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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2021

Saggi

La cooperazione sociale e il volontariato organizzato. Un tornante della storia

Alberto Ianes, Carlo Borzaga

Si ringraziano Gianfranco Marocchi e Felice Scalvini per la lettura, i preziosi suggerimenti e consigli dati a una prima versione del testo. Naturalmente, come di consueto, la responsabilità dell’articolo rimane unicamente in capo agli autori.

 

Le culture della cooperazione sociale

Ricostruire la nascita della cooperazione sociale significa innanzitutto ripercorrere le vicende che hanno permesso di gettare le sue fondamenta. Ma non solo: vuol dire anche recuperare i tasselli che hanno consentito di realizzare la sua infrastruttura, o meglio: le sue infrastrutture. Perché, storicamente, sono stati per lo meno due gli approcci alla cooperazione sociale, riconducibili l’uno alla tradizione cattolica e dunque alla sua centrale di rappresentanza politico-sindacale, la Confcooperative, e l’altra legata alla matrice culturale della sinistra che aveva il suo perno nella Lega delle cooperative. Ovviamente, in questa divisione, erano coinvolti i rispettivi partiti di riferimento: la DC e il PCI (Borzaga, Ianes, 2011).

Cronologicamente, la prima a darsi una forma e una strategia precise è stata la cooperazione sociale di derivazione cattolica. In un convegno del 1989[1], a Castellamare di Stabia, Felice Scalvini, da presidente di Federsolidarietà (la federazione di settore interna a Confcooperative) e di Cgm, illustrò con chiarezza il modello d’impresa e il sistema di imprese che aveva in mente per quelle che allora venivano chiamate cooperative di solidarietà sociale: una cooperativa formata in prevalenza da soci-volontari, e poi da soci-lavoratori e soci-utenti, costituita per erogare servizi socio-assistenziali soprattutto a favore di terzi. In questo caso, il lavoro diventava mezzo per il perseguimento di uno scopo di solidarietà. Usando un’espressione figurata, una metafora efficace – quella del campo di fragole –, Scalvini si soffermò su questa nuova costruzione e ne descrisse i tratti salienti. L’idea era di puntare su cooperative di piccole dimensioni, legate alla loro comunità di riferimento e al territorio. Cooperative, inoltre, che avrebbero dovuto specializzarsi. L’approccio, insomma, era di avere una cooperativa per bisogno. All’emergerne di nuovi, bisognava reagire con la costituzione di un’altra cooperativa, nata dalla prima per gemmazione, accompagnata e fatta crescere fino a che non si fosse resa autonoma, e in grado di camminare sulle proprie gambe. Un modello, per altro, che temeva i limiti delle piccole dimensioni ed era consapevole dell’importanza delle grandi, per fare economie di scala, da perseguire però in modo originale: non con le fusioni, ma facendo leva sull’azione consortile, attivando così, tra cooperative, cooperative e consorzio, legami laschi e legami solidi ma non gerarchici, basati più sull’idea del cooperare che su quella del competere. “Io ero innamorato della grande dimensione – racconta oggi Felice Scalvini[2] –, d’altra parte provenivo da un grande gruppo finanziario e avevo studiato l’impresa-rete. Cgm era la grande impresa del sociale che avrei voluto veder costruire. La strategia del campo di fragole rappresentava un modo per crescere rapidamente, senza perdere di vista la comunità di riferimento, sapendo anzi coltivare un mix di legami interni ed esterni al mondo cooperativo, essenziali per guardare più ai bisogni delle persone che alle esigenze della pubblica amministrazione. E proprio i consorzi avrebbero dovuto costituire quel collante operativo in grado di mantenere l’intero sistema allineato e performante”. L’idea era perciò di attivare un consorzio per Provincia, per raccogliere in modo trasversale l’adesione delle diverse cooperative di un territorio, per fare sistema e promuovere innovazione. E poi il Consorzio nazionale pensato all’inizio come raccordo operativo di queste anime, di questa rete, per gestire un centro studi, la formazione dei dirigenti e pubblicare la neonata rivista Impresa Sociale[3], strumento di confronto, di elaborazione strategica ai vari livelli, di disseminazione del pensiero dell’impresa e dell’imprenditorialità sociale.

