Commissione su uno Statuto delle associazioni e organizzazioni senza scopo di lucro transfrontaliere europee[53]. Con la risoluzione il Parlamento invita la Commissione a presentare, sulla base dell’art. 114 TFUE, una direttiva per l’introduzione di standard minimi e comuni per le organizzazioni senza scopo di lucro nell’UE, nonché, sulla base dell’art. 352 TFUE, un regolamento recante l’introduzione di uno statuto per le associazioni europee che includa regole sulla creazione, la trasparenza e la responsabilità.

Nella Risoluzione il Parlamento sottolinea, in generale, che nella legislazione a livello nazionale e nelle tradizioni giuridiche degli Stati membri “esistono approcci diversi per definire o riconoscere le organizzazioni senza scopo di lucro” ma che, nonostante tali differenze, “vi è un’intesa comune in merito alla necessità di stabilire norme minime europee”. Per questo invita la Commissione ad armonizzare lo “status di pubblica utilità” in tutta l’Unione, attraverso la predisposizione di un corpus unitario e completo di regole comuni per la costituzione, l’organizzazione e lo scioglimento delle organizzazioni senza scopo di lucro. In particolare, nella proposta di regolamento allegata alla Risoluzione[54], si disciplinano la costituzione, la governance, la registrazione e la regolamentazione dei soggetti dell’associazione europea, definita quale “entità transfrontaliera indipendente e autogovernata stabilita su base permanente nel territorio dell’Unione, mediante accordo volontario tra persone fisiche o giuridiche, a scopo comune senza scopo di lucro” (art. 1). Nella proposta di direttiva, si fornisce un insieme comune di misure “minime” per le organizzazioni senza scopo di lucro stabilite nell’Unione al fine di ravvicinare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri per quanto riguarda gli obiettivi, le attività, la registrazione, le operazioni, il finanziamento, la rendicontazione e le attività transfrontaliere delle organizzazioni senza scopo di lucro[55]. A dir la verità, notevoli sono gli ostacoli che si frappongono all’adozione di tali atti normativi, tra cui quella dell’unanimità prevista per l’adozione del Regolamento. Rimane il fatto che enormi e di diversa natura (politica, economica e sociale) sarebbero i benefici di questa sorta di “legge europea sul terzo settore”[56].

In definitiva, si nota come le più innovative proposte legislative siano venute non dalla Commissione – che nel Piano non le menziona – ma dal Parlamento in un’apposita e successiva Risoluzione, forse quasi in risposta all’inerzia della Commissione sul punto. Come era stato messo in rilievo in dottrina, infatti, era “singolare… come anche in materie a competenza concorrente, o nelle quali l’Unione abbia competenze attribuite, anche solo di coordinamento, vi siano pochissimi riferimenti all’avvio di processi legislativi unionali. Eppure, non dovrebbero mancare gli argomenti sui quali proporre a Consiglio e Parlamento una tale azione”, come nel caso degli appalti pubblici o del coordinamento delle misure fiscali[57].

Il “nodo” del sostegno finanziario pubblico

La Commissione riconosce poi che il sostegno finanziario pubblico “svolge un ruolo importante nel consentire l’avvio e lo sviluppo dei soggetti dell’economia sociale”. Il riferimento è ovviamente al tema degli aiuti di Stato, la cui disciplina, a livello euro-unitario, mira a mantenere un equilibrio tra il sostegno economico a tali soggetti e la concorrenza.

Un primo aspetto problematico, secondo la Commissione, riguarda il fatto che “le autorità pubbliche e i beneficiari spesso non sfruttano al massimo le possibilità esistenti in materia di aiuti di Stato”[58]. Il problema riguarda, anzi, soprattutto le autorità pubbliche, che limiterebbero inutilmente l’importo degli aiuti concessi alle imprese sociali alla soglia generale de minimis (200 000 euro per un periodo di 3 anni) e non considererebbero altre possibilità che potrebbero essere in linea con la disciplina europea, quali gli “aiuti regionali”, le “misure per il finanziamento del rischio” o gli “aiuti all’assunzione di lavoratori svantaggiati”[59]. Tutte possibilità per le quali gli importi massimi degli aiuti sono generalmente più elevati.

Un altro aspetto di particolare rilievo riguarda le norme attualmente vigenti in materia di servizi d’interesse economico generale (SIEG), strettamente correlato alla materia degli aiuti di Stato[60]. Come noto, si prevede infatti che taluni soggetti possano beneficiare di una maggiore flessibilità in tema di aiuti se incaricati di una missione specifica, ossia di servizi di interesse economico generale[61]. Come rileva la Commissione nel Piano, le autorità pubbliche però non sempre sfruttano appieno tale possibilità (ad esempio in relazione alle attività delle imprese sociali che offrono posti di lavoro alle persone vulnerabili)[62]. La Commissione si propone dunque di facilitare l’accesso ai pertinenti orientamenti in materia di aiuti di Stato, trattando questo argomento “nei seminari online e nei workshop che organizzerà”.

Un terzo aspetto problematico riguarda l’entità degli aiuti di Stato a disposizione dei soggetti dell’economia sociale, che non sarebbe sempre adeguata, in particolare in relazione agli aiuti per l’accesso ai finanziamenti e alle sovvenzioni per l’assunzione di lavoratori svantaggiati, disciplinati dal Regolamento generale di esenzione per categoria (il cd. “GBER”). I dati richiamati dalla Commissione indicano infatti che le imprese sociali riscontrano generalmente maggiori difficoltà di accesso ai finanziamenti rispetto alle imprese “standard”. La Commissione si propone dunque, in sede di revisione del GBER (che dovrebbe avere luogo alla fine del 2023), di valutare se i dati disponibili giustifichino un allentamento delle norme in materia di aiuti per l’accesso delle imprese sociali ai finanziamenti e di aiuti all’assunzione di lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati. La revisione, nel senso appena indicato, del GBER potrebbe allora costituire la tanto attesa occasione per un cambio di approccio della Commissione, che superi quella tendenza di concedere esenzioni secondo una logica di politica industriale e di mero incentivo per abbracciare un approccio di politica sociale più attento alle esigenze dell’ESS[63].

Infine, la Commissione rivolge agli Stati membri un invito a utilizzare meglio i margini di discrezionalità di cui godono nella definizione dei servizi di interesse economico generale, “al fine di ricomprendervi le attività ammissibili svolte dalle imprese sociali”[64]. Un invito particolarmente importante, in quanto è noto come molte organizzazioni dell’economia sociale operano proprio nella realizzazione di SIEG locali. Tuttavia, molte autorità pubbliche considerano ancora le imprese sociali come imprese tradizionali operative in una logica di mercato, rinunciando alla possibilità di applicare il quadro giuridico sugli aiuti pubblici ai SIEG[65]. Allo stesso tempo, è chiaro però che un mero invito, se pur accompagnato dall’impegno a facilitare la conoscenza delle forme di accesso agli aiuti di Stato tramite webinar e workshop dedicati, sia del tutto insufficiente.