Dall’altra parte, quasi a fare da contrappunto al modello cattolico, stava l’approccio propugnato dalla Legacoop e dalle cooperative rosse, portatrici di un’impostazione diversa. Qui erano nate le cooperative di servizi integrati, specie dopo la riforma Basaglia e la chiusura dei manicomi, che vedevano collaborare – in un’ottica di parità – persone normodotate e con disabilità. L’obiettivo era di darsi un lavoro, con l’idea che ciascuno avrebbe contribuito secondo capacità e avrebbe ricevuto in egual misura degli altri. Sempre per dare lavoro, erano sorte le cooperative di servizi sociali, anch’esse legate alla tradizione di sinistra e al movimento femminista dell’Udi: associavano operatrici e operatori del settore, che offrivano la loro professionalità organizzandosi in cooperativa, specie dopo le restrizioni imposte al pubblico impiego da alcuni decreti, in particolare quello voluto da Gaetano Stammati.

La Lega delle cooperative e la cultura autogestionaria di sinistra, inoltre, sposavano l’idea di una cooperativa di dimensioni più ampie, più importanti; ponevano l’accento sul concetto di autogestione e sull’ipotesi di avviare delle cooperative di tipo polifunzionale, delle cooperative cioè in grado di gestire attività diverse, tra cui anche quelle di natura sociale e socioassistenziale. In altri termini la cooperazione sociale era intesa primariamente come occasione in più per creare occupazione piuttosto che per coinvolgere e aggregare volontari e radicarsi nella comunità.

Si trattava di due visioni chiaramente diverse, che hanno trovato sintesi e mediazione – una difficile mediazione – nella legge di riconoscimento, la 381 del 1991. Visioni e approcci che col tempo si sono sbiaditi e hanno anche perso di significato, benché siano stati consegnati alla storia, così come alla storia è stata consegnata la genesi della cooperazione sociale in un volume pubblicato ormai nel 2006 (Borzaga, Ianes, 2006). Una storia sicuramente di successo se nel 2015 – ultimo anno per cui si dispone di dati ufficiali – operavano in Italia oltre 14.000 cooperative sociali con quasi 400 mila addetti e un valore aggiunto di oltre otto miliardi. Circa due terzi operavano nell’ambito dell’offerta di servizi socioassistenziali e di istruzione e le rimanenti nell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate (Istat, 2019).

Un’analisi di lungo periodo

Per capire il successo della cooperazione sociale, le ragioni della sua nascita, la sua ingegneria istituzionale e il perché abbia funzionato non basta considerare la “381”, di cui si sta celebrando il trentesimo anniversario; bisogna piuttosto partire da un’analisi di lungo periodo. Perché se si guarda all’evoluzione delle politiche sociali, dei servizi sociali, si nota che i grandi cambi di paradigma, i cosiddetti tornanti della storia, si manifestano non per decreto o per legge, ma perché vengono a collimare, a convergere tre o quattro fattori che determinano il cambiamento. Di solito il processo inizia con un cambio di contesto, causato da uno shock improvviso o da una crisi economica e sociale; ciò determina l’emersione di nuovi bisogni, bisogni che prima non c’erano o erano latenti. E bisogni che rischiano soprattutto di rimanere insoddisfatti, perché si genera un vuoto, che le istituzioni esistenti non sono in grado di colmare. Segue quindi un nuovo sentire culturale, politico e sociale, che innesca il processo di rinnovamento, che fa scattare la scintilla e crea le condizioni per riempire questo vuoto, attraverso un’innovazione di carattere organizzativo e/o istituzionale.

Tra Settecento e Novecento – se ci si pensa bene – i veri cambi di passo nelle politiche sociali si possono contare sulle dita di una mano. È successo nell’Inghilterra industriale del Settecento con la nascita delle società di mutuo soccorso, proprio per cercare di alleviare le condizioni più dure, più difficili, all’interno delle fabbriche, impostate sui ritmi dettati dalla divisione del lavoro e dei processi produttivi parcellizzati, quale portato della rivoluzione industriale. Di qui la necessità di dar vita a forme di previdenza volontaria capaci di far fronte ai rischi non infrequenti di perdita del reddito: il rischio di malattia, d’infortunio e d’invalidità (Woolf, 1986; 2000). Il passaggio successivo si verificò nell’impero tedesco con Bismarck quando, tra il 1883 e il 1889, egli introdusse il meccanismo delle assicurazioni sociali, per cercare di allargare le maglie, di estendere i confini dei diritti sociali a un numero maggiore di persone, di categorie economiche, ai lavoratori e ai loro familiari. Lungi dall’essere mosso da compassione, il cancelliere Otto von Bismarck fu indotto al cambiamento da pressioni di tipo politico e sociale imposti, ancora una volta, da un mutamento di contesto: la nascita dei primi sindacati e dei partiti socialisti (Ritter, 1996). Un altro stacco si ebbe nel 1942 con il piano Beveridge, in piena guerra mondiale. Di fronte alla drammaticità di un conflitto così duro, cruento e atroce vi fu chi pensò al dopo, a un domani inclusivo, dove lo Stato – e non poteva essere altrimenti – avrebbe dovuto ritagliarsi un ruolo da protagonista, quale garante di tutti i diritti sociali e per tutti i cittadini (Conti, Silei, 2005). Nacquero così l’insieme di politiche e gli interventi che diedero vita al welfare state. Alla crisi di quest’ultimo seguirono due tipi di reazioni molto diverse: da una parte, la deregulation praticata nel Regno Unito e negli Stati Uniti da Margaret Thatcher e da Ronald Reagan, dall’altra l’emergere del volontariato, del Terzo settore e della cooperazione sociale, con l’orgoglio, in questo caso, di poter affermare che si è trattato di un fenomeno del tutto italiano, sviluppatosi poi anche in altri contesti, europei ed extra europei (Borzaga, Defourny, 2001; Galera, Borzaga, 2013; Galera, 2017). Non si trattò di una semplice riedizione, magari aggiornata, di organizzazioni caritative ultracentenarie, come le Opere Pie, le società di San Vincenzo de Paoli e le Misericordie[4], ma di un vero e proprio cambio di passo nell’approccio al bisogno, alle fragilità, alle povertà. L’azione non poteva più avere intenti riparatori, esortare alla pazienza e alla rassegnazione, ma doveva e voleva contenere in sé propositi trasformativi, in grado di rimuovere gli ostacoli e potenziare le capacitazioni fondamentali di ciascuna persona (come avrebbe detto, in seguito, Amartya Sen, 2000).

Volontariato, Terzo settore e cooperazione sociale

E così anche la nascita del volontariato spontaneo, di quello organizzato e della cooperazione sociale sono scaturiti dal convergere di tre o quattro fattori rilevanti: un mutamento di scenario, la nascita di nuovi bisogni, un vuoto istituzionale e l’emergere di un inedito protagonismo.

Per il vero, la primissima cooperativa di solidarietà sociale – un caso isolato o poco più – fu avviata con quindici-vent’anni di anticipo rispetto all’affermazione del fenomeno. Correva l’anno 1963 e a fondarla, a Roè Volciano in provincia di Brescia, fu un personaggio visionario che si chiamava Giuseppe Filippini.

Già nello statuto di quella cooperativa e nelle parole di Filippini si poteva scorgere tutta la portata rivoluzionaria di quella che sarebbe diventata, in seguito, la cooperazione sociale (Borzaga, Ianes, 2006). In primo luogo, l’intenzione dei soci di Roè Volciano era di costituire una cooperativa “non tanto per servirsi ma per servire”. In questo enunciato era già contenuta – come si vedrà più oltre – la volontà di transitare dall’obiettivo della mutualità a quello della solidarietà. Quegli stessi soci aggiungevano poi che avrebbero voluto dar vita a una cooperativa “non tanto per chi meno ha, ma soprattutto per chi meno è”. E anche qui, con vent’anni di anticipo rispetto al mutamento di contesto che sarebbe diventato palese negli anni Settanta, si coglieva un cambio radicale nei bisogni della gente. Fino a quel momento le cooperative tradizionali erano nate per soddisfare delle esigenze di carattere materiale: un lavoro, una casa, un bene di consumo, la possibilità di accedere al credito (Ianes, 2011). Qui si proponeva invece di creare una cooperativa che andasse ad assecondare, a soddisfare soprattutto bisogni immateriali, legati cioè più alla sfera psicologica che alla pancia delle persone.