Come si è notato, servirebbe soprattutto un deciso intervento normativo[66], che chiarisca i requisiti di accesso e l’entità degli aiuti di Stato a disposizione delle organizzazioni dell’economia sociale. Ciò potrebbe aprire le porta ad una vera svolta: riconoscere come compatibili con il mercato interno le sovvenzioni erogate alle organizzazioni dell’economia sociale in quanto dirette a realizzare l’interesse generale. Sono infatti proprio le finalità – così esaltate ed elogiate dalla Commissione – riconosciute all’economia sociale dallo stesso Piano di azione (a partire dalla definizione) a spingere nella direzione che gli aiuti all’economia sociale siano considerati strutturalmente compatibili con il mercato interno[67].

Qui risiede il vero “nodo” del sostegno finanziario pubblico all’economia sociale. La materia degli aiuti di Stato può essere infatti una di quelle in cui iniziare a costruire un linguaggio (normativo) comune dell’Unione sull’economia sociale, e dell’Unione con i suoi Stati membri. Se infatti, guardando all’Italia, la nozione di “servizio di interesse generale” (SIG) non sembra del tutto distante da quella di attività di interesse generale ex art. 4 del Codice del Terzo settore, potendosi considerare (specialmente a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 2020) la disciplina italiana sul Terzo settore come uno dei modi con cui l’Italia ha disciplinato i SIG, più problematica è la “intersezione” tra le nozioni di SIEG e di “economia sociale” (così come definita nel Piano).

Per evitare le incertezze a cui inevitabilmente le autorità pubbliche sono esposte, un chiaro e risolutorio intervento euro-unitario in materia, seppur politicamente difficile, diventa sempre più necessario. È certamente vero che, in materia di servizi d’interesse generale, l’UE può intervenire nei limiti delle competenze attribuitele dal Trattato e nella misura necessaria, conformemente ai principi di sussidiarietà e proporzionalità[68]. La sua azione deve infatti rispettare la diversità degli Stati membri e i ruoli delle autorità nazionali, regionali e locali nel garantire il benessere dei cittadini e promuovere la coesione sociale. Tuttavia, il concetto di interesse economico generale appare ancora dal significato alquanto sfuggente[69], rendendo la qualifica di un’attività come SIG, SIEG o altro frutto di una scelta politica più che giuridica. Si tratta, insomma, di meglio colorare quell’area grigia che si colloca tra SIG e SIEG, in cui ricadono molte delle attività svolte dai soggetti dell’economia sociale.

Gli appalti ‘socialmente responsabili’

La Commissione ricorda poi che la revisione delle norme UE in materia di appalti pubblici effettuata nel 2014 “ha creato per le autorità pubbliche a tutti i livelli numerose possibilità di utilizzare gli appalti pubblici per raggiungere obiettivi politici diversi, tra cui la promozione della protezione ambientale e il perseguimento di obiettivi sociali”[70]. E infatti oggi le norme europee sugli appalti menzionano espressamente gli aspetti sociali tra gli elementi che possono essere inclusi nei criteri di aggiudicazione sulla base del criterio della “offerta economicamente più vantaggiosa”[71]. Era quindi evidente che con tali modifiche l’Unione si mostrasse attenta all’esigenza di bilanciare i valori della concorrenza con quelli del perseguimento dell’interesse generale, dimostrando di saper valorizzare il possibile contributo che possono apportare le imprese dell’economia sociale ad un nuovo modello di sviluppo economico. Non era un caso, inoltre, che si decidesse di agire proprio sugli appalti, riconosciuti come strumento politico essenziale per sostenere lo sviluppo dell’economia sociale[72].

Da allora la Commissione si è impegnata in molteplici iniziative per sensibilizzare sul “valore aggiunto” degli appalti pubblici cd. “socialmente responsabili”, ad esempio pubblicando, di recente, una revisione della guida “Acquisti sociali” contenente suggerimenti pratici per le stazioni appaltanti[73]. Tuttavia, la Commissione osserva che “le gare d’appalto pubbliche sono ancora aggiudicate per la maggior parte solo in base al criterio del prezzo e gli appalti pubblici socialmente responsabili continuano a essere molto meno noti e sviluppati”. La Commissione si impegna quindi ad aumentare i propri sforzi “per mettere in evidenza i vantaggi e i modi concreti di utilizzare gli appalti pubblici” socialmente responsabili. Insomma, anche qui, come per gli aiuti di Stato, la Commissione sembra dire che sono le autorità pubbliche a non aver saputo cogliere appieno le opportunità offerte dalla normativa europea.

Per la verità, chi scrive ritiene che la responsabilità non sia solo delle autorità pubbliche, ma anche degli strumenti normativi attualmente vigenti. Il principale problema, infatti, nella materia in esame come in quella degli aiuti di Stato, è la scarsa chiarezza di talune nozioni e il loro difficile coordinamento con le nozioni domestiche. Come si è notato, potrebbe essere utile infatti una revisione della direttiva appalti – ed in particolare dell’art. 77 sul regime alleggerito per i servizi sociali[74] – che introduca una più netta e precisa distinzione tra il perseguimento di una “missione di servizio pubblico legata alla prestazione dei servizi sanitari, sociali e culturali” e la realizzazione del mercato unico, per fornire una migliore base giuridica per la definizione di accordi di collaborazione tra enti[75]. Il problema dell’assenza di un linguaggio comune tra Unione e Stati membri si ripresenta quindi nell’art. 77, par. 2, in tema di requisiti soggettivi per l’ammissione agli appalti riservati (riprodotto senza modifiche nell’art. 143 del CCP), che non è coordinato con le nozioni domestiche di ente del Terzo settore/impresa sociale[76], rendendo così più complicato il lavoro delle amministrazioni pubbliche.

In definitiva, si tratta di misure assai timide, che si sostanziano nel “permettere” allo Stato membro di alleggerire l’impostazione concorrenziale, che è però cosa molto diversa dallo sviluppare una teoria e una conseguente normativa che contemperino principio di concorrenza e principio di collaborazione tra pubblica amministrazione ed economia sociale. Amplissima è infatti la distanza tra il livello di dibattito europeo sul tema e, per fare un esempio, quello italiano, ove ormai da tempo la Corte costituzionale italiana parla di “nuovo rapporto collaborativo con i soggetti pubblici”, di un “canale di amministrazione condivisa, alternativo a quello del profitto e del mercato” (sentenza n. 131 cit.).