Bisogni e necessità che sarebbero diventati evidenti solo in seguito, e qui, tra gli anni Settanta e Ottanta, si innestò il primo dei fattori rilevanti, quello del cambio di contesto. Innanzitutto, la crisi economica indotta dagli shock petroliferi del 1973 e del 1979, la stagflazione, che si rese responsabile di una forte disoccupazione, soprattutto giovanile: si trattava dei primi laureati, figli non della borghesia ma delle classi sociali più umili, coloro che avevano fatto il ‘68 e rischiavano ora di rimanere inoccupati. Vi fu, in secondo luogo, una trasformazione epocale della società. Ovviamente nessuno parlava di rivoluzione dei servizi, come si era parlato, tra Sette e Ottocento, di rivoluzione industriale. In ogni caso prendeva forma una società post-fordista o post-industriale, mutava la composizione della domanda, cambiavano i bisogni e le necessità (Zamagni, 1993; Borzaga, Ianes, 2006; Battilani, Fauri, 2014; Ianes, 2020). I rapporti e le indagini sociologiche del 1978-1979, in particolare i lavori del Censis (1979), rilevavano i problemi legati alle nuove povertà o alle povertà post-materialistiche. E dunque i diversi disagi, le tossicodipendenze, l’alcolismo, il tema delle ragazze madri, e poi le conquiste sociali come la legge Basaglia, che implicava però una maggiore responsabilizzazione della collettività, e cioè la necessità di farsi carico dei pazienti psichiatrici usciti dai manicomi, per riammetterli nella società, promuovendo progetti d’inclusione sociale.

Questi bisogni rischiavano però di rimanere senza risposte, perché lo Stato nelle sue diverse articolazioni presentava forti criticità, sia dal lato fiscale che da quello organizzativo. E i limiti, forse, erano più dal punto di vista organizzativo che fiscale. Vi era dunque il rischio di un vuoto, difficile da riempire. A colmarlo fu l’affacciarsi sulla scena di un duplice protagonismo. Da una parte chi aveva vissuto l’esperienza forte del Concilio Vaticano II, del rinnovamento del magistero della Chiesa – della Chiesa come Popolo di Dio e come Chiesa dei poveri –; e dall’altra parte chi aveva respirato un clima altrettanto pregnante, quello del lungo ‘68 italiano, e che magari dalle barricate, dalla protesta esibita, aveva maturato la convinzione di dedicarsi all’impegno concreto nel sociale. Si trattava di due mondi abbastanza diversi, ma non troppo distanti, come suggeriscono lo storico contemporaneo Guido Crainz e lo storico della Chiesa Guido Verucci (Crainz, 2003; 2016; Verucci, 1999). Essi affermano che prima di leggere Marx ed Engels, il movimento studentesco si era accostato ai testi di don Lorenzo Milani, padre Ernesto Balducci e don Primo Mazzolari.

Perciò, maturati i tempi, questi due nuovi e diversi protagonismi si trovarono a dialogare; si misero assieme, dando vita a piccole ma concrete iniziative di risposta ai nuovi bisogni, in forma pionieristica, attraverso esperienze spesso pregnanti di vita comunitaria o organizzate attorno all’idea della casa-famiglia. In questo contesto, se gli shock petroliferi e la crisi economica fecero emergere nuovi bisogni, il motore principale del cambiamento va però attribuito a una maggiore scolarizzazione, ad una aumentata coscienza collettiva dei diritti e a una cultura diffusa della responsabilità. Di qui la nascita di vari gruppi d’intervento nel sociale. Il Gruppo Abele di don Luigi Ciotti, che operava nelle periferie urbane di Torino, la comunità Agape di don Italo Calabrò attiva nella zona di Reggio Calabria e quella di Capodarco di Fermo nelle Marche, accompagnata da don Franco Monterubbianesi. A queste realtà, ne seguirono molte altre, in varie regioni italiane, soprattutto in quelle con una tradizione di piccola impresa.

Il passaggio successivo, per alcune delle espressioni del sociale, fu quello di darsi un assetto più stabile. L’inadeguatezza dello Stato nel farsi carico dei bisogni che si erano manifestati non era infatti temporanea, limitata, transitoria: risultava, anzi, radicata, conclamata, definitiva. Si trattò allora di pensare a come dare continuità a questi progetti, a come uscire dall’approccio informale. Per poterlo fare bisognava individuare uno strumento idoneo. Un’organizzazione che sapesse offrire risposte personalizzate, coltivare la dimensione solidale e stabilire relazioni di prossimità. Ma una forma giuridica che, allo stesso tempo, riuscisse però a organizzare in maniera strutturata i servizi erogati e li gestisse in forma imprenditoriale e inclusiva (Ianes, Tortia, 2010; Borzaga, Fazzi, 2011)[5].

La forma cooperativa poteva essere l’opzione migliore per rispondere a queste due esigenze, quella di essere solidale e di esserlo in forma d’impresa democratica. Di qui la nascita, a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, delle prime cooperative sociali, non ancora tipizzate in “A” o “B”, ma denominate, a seconda delle caratteristiche, cooperative di solidarietà sociale, di servizi integrati, o di servizi sociali. Una tripartizione che, tra l’altro, si trova nella prima legge sulla cooperazione sociale, approvata nel 1988 dalla Regione Trentino-Alto Adige (la n. 24 del 22 ottobre)[6], cui seguirono nel 1989 quella del Piemonte (la n. 48) e della Lombardia (la n. 67), in anticipo di due-tre anni su quella nazionale.

Mutualità “allargata” e proprietà multistakeholder

All’inizio le prime cooperative sociali crearono dei problemi al movimento cooperativo, all’ordinamento giuridico e agli stessi giudici chiamati ad omologare gli statuti affinché queste realtà potessero diventare concretamente operative (Ianes, 2009; 2020). In particolare, esse misero in discussione due capisaldi che fino a quel momento avevano contraddistinto la cooperazione, per lo meno quella tradizionale. Il primo riguardava il principio della mutualità, inteso come gestione di servizio da scambiarsi vicendevolmente tra soci. In verità, i benefici generati da queste nuove cooperative ricadevano soprattutto al di fuori della compagine sociale, a favore di persone che soci non erano e magari non erano in condizioni di esserlo. Il secondo era il criterio della omogeneità della base sociale; sino a quel momento, infatti, le cooperative tradizionali avevano riunito o solo lavoratori, o solo consumatori, o solo agricoltori conferitori, o altre tipologie di stakeholder singoli, aggregati appunto per perseguire un proprio interesse comune. Qui invece si aveva la coabitazione di più persone che perseguivano sì lo stesso obiettivo, ma partendo da presupposti diversi. Vi erano infatti i soci volontari, i soci fruitori (utenti) e i soci prestatori (lavoratori), che davano vita a un’impresa multistakeholder. Accadeva pertanto che alle prime cooperative del sociale i giudici negassero il riconoscimento degli statuti, quindi la possibilità di diventare operative, proprio perché essi risultavano in contrasto con i tradizionali requisiti cooperativi.

Per parte loro i primi imprenditori sociali portarono due argomentazioni. La prima riguardava il richiamo forte all’articolo 45 della Costituzione italiana, che aveva riconosciuto all’impresa cooperativa non tanto una proprietà mutualistica – peraltro da intendersi come mutuo-auto-aiuto – quanto una “funzione sociale”. La seconda fu offerta da un termine nuovo, merito del giurista Piero Verrucoli, che coniò il concetto di “mutualità allargata” o di “mutualità esterna”, proprio al fine di forzare la mano sulle restrizioni imposte dal vincolo della mutualità (Verrucoli, 1988; Scalvini, 1988). Grazie ai ragionamenti avanzati, queste prime iniziative ottennero un provvisorio, ancorché precario, riconoscimento. Infatti, i tribunali chiamati a riesaminare gli statuti ammorbidirono spesso le posizioni iniziali e concedettero l’omologa. Non di meno, tutto ciò rappresentava una forzatura: le cooperative sociali erano tutt’altro che mutualistiche; e inoltre non potevano di certo contare su una base di soci omogenea.