Economia sociale e PNRR: il ‘virtuoso’ esempio francese e il caso italiano

È quindi giunto il momento di riflettere sulle implicazioni che possono trarsi dal Piano, partendo da un riferimento al posto che l’economia sociale ha trovato nel PNRR italiano, quale fondamentale documento strategico di programmazione delle politiche pubbliche dei prossimi anni. Considerato il fatto che nel Piano la Commissione considera gli enti della ESS fondamentali per la transizione verde e digitale (“Alcune parti dell’economia sociale contribuiscono alla duplice transizione verde e digitale fornendo beni e servizi sostenibili e colmando il divario digitale”[77]; “L’economia sociale contribuisce alla transizione verde sviluppando pratiche, beni e servizi sostenibili per lo sviluppo industriale, ad esempio nei settori dell'economia circolare, dell’agricoltura biologica, delle energie rinnovabili, dell’edilizia abitativa e della mobilità. In questo modo aumenta anche l’accettabilità dei cambiamenti comportamentali che contribuiscono alla mitigazione dei cambiamenti climatici”[78]), ci saremmo aspettati forse nel PNRR italiano un’attenzione più spiccata all’economia sociale. Questo anche perché il Regolamento UE n. 241/2021, istitutivo del Dispositivo per la ripresa e la resilienza[79], ha previsto espressamente che «le riforme e gli investimenti [dei PNRR nazionali] dovrebbero promuovere… l’economia sociale» (considerando 13).

In generale, infatti, nel PNRR italiano non si fa riferimento espressamente all’economia sociale e non sono moltissimi i riferimenti al Terzo settore. Come rilevato in altra sede[80], il Terzo settore nel Piano italiano sembra ricoprire un ruolo piuttosto “settoriale”, invece che centrale o di primo piano. L’impressione è che ci sia ancora una certa difficoltà a concepire il Terzo Settore come un soggetto “strutturale e trasversale” e che, oltre a quelli in cui viene espressamente menzionato, ci sia tutta un’altra serie di ambiti in cui esso è già presente. Tra questi, colpisce l’assenza di un richiamo esplicito al Terzo Settore negli interventi previsti nel campo della cultura, dell’agricoltura sostenibile e della economia circolare, del potenziamento delle competenze e del diritto allo studio, delle politiche del lavoro e degli interventi per potenziare il Servizio sanitario nazionale verso un modello più incentrato sui territori.

Che il margine di attenzione potesse essere più ampio lo conferma il PNRR francese (cd. France Relance)[81], che è ricco di richiami al ruolo degli attori dell’«économie sociale et solidaire (ESS)» e che contiene il preciso impegno a sostenere l’attività di tali soggetti in molteplici ambiti di attività: agricoltura e alimentazione, cultura e turismo, sport, lotta contro la povertà e all’emarginazione sociale. Così, dopo aver affermato che gli attori dell’ESS parteciperanno a pieno titolo alla resilienza dell’economia francese, il Piano francese dichiara apertamente che «les structures de l’économie sociale et solidaire ont un rôle de premier plan Les acteurs de l’ESS partecipent à la résilience de l’économie française. Ils contribuent au développement d’un modèle de croissance vert et solidaire. Ils seront un relais essential pour accompagner la transition écologique et pour mener la bataille pour l’emploi et l’insertion. Cela s’est vu au plus fort de la crise et sera pris en compte dans la relance».

L’economia sociale, di cui non si trova nel PNRR italiano alcun riferimento specifico, è nel Piano francese considerata come un vero e proprio modello economico e sociale il cui sviluppo viene incoraggiato in un’ottica di lungo periodo. Per la verità, la maggiore attenzione francese è forse giustificata dal fatto che in Francia (come in Spagna e in Portogallo) è presente ormai da tempo una legge sull’economia sociale e solidale. È la Loi n. 2014-856 du 31 juillet 2014 relatif à l’économie sociale et solidaire[82]. Non si vuole in questa sede entrare nel dettaglio della disciplina francese, per la quale si rimanda a scritti specificamente dedicati al tema[83]. Tutto questo solo per confermare che sarebbe stato forse possibile, anche per il PNRR italiano, farsi carico di un approccio più ampio e meno settoriale al mondo dell’economia sociale o, più in particolare, del Terzo settore.

I riflessi sull’ordinamento italiano

Occorre ora domandarsi quali potrebbero essere i riflessi del Piano sull’odierno approccio italiano (legislativo, giurisprudenziale e amministrativo) nei confronti del mondo della cd. economia sociale. Per fare questo, occorre subito chiarirsi sulla natura giuridica del Piano. La Comunicazione in cui è contenuto il Piano è formalmente, come già anticipato, solo un atto di soft law e, come tale, destinato a non produrre effetti giuridici immediatamente vincolanti per gli Stati membri. Pur contenendo, come abbiamo visto, numerosi inviti agli Stati membri e alle pubbliche amministrazioni nazionali, la Comunicazione è rivolta formalmente solo alle altre istituzioni dell’Unione (Consiglio, Parlamento europeo, CESE, Comitato delle Regioni) ed ha quindi essenzialmente un valore orientativo, volto a stimolare un dibattito anzitutto tra le istituzioni euro-unitarie, quasi un incentivo a legiferare in un momento successivo in una determinata direzione.

Tuttavia, come ha rilevato un’autorevole dottrina, non va mai sottovalutato il ruolo hard del soft law nell’ordinamento dell’Unione europea[84]: il soft law potrebbe infatti diventare “tutt’altro che soft, perché capace di improvvise rigidità vincolanti se, oltretutto a discrezione di soggetti non democraticamente controllabili (giudici, organi tecnici, esecutivi in sede di negoziato con altri esecutivi), lo si erge a paradigma di decisioni o di comportamenti”. Come è stato osservato, la Commissione, attraverso le Comunicazioni, definisce “le linee di sviluppo della futura politica comunitaria nella materia” e considera le Comunicazioni “fonti integrative delle norme primarie, affermatesi per forza propria, meglio, per l’autorità politica dell’istituzione di cui esse sono emanazione”[85]: sono, in altre parole, dei veri e propri atti di indirizzo politico[86].

Non può non riconoscersi come il Piano si ponga, in materia sociale, come un vero e proprio documento strategico destinato a influenzare le future politiche dell’Unione sul tema. È questo, si crede, il senso del pieno riconoscimento dell’economia sociale presente nel Piano, pienezza restituita anche dall’ampia definizione che si è analizzata. Non si potrà quindi sottovalutare il rilievo che i contenuti del Piano – specialmente la descritta definizione – potranno avere quali orientamenti o stimoli interpretativi per le altre istituzioni, prima fra tutte la Corte di giustizia, spesso chiamata dai giudici nazionali a chiarire l’effettiva portata del diritto europeo in materia. Così, del resto, era anche quanto accaduto con il Pilastro europeo dei diritti sociali: anch’esso un atto di soft law che aveva l’obiettivo di avviare un procedimento di formazione di consuetudini interpretative tra le istituzioni europee condivisibili poi dagli Stati membri[87].