Occorreva perciò un riconoscimento giuridico ad hoc. Il primo disegno di legge fu presentato nel 1981 dall’onorevole bresciano Salvi e ci vollero ben dieci anni prima che l’iter arrivasse a conclusione, con l’approvazione – com’è risaputo, nel novembre 1991 – della legge 381 sulla cooperazione sociale. La 381 garantiva uno status specifico alla cooperazione sociale e le riconosceva un autonomo spazio d’azione. Una novità assoluta non solo nel panorama nazionale ma anche internazionale. Perché con essa si veniva ad affermare – implicitamente – che si poteva essere imprenditori non solamente per profitto (come nelle imprese for profit), non solo per mutualità (come nel caso delle cooperative tradizionali), ma addirittura per solidarietà, per perseguire l’interesse generale della comunità.

A sbrogliare la matassa fu l’allora ministro del lavoro Carlo Donat Cattin, spiega Felice Scalvini in un articolo pubblicato di recente su questa rivista cui si rinvia[7], anche se il politico democristiano non riuscì a vedere approvata la 381, perché deceduto proprio nel marzo di quel 1991. Donat Cattin sbloccò una situazione di stallo, apparentemente irrisolvibile, generata dalle già richiamate diverse visioni che del fenomeno che caratterizzavano Confcooperative e Lega delle Cooperative. Le due Centrali cooperative faticavano a trovare la quadra, specie sul tema del volontariato su cui si stava consumando lo strappo. I cattolici avrebbero voluto vedere il volontariato come perno fondamentale della cooperazione sociale, al punto da prevedere una presenza minima, prima di un terzo e poi del 25% di volontari sull’intera compagine (Borzaga, Ianes, 2006). L’impostazione social-comunista, al contrario, avrebbe voluto lasciare facoltativa e limitare al 40% la presenza del volontariato, un po’ per la convinzione che esso avrebbe finito per ridurre le opportunità occupazionali create dal nuovo fenomeno, e un po’ per la preoccupazione che altrimenti le cooperative non avrebbero disposto delle sufficienti professionalità e competenze. Alla fine, la mediazione, faticosa, si trovò: si eliminò il sostantivo “solidarietà” dal nome cooperativa sociale, si lasciò facoltativa la presenza di soci volontari e se ne fissò una percentuale massima, pari al 50% dell’intera compagine. A queste misure corrispose però, nei fatti, una cooperativa sostanzialmente non del tutto mutualistica, ma aperta alla solidarietà e protesa all’interesse generale della comunità.

Questo lungo e faticoso percorso d’iniziazione e di riconoscimento giuridico permette, oggi, di muovere due distinte considerazioni.

La prima smentisce chi sostiene che la cooperazione sociale sia il frutto dei processi di esternalizzazione della pubblica amministrazione. Un’affermazione di questo tipo, infatti, non supererebbe il vaglio della ricostruzione storica e storiografica. Perché è vero anzi il contrario. Le cooperative sociali, e prima ancora il volontariato e le altre esordienti forme di Terzo settore, sono nati dal basso, dal convogliare di alcune condizioni di contesto e di più protagonismi che sono stati capaci d’innescare un processo di cambiamento sociale. L’ente pubblico, e prime tra tutti le amministrazioni comunali, si accorsero, certamente, di queste iniziative; ma solo dopo. Ne constatarono il buon funzionamento e decisero di coinvolgerle – grazie anche alla maturazione legislativa – nella gestione dei servizi di interesse collettivo, specie di natura sociale, assistenziale e sociosanitaria.

La seconda considerazione riguarda il successo della legge 381. Esso può essere legato – e in maniera singolare – alla sua tarda approvazione, avvenuta quando ormai la sua architettura istituzionale era già stata perfezionata. Si sottolinea qui la differenza tra questa e altre leggi successive, che non hanno avuto pari fortuna, come per esempio la legge sull’impresa sociale del 2005. Mentre con la 381 si è semplicemente ratificato un fenomeno, con la legge sull’impresa sociale se ne voleva indurre in via normativa uno nuovo: non proprio lo stesso intento. Si viene così a rinforzare – a costo di ripeterlo – la tesi secondo la quale quasi mai un’istituzione o un movimento di così vaste proporzioni si determina per legge o per decreto, e ciò a prescindere dai maggiori o minori vantaggi fiscali che possono sì intensificare un processo, ma non innescarlo.