Il Piano tocca poi tutta una serie di punti “caldi” per l’ordinamento italiano, senza tuttavia risolverli. Il merito del Piano è però certamente quello di riaccendere un dibattito su determinati nodi irrisolti, tra cui rileva anzitutto quello degli appalti “socialmente responsabili”. È noto come l’ambito dei servizi sociali e assistenziali è uno di quelli su cui l’Italia, in fase di recepimento della direttiva, avrebbe potuto introdurre elementi innovativi (per es., con una specifica normativa dei contratti per il settore dei servizi socioassistenziali, approfittando dell’allora parallelo percorso di riforma del Terzo settore). L’Italia ha però rinunciato a quella maggiore autonomia concessa in fase di recepimento della direttiva. Solo di recente, in seguito alla lunga e tormentata “saga” di interventi legislativi e giurisprudenziali sul tema[88], culminata con la nota sentenza n. 131 del 2020 della Corte costituzionale, il legislatore italiano, con l’art. 8, comma 5, del d.l. 16 giugno 2020, n. 76, ha modificato il Codice dei contratti pubblici, stabilendo che alle procedure relative alle forme di coinvolgimento degli ETS si applicano non le disposizioni del Codice dei contratti ma le disposizioni di cui alla legge 241 del 1990 e del Codice del Terzo settore[89]. Rimane tuttavia ancora delicato il rapporto tra le nozioni domestiche di Terzo settore e quella europea di “operatore economico”, da cui ancora non riesce ad emergere “quella porzione di operatori che operano senza scopo di lucro e in possesso di caratteri distintivi costituzionalmente rilevanti”[90] tali da configurare per loro, sul piano europeo, una disciplina ad hoc. Sul punto, il Piano contiene solo degli inviti diretti alle PP.AA. a sfruttare meglio i margini di discrezionalità ad esse concessi dalla direttiva. Un invito destinato a rimanere inascoltato, se ad esso non si accompagnerà una tanto attesa modifica normativa in grado di meglio coordinare le nozioni domestiche con quelle europee.

In tema invece di aiuti di Stato, gli strumenti attualmente vigenti a livello europeo non paiono risolutivi con riferimento alle specifiche esigenze legate ai servizi sociali, sia per la loro entità assai limitata sia per il fatto di essere “improntati a una logica di politica industriale che mal si concilia con l’ambito dei social services[91]. In questa materia, poi, le amministrazioni nazionali sono “molto responsabilizzate nel dare attuazione diretta a concetti di diritto europeo di non semplice declinazione”[92]. Lo ricorda pure la Commissione nel Piano, annunciando iniziative volte a sensibilizzare le amministrazioni sul tema. Sembra però troppo sbrigativo scaricare sulle amministrazioni pubbliche la responsabilità dell’applicazione di norme così complesse. Anche in questo caso, l’opportuno impegno di promozione della conoscenza non può non accompagnarsi ad un deciso intervento normativo europeo sul punto, che potrebbe spingersi sino a riconoscere come compatibili con il mercato interno le sovvenzioni erogate alle organizzazioni dell’economia sociale in quanto dirette a realizzare l’interesse generale.

C’è infine il nodo della fiscalità[93]. È noto come non sia ancora intervenuta quella autorizzazione della Commissione Europea cui, ai sensi dell’art. 101, comma 10 del Codice del Terzo settore, è subordinata l’efficacia delle disposizioni fiscali contenute nel titolo X del Codice stesso. L’attuale condizione di assenza dell’autorizzazione rappresenta un ostacolo operativo al funzionamento del Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (RUNTS), uno dei cardini essenziali della riforma, in quanto strumento necessario alla qualificazione del perimetro soggettivo del Terzo Settore. Fino a quando l’autorizzazione della Commissione europea non consentirà l’attivazione dello specifico profilo fiscale degli Enti di Terzo settore, mancherà un segmento fondamentale della riforma. Il ritardo, che crea un non trascurabile cortocircuito normativo in base alla quale le “nuove” misure di favore (fiscali) previste dal Codice non sono attualmente efficaci, è dovuto proprio alla percezione di una certa difficoltà di dialogo tra le categorie giuridiche italiane e quelle previste dal diritto UE. La Commissione, nel sottolineare che “la fiscalità è importante per l’economia sociale” e prevedendo una futura Raccomandazione del Consiglio anche sulle politiche specifiche in tema di fiscalità, si mostra allora consapevole che i tempi sono maturi per prendere una posizione netta sul punto. Il che appare ancor più imperativo se si considera quanto affermato dalla sentenza n. 72/2022 della Corte costituzionale che, affrontando incidentalmente il nodo della fiscalità del Terzo settore, ha invitato a considerare come “l’attività di interesse generale svolta senza fini di lucro da tali enti realizza anche una forma nuova e indiretta di concorso alla spesa pubblica”[94], indirizzando risorse verso attività di interesse generale e alimentando così il finanziamento della spesa pubblica, in “sostituzione” di quanto farebbe lo Stato raccogliendo risorse mediante l’imposizione fiscale. Una situazione che, come evidente, giustifica un particolare trattamento di favore, sotto il punto di vista fiscale, per gli enti del Terzo settore.

Costruire un dialogo europeo. Il difficile equilibrio tra solidarietà e concorrenza

In conclusione, non sembra azzardato affermare che il Piano d’azione costituisca, pur con tutte le riserve che abbiamo formulato, il momento iniziale di un nuovo approccio dell’Unione nei confronti dell’economia sociale. L’importanza del Piano si apprezza tutta in quei passaggi in cui vengono sottolineati i diversi nodi irrisolti (dagli appalti agli aiuti di Stato e alla fiscalità), riaprendo così su di essi un necessario dibattito tra le istituzioni dell’Unione e tra queste e gli Stati membri. Questi problemi sono stati per molto tempo scaricati sulla Corte di giustizia[95], che ha giocato inevitabilmente un ruolo di supplenza. È chiaro però che la Commissione voglia trasmettere l’idea che, nel prossimo futuro, quei nodi saranno da sciogliere politicamente.

Scaricare sulla Corte di giustizia la difficile operazione di coordinare le categorie europee con quelle domestiche non poteva che rendere molto complicata la costruzione di un dialogo europeo sul punto. In particolare, la Corte ha chiarito che, perché si applichino le regole della concorrenza, è sufficiente che un’organizzazione senza scopo di lucro sia coinvolta in una “attività economica” indipendentemente dal suo status giuridico. Il discrimen è stato allora quello di vedere se l’offrire beni o servizi sul mercato integri un’attività economica oppure no, a prescindere dagli obiettivi non commerciali della organizzazione non lucrativa[96]. È stato però persino il Comitato Economico e Sociale Europeo a sottolineare l’esigenza che “... invece di soffermarsi su una rischiosa distinzione – che si va peraltro evolvendo – tra carattere economico o non economico di un servizio di interesse generale, si debbano considerare la natura del servizio, le sue funzioni e i suoi obiettivi e stabilire quali servizi rientrino nel campo d’applicazione delle norme sulla concorrenza e sul mercato interno e quali invece, per ragioni di interesse generale e di coesione sociale, territoriale ed economica, debbano esserne esentati, conformemente al principio di sussidiarietà, dalle autorità pubbliche comunitarie, nazionali, regionali o locali”[97]. Tant’è che oggi, più che un dialogo, sembra esserci stato solo un dibattito, spesso confuso[98], tra l’ordinamento europeo e quello italiano[99].

Come noto, di recente la Corte costituzionale italiana (sent. n. 131 del 2020) ha provato ad affrontare di petto il problema del rapporto con il diritto dell’Unione europea, affermando che “è lo stesso diritto dell’Unione che mantiene, a ben vedere, in capo agli Stati membri la possibilità di apprestare, in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, un modello organizzativo ispirato non al principio di concorrenza ma a quello di solidarietà”. È questa, per la verità, la vera questione di fondo, che deve essere affrontata politicamente: quale ruolo attribuire al principio di solidarietà, nel quadro della realizzazione degli obiettivi dell’Unione, quale sia, in altre parole, l’equilibrio che l’ordinamento europeo vuole raggiungere tra solidarietà e concorrenza[100]. L’atteggiamento incerto che sinora ha caratterizzato l’Unione sul punto è espressione anche del sopra descritto complicato rapporto tra mercato e solidarietà, che per lungo tempo ha determinato una debole dimensione sociale dell’Unione europea. A livello europeo, infatti, manca una norma simile al nostro art. 118, quarto comma, Cost. Questo è forse uno dei deficit più gravi dello sviluppo dell’economia sociale a livello europeo.

Come ha messo in rilievo di recente Luca Gori, “il vero nodo è identitario”. Si tratta infatti di comprendere non solo quale sia l’equilibrio che può raggiungersi tra concorrenza e principio di solidarietà, ma anche quale sia l’effettiva portata di quest’ultimo a livello europeo. Se tale principio continuerà ad essere piegato ad esigenze legate all’affermazione delle sole libertà economiche, e non verrà visto “come principio in grado di influenzare profondamente le relazione fra i consociati, si comprende come lo stesso non coincida con l’interpretazione che emerge dalla Costituzione repubblicana del principio solidaristico”[101]. Insomma, un dialogo europeo sembra ancora difficile da costruire, ma niente impedisce di considerare il Piano come un timido tentativo in tal senso, nella direzione cioè di un futuro, e tanto atteso, intervento politico che possa essere veramente decisivo.