Vi è poi un merito storico della 381 che va riconosciuto: quello di aver saputo istituzionalizzare una nuova tipologia d’impresa, di averla accompagnata, e soprattutto sostenuta dal punto di vista quantitativo. Non solo: senza la legge 381 (e la 266/91 sul volontariato), senza ciò che il Terzo settore è riuscito a mobilitare negli anni Novanta del XX secolo, difficilmente la Costituzione italiana avrebbe accolto, come ha in effetti fatto nel 2001, l’articolo 118 dedicato al principio della sussidiarietà. Un principio di antico corso quello della sussidiarietà, quella verticale e quella orizzontale. Contenuta già nella Rerum Novarum di Leone XIII del 1891, essa guida la ripartizione dei compiti e delle responsabilità secondo l’ottica della risposta efficiente più vicina al bisogno e quindi del riconoscimento e del sostegno alla famiglia e ai corpi intermedi, affinché siano messi in condizione, ogni volta in cui ciò è possibile, di rispondere ai bisogni, attivando invece l’intervento pubblico laddove questi soggetti, pur supportati, non siano in grado di farlo autonomamente.

Tra nuove attività, coprogrammazione e coprogettazione: lezioni dalla storia

Il fenomeno della cooperazione sociale è stato così storicizzato, ma vi è un futuro ancora tutto da costruire. Con la Riforma del Terzo settore, il legislatore ha già dichiarato quale dovrà essere lo spazio occupato dalla cooperazione sociale. Quello di un soggetto specializzato negli ambiti di sempre, i servizi socioassistenziali, sociosanitari, educativi e l’inserimento lavorativo, timidamente allargati alla sanità tout court e alla formazione (Fici, 2018; Borzaga, 2018; Scalvini, 2018). Forse, si sarebbe potuto osare un po’ di più, allargando ulteriormente le maglie. Ma non è stato fatto. “Per il vero – osserva Felice Scalvini[8] – se lo sguardo supera il formalismo giuridico e certe dinamiche associative, la cooperazione sociale col codice di terzo settore può incrementare il proprio ambito di operatività. Perché, senza scimmiottare mondi che non le appartengono, non c’è oggi soggetto più attrezzato della cooperazione sociale in grado di affrontare le sfide del nostro tempo. Si tratta di mettere in campo, allora, un pacchetto di mischia cooperativo, coeso, professionale, comunitario. La si chiami pure cooperativa-impresa sociale, ma pur sempre di cooperazione solidaristica si tratta”.

La lettura storica permette d’intravvedere comunque delle possibilità, dei margini di miglioramento. In proposito è molto forte la sensazione che ci si stia avvicinando a un altro tornante della storia. Gli ingredienti ci sono tutti, o quasi: uno shock determinato prima dalla crisi finanziaria e poi dalla pandemia, l’emersione di nuovi bisogni ad ogni livello, psicologico, occupazionale, sanitario. Ciò che manca, o si stenta a intravvedere, è semmai la nascita di nuovi protagonismi. Ma questi, forse, non sono tempi di rivoluzione e di rivoluzioni, ma di piccoli segnali di cambiamento, che si possono scorgere tra le giovani e meno giovani cooperative sociali. Quelle che praticano l’innovazione sociale (Fazzi, 2019), non si appiattiscono alla gestione routinaria e rifuggono l’idea di atteggiarsi da specialisti delle gare d’appalto.