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Note

  1. ^ Il paper è stato presentato al XVI Colloquio scientifico sull’impresa sociale, tenutosi presso l’Università degli Studi di Brescia il 16-17 giugno 2022.
  2. ^ Sul punto, si v. amplius G. Salvatori, “L’economia sociale e le istituzioni europee”, in A. Fici (a cura di), Diritto dell’economia sociale. Teorie, tendenze e prospettive italiane ed europee, Editoriale scientifica, Napoli, 2016, pp. 79 e ss.
  3. ^ Sull’argomento si v. P. De Pasquale, “L’economia sociale di mercato nell’Unione europea”, in Aa. Vv., Scritti in onore di Giuseppe Tesauro, vol. II, Napoli, 2014, pp. 1643 e ss.
  4. ^ Cfr. la dettagliata analisi di E. Grasso, P. Rossi, Terzo settore e interesse generale in prospettiva comparatistica europea, DPCE online, 2019/4, pp. 2425 e ss.
  5. ^ Ivi, p. 2428.
  6. ^ G. Salvatori, “L’economia sociale e le istituzioni europee”, cit., p. 80.
  7. ^ Ivi, p. 83.
  8. ^ Ivi, pp. 85 e ss.
  9. ^ Per un ulteriore approfondimento sul tema, si v. anche R. Cisotta, “Gli enti dell’economia sociale nel diritto del mercato unico europeo”, in A. Fici (a cura di), Diritto dell’economia sociale, cit., pp. 93 e ss.
  10. ^ Regolamento (CE) n. 1435/2003 del Consiglio del 22 luglio 2003 relativo allo statuto della Società cooperativa europea, GU L 207 del 18 agosto 2003.
  11. ^ Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni del 23 febbraio 2004 sulla promozione delle società cooperative in Europa, COM(2004) 18 final.
  12. ^ Cfr. gli articoli 2 e 117.2 del Trattato che istituisce la Comunità economica europea.
  13. ^ Secondo il noto motto “Smith abroad, Keynes at home”. Per una completa ricostruzione dello sviluppo della politica sociale europea a partire dal Trattato di Roma, si v. C. Barnard, “EU ‘Social’ Policy: From Employment Law To Labour Market Reform”, in P. Craig, G. De Búrqa (eds.), The Evolution of EU Law (Second Edition), Oxford University Press, Oxford, 2011, 641 ss., che spiega come “the view was that the economic integration would in time ensure the optimum allocation of resources throughout the Union, the optimum rate of economic growth, and thus an optimum social system”.
  14. ^ G.F. Mancini, “Principi fondamentali di diritto del lavoro nell’ordinamento della Comunità europea”, in AA.VV., ll lavoro nel diritto comunitario e l’ordinamento italiano, Atti del convegno di Parma del 30-31 ottobre 1985, Padova, Cedam, 1988, 26 ss.
  15. ^ M. Luciani, “Diritti sociali e integrazione europea”, Politica del Diritto, 3, 2000, 378.
  16. ^ R. Balduzzi, “Unione europea e diritti sociali: per una nuova sinergia tra Europa del diritto ed Europa della Politica”, Federalismi.it, n. 4/2018, 246-247.
  17. ^ Si v. la Dichiarazione del Presidente Juncker sulla proclamazione del pilastro europeo dei diritti sociali del 17 novembre 2017. Sul punto si v. anche l’analisi di L. Innocenti, “La ‘dimensione sociale’ nel processo europeo di integrazione economica. La Commissione Delors I (1985-1989)”, Impresa Sociale, n. 1/2021, pp. 43 e ss.
  18. ^ Cfr. oggi art. 3, par. 3, TUE e art. 151 TFUE.
  19. ^ Tale metodo consente alle parti sociali europee, vale a dire rappresentanti delle imprese e dei lavoratori a livello dell’UE, di concludere un accordo tra loro in materia sociale, e prevede che quest’ultimo possa venire poi recepito dal Consiglio su proposta della Commissione (art. 155 TFUE).
  20. ^ S. Garben, “The Constitutional (Im)balance between “the Market” and “the Social” in the European Union”, European Constitutional Law Review, 13, 1, 2017, 28, secondo la quale “the close cooperation with and between the representatives of management and labour in the context of EU social law-making under both methods can be expected to foster balanced results”.
  21. ^ Sul punto, si v. in particolare A. Ciancio, “Alle origini dell’interesse dell’Unione europea per i diritti sociali”, Federalismi.it, n. 4/2018, 24-26.
  22. ^ Rispettivamente, C-438/05, C-341/05, C-346/06. Cfr. V. Angiolini, “Laval, Viking, Rüffert e lo spettro di Le Chapelier”, in A. Andreoni, B. Veneziani (a cura di), Libertà economiche e diritti sociali nell’Unione europea. Dopo le sentenze Laval, Viking, Rüffert e Lussemburgo, Ediesse, Roma, 2009, 65, che le paragona alla legge “Le Chapelier” della Francia rivoluzionaria con cui si cancellò l’interposizione dei corpi intermedi tra individuo e Stato.
  23. ^ S. Garben, “The Constitutional (Im)balance”, cit., 48, secondo cui “compared to the Social Title, the legal framework of economic policy coordination seems to lack the appropriate constitutional safeguards to ensure balance and/through inclusion, accountability and legitimacy”.
  24. ^ Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Lisbona, 23-24 marzo 2000, par. 5.
  25. ^ Sul “modello sociale europeo”, si v., su tutti, C. Pinelli, “Modello sociale europeo e costituzionalismo sociale europeo”, Rivista del diritto della sicurezza sociale, 2, 2008. Per una ricostruzione complessiva della politica sociale europea degli ultimi anni, e in particolare un’analisi del suo impatto sull’ordinamento italiano, si v. E. Rossi, V. Casamassima (a cura di), La politica sociale europea tra armonizzazione normativa e nuova governance: l’impatto sull’ordinamento italiano, Pisa University Press, Pisa, 2013.
  26. ^ Tanto che di recente si è parlato di un “displacement” dell’Europa sociale: si v. la Special Section della European Constitutional Law Review, 14, 2018 intitolata “The displacement of Social Europe”. In particolare, si v. C. Kilpatrick, The displacement of Social Europe: a productive lens of inquiry, 62-74.
  27. ^ Sui rapporti tra diritti sociali e crisi economico-finanziaria, tra i molti, si v. G. Grasso, “I diritti sociali e la crisi oltre lo Stato nazionale”, Rivista AIC, n. 4/2016; A. Morrone, “Crisi economica e diritti. Appunti per lo Stato costituzionale in Europea”, Quaderni Costituzionali, 1, 2014; D. Tega, “I diritti sociali nella dimensione multilivello tra tutele giuridiche e crisi economica”, GruppodiPisa.it, 2012.
  28. ^ Si v. Commissione per l’occupazione e gli affari sociali del Parlamento europeo, Relazione su un pilastro europeo dei diritti sociali, 20 dicembre 2016, (2016/2095(INI)), p. 27.
  29. ^ Si v. sul punto S. Garben, “The European Pillar of Social Rights: Effectively Addressing Displacement?”, in European Constitutional Law Review, 14, 2018, 212-215.
  30. ^ “Pari opportunità e accesso al mercato del lavoro” (capo I); “Condizioni di lavoro eque” (capo II); “Protezione sociale e inclusione” (capo III).
  31. ^ Commissione europea, Comunicazione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Istituzione di un pilastro europeo dei diritti sociali, 26 aprile 2017, COM(2017) 250 final, 6.
  32. ^ Ivi, 3-9.
  33. ^ Commissione europea, Comunicazione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Piano d’azione sul pilastro europeo dei diritti sociali, 4 marzo 2021, COM(2021) 102 final.
  34. ^ Da contrapporre alla passata “frigidità” con la quale si era soliti definire l’approccio dell’Unione europea alle politiche sociali.
  35. ^ Si v. Commissione europea, Il momento dell’Europa: riparare i danni e preparare il futuro per la prossima generazione, 27 maggio 2020, COM(2020) 456 final, ove si legge anche che “l’UE deve dare priorità̀ alla dimensione sociale, in particolare attuando il pilastro europeo dei diritti sociali”. Si v. anche Commissione europea, Risposta economica coordinata all’emergenza COVID-19, 13 marzo 2020, COM(2020) 112 final, che rileva come “[s]olo con la solidarietà e con soluzioni coordinate a livello europeo saremo capaci di gestire efficacemente questa emergenza sanitaria”.
  36. ^ Commissione europea, Sostegno all’occupazione giovanile: un ponte verso il lavoro per la prossima generazione, 1 luglio 2020, COM(2020) 276 final.
  37. ^ Così l’art. 19, par. 3, lett. c), del Regolamento (UE) 2021/241 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021 che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza.
  38. ^ Commissione europea, Creare un’economia al servizio delle persone: un piano d’azione per l’economia sociale, COM(2021) 778 final, 9 dicembre 2021.
  39. ^ Il primo è l’impianto del piano – Creare un’economia al servizio delle persone: un piano d’azione per l’economia sociale – e trova una forte interconnessione con le strategie per l’attuazione del Pilastro europeo dei diritti sociali. Il secondo documento – Scenari verso la co-creazione di un percorso di transizione per un ecosistema industriale di prossimità e di economia sociale più resiliente, sostenibile e digitale – si interfaccia, invece, con la nuova strategia industriale europea, in cui si riconosce l’economia sociale come infrastruttura produttiva ed economica legittimata ad inserirsi nel sistema industriale europeo.
  40. ^ COM(2021) 778 final, cit., p. 1.
  41. ^ Ivi, p. 3.
  42. ^ Sul punto, si v. la ricca analisi di G. Galera, S. Chiomento, “L’impresa sociale: dai concetti teorici all’applicazione a livello di policy”, Impresa Sociale, n. 1/2022, pp. 19 e ss. Si v. anche, più in generale, G. Salvatori, “Sull’economia sociale nella dimensione globale”, Impresa Sociale, n. 1/2022, pp. 4 e ss.
  43. ^ Sul punto, si v. il dettagliato studio di J. L. Monzon, R. Chaves, “The european social economy: concept and dimensions of the third sector”, Annals of public and cooperative economics, vol. 79, issue 3-4, 2008, p. 14, ove si mette in rilievo come l’assenza di una nozione di economia sociale a livello europeo abbia costituito uno dei maggiori ostacoli al suo sviluppo a quel livello. Si v. anche quanto riportato da E. Grasso, P. Rossi, Terzo settore e interesse generale, cit., pp. 2428 e ss.
  44. ^ Regolamento (UE) n. 1296/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2013 relativo a un programma dell’Unione europea per l’occupazione e l’innovazione sociale (“EaSI”) e recante modifica della decisione n. 283/2010/UE che istituisce uno strumento europeo Progress di microfinanza per l’occupazione e l’inclusione sociale.
  45. ^ Direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE.
  46. ^ L. Gori, Terzo settore e Costituzione, Giappichelli, Torino, 2022, p. 169 e p. 171, ove rileva che “il dialogo dovrebbe impostarsi sul riconoscimento della forma giuridica, degli scopi o delle attività, variamente combinati fra loro. Non sono mancati importanti tentativi in questo senso, ma limitati a singoli casi o ambiti della disciplina europea: mai si è raggiunta una piena visione sistematica”.
  47. ^ Ibidem.
  48. ^ Definite a loro volta come quei soggetti che “operano fornendo beni e servizi per il mercato in modo imprenditoriale e spesso innovativo, basando la loro attività commerciale su obiettivi sociali e/o ambientali”, con utili che sono reinvestiti principalmente nella realizzazione del loro obiettivo sociale e con un metodo di organizzazione e di assetto proprietario che rispetta principi democratici o partecipativi.
  49. ^ Forme giuridiche a cui peraltro non corrisponde, a livello europeo, uno status civilistico unitario.
  50. ^ Sulla distinzione dei termini “economia sociale” e “terzo settore”, si v. A. Fici, Introduzione, in A. Fici (a cura di), Diritto dell’economia sociale, cit., p. 20, ove si afferma che “Il concetto di economia sociale, così come si sta sviluppando in Europa, non coincide dunque con il concetto italiano di terzo settore (né tanto meno con la figura dell’impresa sociale, che solo costituisce uno dei possibili enti dell’economia sociale, dunque un sottoinsieme di quest’ultima categoria, come del resto lo è del terzo settore e del complesso di enti che vi appartengono)”.
  51. ^ Come rilevato da L. Gori, Terzo settore e Costituzione, cit, p. 169, “il diritto euro-unitario si muove lungo categorie (almeno apparentemente) differenti e bisognose di essere ‘riconciliate’ con quelle nazionali”.
  52. ^ In questi termini si esprime C. Borzaga, “Action Plan, il pieno riconoscimento dell’economia sociale”, Impresa Sociale, n. 1/2022, p. 80.
  53. ^ Risoluzione del Parlamento europeo del 17 febbraio 2022 recante raccomandazioni alla Commissione su uno Statuto delle associazioni e organizzazioni senza scopo di lucro transfrontaliere europee (2020/2026(INL)).
  54. ^ Proposta di Regolamento del Consiglio recante statuto dell'associazione europea.
  55. ^ Particolarmente significativa la definizione di “organizzazione senza scopo di lucro” che si rinviene all’art. 2 della proposta di direttiva allegata alla Risoluzione. Si legge infatti che “1. La presente direttiva si applica alle organizzazioni senza scopo di lucro stabilite nell’Unione. 2. Ai sensi della presente direttiva, per organizzazione senza scopo di lucro si intende qualsiasi associazione costituita su base volontaria e permanente da persone fisiche o giuridiche aventi un interesse, un’attività o uno scopo comuni, così come qualsiasi organizzazione non basata sui membri i cui beni sono destinati al perseguimento di una finalità specifica, come le fondazioni, che, indipendentemente dalla forma in cui è istituita: a) persegue uno scopo primario diverso da quello di generare un profitto, nel senso che eventuali utili derivanti dall'attività dell'organizzazione non possono essere distribuiti come tali tra i suoi membri, i suoi fondatori o altri soggetti privati, ma devono essere investiti per il perseguimento dei suoi obiettivi; b) è indipendente, nel senso che l’organizzazione non fa parte di una struttura governativa o amministrativa ed è libera da qualsiasi indebita interferenza dello Stato o da interessi commerciali. Il finanziamento da parte del governo non preclude a un’organizzazione di essere considerata indipendente, purché l’autonomia del funzionamento e del processo decisionale dell'organizzazione non sia pregiudicata; c) è autogovernata, nel senso che l'organizzazione ha una struttura istituzionale che le consente di esercitare pienamente le sue funzioni organizzative interne ed esterne e di prendere decisioni essenziali in modo autonomo e senza indebite interferenze da parte dello Stato o di altri attori esterni …”.
  56. ^ Come afferma A. Fici, Verso una legge europea sul terzo settore, Vita.it, 28 maggio 2021.
  57. ^ L. Martignetti, “Action Plan for Social Economy: apprezzabile, ma con molte riserve”, Impresa Sociale, n. 1/2022, p. 77.
  58. ^ COM(2021) 778 final, cit., p. 8.
  59. ^ Cfr. art. 108, par. 4, TFUE e il Regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione del 17 giugno 2014 che dichiara alcune categorie di aiuti compatibili con il mercato interno in applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato.
  60. ^ Sul tema, in generale, v. F. Cintioli, “La dimensione europea dei servizi di interesse economico generale”, Federalismi.it, 11, 2012.
  61. ^ Come noto, oggi i SIEG sono contemplati non solo dagli art. 14 e 106 del TFUE, ma anche dall’art. 36 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ne riconosce la valenza ed il ruolo di promozione della coesione sociale e territoriale all’interno dell’UE. Sul punto, v. E. Szyszczak, “Article 36: Access to Services of General Economic Interest”, in C.H. Beck (ed.), The EU Charter of Fundamental Rights: A Commentary, Oxford, 2014, 969.
  62. ^ COM(2021) 778 final, cit., p. 8.
  63. ^ Come è stato attentamente notato, S. Cornella, “Servizi sociali e disciplina europea in materia di aiuti di Stato”, in S. Pellizzari, A. Magliari (a cura di), Pubblica amministrazione e Terzo settore. Confini e potenzialità dei nuovi strumenti di collaborazione e sostegno pubblico, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019, p. 159, “un’analisi del testo del Regolamento generale di esenzione dimostra tuttavia, a parere di chi scrive, come le esenzioni connesse siano improntate ad una logica di politica industriale e di incentivo a specifiche condotte di impresa, che mal si concilia con la logica di politica sociale a forte caratterizzazione locale che connota invece i servizi sociali”.
  64. ^ COM(2021) 778 final, cit., p. 9.
  65. ^ Lo ricorda bene G. Guerini, “Imprenditoria sociale e politiche europee. L’evoluzione degli scenari dalla Comunicazione sull’imprenditoria sociale al Piano d’azione per l’economia sociale”, Impresa Sociale, n. 1/2022, p. 46.