La storia, ancora una volta, può aiutare: suggerisce un percorso a ritroso, quasi un ritorno alle origini, quando a fare progettazione non era l’ente pubblico ma erano le prime cooperative sociali e accadeva spesso che queste ultime avviassero in autonomia i servizi. Nel tempo un numero crescente di amministrazioni locali si accorgevano e apprezzavano le positive ricadute di questi servizi sulla comunità locale. Ne riconoscevano lo sforzo e l’impegno, con la concessione di contributi una tantum. Arrivò poi, tra anni Novanta e primi Duemila, la stagione delle convenzioni, un primo tentativo di coprogrammazione e di coprogettazione. C’era chi stava da una parte del tavolo (l’ente pubblico) e chi sedeva dall’altra (la cooperativa sociale, l’ente di Terzo settore). Entrambi si accordavano su come riempire di contenuto l’accordo che si andava a siglare. Poi l’Unione europea chiese maggiore trasparenza nella scelta del contraente. S’impose così la via della gara d’appalto, spesso al massimo ribasso, che fu vista come panacea di ogni male. Quest’impostazione fu mitigata, talvolta, da più o meno esplicite clausole sociali. Il metodo della gara d’appalto è servito, probabilmente, per tenere i conti pubblici sotto controllo, ma ha anche finito per soffocare la creatività di molte cooperative sociali e del Terzo settore.

Oggi, con l’articolo 55 del Codice del Terzo settore, ci sono i presupposti per aprire un nuovo capitolo, quello della coprogrammazione e della coprogettazione, e cioè di una pratica basata più sul cooperare che sul competere tra soggetti del Terzo settore, e tra questi e l’ente pubblico (Scalvini, 2018; Marocchi, 2019; Fazzi, 2021). L’esito, naturalmente, dipenderà molto anche dall’orientamento assunto, o che si assumerà, a livello europeo[9]. Un atteggiamento finora ambiguo ma che col tempo potrebbe mutare. Così come, di fronte alla pandemia, è cambiato il rapporto tra UE e Paesi membri; un cambio di passo impensabile sino a poco tempo fa. Con un’inversione a “u”, l’Unione europea ha sospeso, pur provvisoriamente, il patto di stabilità, cioè la politica del rigore cui gli Stati membri dovevano sottostare per confermare la loro presenza in Europa. Inoltre, per contrastare gli effetti più negativi della pandemia, l’UE ha deciso di investire risorse, molte risorse, attivando diversi strumenti, tra cui il recovery fund, attraverso il quale – per la prima volta in Europa – si è deciso di fare debito comune. Non solo: ha messo a fuoco anche le priorità su cui indirizzare queste risorse. Si tratta di sei grandi ambiti, tra cui compaiono l’economia green, la transizione ecologica, il digitale e ovviamente l’inclusione sociale e la sanità. Settore, quest’ultimo, che per la Riforma del Terzo settore può essere appannaggio anche della cooperazione sociale. Una base, forse, su cui poter costruire il prossimo tornante della storia.

DOI: 10.7425/IS.2021.04.06
 

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Note

  1. ^ Prima assemblea organizzativa di Federsolidarietà, Castellamare di Stabia, 26-28 ottobre 1989, Relazione di Felice Scalvini “Organizzare imprese sociali per strategie di solidarietà”.
  2. ^ Felice Scalvini, memoria scritta, 8 dicembre 2021.
  3. ^ Il numero “0” della rivista uscì nell'ottobre del 1990 (Impresa Sociale, 1990).
  4. ^ Su queste prime espressioni della carità si confrontino i saggi contenuti in Zamagni (2000) e poi anche Lepre (1988) e Vinay (1997).
  5. ^ Più di recente la teoria economica ha cercato di dare giustificazione dell'esistenza delle imprese sociali, specie a proprietà multistakeholder, ha riflettuto sui meccanismi di coordinamento che sovraintendono l'impresa cooperativa e l'impresa sociale, sia nella gestione dei rapporti interni alla medesima organizzazione, sia nelle relazioni con gli stakeholder esterni. Per esempio, tra i contributi più recenti: Sacchetti, Borzaga e Tortia (2021), Borzaga e Sacchetti (2015); Tortia e Sacchetti (2014). Si confronti anche Marocchi (2020). Una rivisitazione dell'impostazione di Hansmann (1996) che perfeziona l'idea di costo totale, considerando i costi esterni all'organizzazione e i costi interni, si trova in Sacchetti e Borzaga (2020).
  6. ^ Regione Autonoma Trentino-Alto Adige, 1989.
  7. ^ Scalvini (2021). Come lui stesso afferma, questa vicenda è stata narrata anche in Borzaga e Paini (2011).
  8. ^ Felice Scalvini, memoria scritta, 8 dicembre 2021.
  9. ^ Su questo non si parte di certo da zero: Zandonai (2013).
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