  66. ^ Ibidem.
  67. ^ L. Martignetti, “Action Plan for Social Economy: apprezzabile, ma con molte riserve”, cit., p. 77.
  68. ^ Come è stato osservato, specialmente il principio di sussidarietà “sembra prima facie destinato a giocare un ruolo di ‘filtro’ rispetto all’influenza comunitaria in un settore fortemente soggetto alle scelte della politica nazionale e alla disponibilità di risorse finanziarie statali”. Così S. Cornella, “Servizi sociali e disciplina europea”, cit., p. 164.
  69. ^ Così anche, con riferimento specifico alla categoria dei SIEG, G. F. Cartei, “I servizi di interesse economico generale tra riflusso dogmatico e regole del mercato”, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2005, p. 1219, per il quale “la mancanza di una formula prescrittiva che ne tracci la disciplina contribuisce a consegnare l’esistenza della categoria dei servizi di interesse economico generale ad una dimensione fluttuante, sospesa a metà tra le scelte della politica e le dinamiche del mercato”.
  70. ^ COM(2021) 778 final, cit., p. 9.
  71. ^ Come ricordato dall’intervento di G. Guerini in S. Pellizzari, A. Magliari (a cura di), Pubblica amministrazione e Terzo settore. Confini e potenzialità dei nuovi strumenti di collaborazione e sostegno pubblico, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019, p. 196, si era ormai fatta strada nella politica europea “l’idea che esistono diversi modi di fare economia ed impresa, che è possibile azionare le leve delle politiche pubbliche, anche come strumenti per orientare una politica per lo sviluppo inclusivo, e che pertanto la concorrenza non è un dogma ma può essere orientata da una responsabilità sociale o ambientale”.
  72. ^ E. Varga, “How Public Procurement Can Spur the Social Economy”, Stanford Social Innovation Review, 2021.
  73. ^ Commissione europea, Acquisti sociali — Una guida alla considerazione degli aspetti sociali negli appalti pubblici (seconda edizione), 2021/C 237/01.
  74. ^ Come noto, infatti, l’art. 77 della direttiva 2014/24 prevede la possibilità di espletare gare riservate a soggetti dell’ESS, consentendo agli Stati membri di prevedere che le amministrazioni aggiudicatrici possano riservare a organizzazioni aventi alcuni requisiti stabiliti dalla direttiva stessa il diritto di partecipare a determinati servizi sanitari, sociali e culturali tassativamente indicati.
  75. ^ G. Guerini, “Imprenditoria sociale e politiche europee”, cit., p. 45.
  76. ^ Sul punto L. Gori, Terzo settore e Costituzione, cit., p. 170.
  77. ^ COM(2021) 778 final, cit., p. 1.
  78. ^ Ivi, p. 19.
  79. ^ Regolamento (UE) 2021/241 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021 che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza.
  80. ^ A. Arcuri, G. Gotti, “Cosa c’è nel PNRR per il Terzo settore”, Pandora, 20 dicembre 2021.
  81. ^ Il testo completo è disponibile a questo indirizzo: https://www.tresor.economie.gouv.fr/Articles/2020/09/07/le-plan-de-relance-est-lance
  82. ^ In tale legge l’ESS è definita come “modo di fare impresa” e di “sviluppo dell’economia”, che caratterizza quelle organizzazioni che perseguono una finalità diversa dal solo scopo di ripartizione degli utili e le cui modalità di gestione siano conformi ai principi di democrazia, trasparenza e partecipazione.
  83. ^ V. M. Marcelli, “La legge francese sull’economia sociale”, in A. Fici (a cura di), Il diritto dell’economia sociale, cit., pp. 205 e ss.
  84. ^ Sul ruolo hard del soft law nell’ordinamento dell’Unione, cfr. M. Luciani, “Gli atti comunitari e i loro effetti sull’integrazione europea”, in Aa. Vv., L’integrazione dei sistemi costituzionali europeo e nazionale, Associazione italiana dei costituzionalisti, Annuario 2005, Cedam, Padova, 2007.
  85. ^ In questo senso F. Bilancia, “Sul concetto di legge politica: una prospettiva d’analisi”, in F. Modugno, Trasformazioni della funzione legislativa, I, Milano, 1999, 195 ss., spec. pp. 227 e 235.
  86. ^ Sul concetto di indirizzo politico e sulla sua applicabilità all’Unione europea, si v., di recente, A. Manzella, “Indirizzo politico di sistema e forma di governo”, in R. Ibrido, N. Lupo (a cura di), Dinamiche della forma di governo, cit., 461-466. Si v. anche R. Ibrido, N. Lupo, “Forma di governo” e “indirizzo politico”, cit., pp. 34-53.
  87. ^ Per questa osservazione, con riferimento al Pilastro, J. Luther, “Il futuro dei diritti sociali dopo il “social summit” di Goteborg: rafforzamento o impoverimento?”, Federalismi.it, n. 4/2018, p. 55, il quale osserva pure che “il pilastro non è semplice ricognizione dell’acquis, ma (…) ha l’ambizione di versare olio sul fuoco di alcuni procedimenti già avviati”.
  88. ^ Puntualmente ricostruita in L. Gori, “La ‘saga’ della sussidiarietà orizzontale. La tortuosa vicenda dei rapporti fra Terzo settore e P.A.”, Federalismi.it, n. 14/2020.
  89. ^ Si v. P. Consorti, L. Gori, E. Rossi, Diritto del Terzo settore, Il Mulino, Bologna, II edizione, 2021, p. 165.
  90. ^ L. Gori, Terzo settore e Costituzione, cit., p. 169.
  91. ^ S. Cornella, Servizi sociali e disciplina europea in materia di aiuti di Stato, cit. p. 179.
  92. ^ Ivi, p. 180.
  93. ^ Sul tema, con riferimento all’ordinamento italiano, si v. G. Boletto, La sentenza della Corte Costituzionale n. 131 del 2020. Il suo (possibile) impatto nel sistema di imposizione dei redditi del Terzo settore, Impresa Sociale, n. 2/2021, pp. 7 e ss.
  94. ^ Su tale pronuncia si v. il commento di L. Gori, La Consulta: “Il Terzo settore finanzia la spesa pubblica, Vita.it, 22 marzo 2022.
  95. ^ Per un’efficace rassegna del dibattito giurisprudenziale sul tema, si v. A. Albanese, “I servizi sociali nel Codice del Terzo settore e nel Codice dei contratti pubblici: dal conflitto alla complementarietà”, Munus, 1, 2019.
  96. ^ Sul punto si v. D. Caldirola, “Servizi sociali, riforma del Terzo settore e nuova disciplina degli appalti”, in Riv. It. dir. pubb. com., 2016, p. 733. Di recente, la Corte di giustizia, chiamata ad esprimersi nell’ambito della disciplina dei contratti pubblici, ha chiarito la nozione di “organizzazioni e associazioni senza scopo di lucro”, che ha identificato con “le organizzazioni e le associazioni che hanno l’obiettivo di svolgere funzioni sociali, prive di finalità commerciali, e che reinvestono eventuali utili al fine di raggiungere l’obiettivo dell’organizzazione o dell’associazione” (così CGUE 21 marzo 2019, C-465/2017, Falck).
  97. ^ Così nel Parere sulla Comunicazione della Commissione - Attuazione del programma comunitario di Lisbona: i servizi sociali d’interesse generale nell’Unione europea COM(2006) 177 def. (TEN/253- CESE 426/2007).
  98. ^ Testimonianza di questa difficoltà sono le recenti incertezze sorte sulla considerazione della cooperazione sociale nel quadro del Terzo settore italiano, che ha portato a due rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia da parte del Consiglio di Stato (ordinanze nn. 536 e 1797 del 2021).
  99. ^ L. Gori, Terzo settore e Costituzione, cit., p. 171 ha parlato in proposito di “seri momenti di tensione e tentativi di ricomposizione …, alimentati dall’irrisolta ambiguità fra le categorie dogmatiche e normative nazionali e quelle europee, che dovrebbero essere oggetto di una armonizzazione quantomeno strumentale all’esercizio delle proprie competenze, pur a fronte di una carenza di un titolo esplicito nei trattati”.
  100. ^ Si v. sul tema, ex multis, S. Giubboni, “Solidarietà e concorrenza: “conflitto” o “concorso”?”, in Merc. Conc. Reg., 1, 2004, p. 87; G. Scoppetta, “Solidarietà e concorrenza nel diritto interno e nel diritto europeo in relazione alla disciplina del Terzo settore”, in A. Fici, L. Gallo, F. Giglioni (a cura di), I rapporti tra Amministrazioni pubbliche ed enti del Terzo settore. Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 2020, Editoriale scientifica, Napoli, 2020, p. 202.
  101. ^ L. Gori, Terzo settore e Costituzione, cit., p. 342.
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