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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2020

Saggi

Perché l’impresa sociale ha un senso e a quali condizioni

Gianfranco Marocchi

Introduzione

Il concetto di impresa sociale è ormai diventato di uso comune in Italia e in molti altri Paesi; anche se, a ben vedere, esso viene usato con una certa disinvoltura per riferirsi a fenomeni talvolta diversi, vi potrebbero essere buone ragioni per ritenere che oggi, più che riaprire un dibattito teorico, sia proficuo dedicarsi a questioni operative – gestionali, finanziarie, organizzative – che possano dare un sostegno concreto a chi fa impresa sociale. Il punto di partenza di questo lavoro è che, invece, non solo per esigenze di chiarezza teorica, ma anche in relazione a questioni pratiche e concrete, vi siano talune questioni circa il concetto di impresa sociale che meritano ancora di essere pienamente approfondite e giustificate.

Tali questioni prendono le mosse da una domanda semplice quanto decisiva: perché, quando e a quali condizioni un’impresa sociale che svolge una qualsiasi attività – l’inserimento lavorativo in un’attività artigianale o nella manutenzione del verde, la gestione di uno studio odontoiatrico o di un servizio domiciliare per anziani, un’iniziativa di riqualificazione di un edificio in disuso per farne un luogo di animazione e di cultura – dovrebbe realizzarla meglio rispetto ad una impresa for profit? E cosa, precisamente, dovrebbe riuscire a fare, che un’impresa for profit non riesce a realizzare (o che realizza in modo peggiore o meno conveniente)? E perché dovrebbe essere così?

Queste domande rimandano da una parte a questioni teoriche familiari agli economisti che studiano questi temi – quale sia il rationale dell’esistenza delle imprese sociali e della loro affermazione in un contesto di mercato – dall’altra al confronto che impegna imprenditori sociali che si interrogano sull’indirizzo da imprimere allo sviluppo delle loro imprese: giacché le convinzioni circa ambiti e condizioni in cui esse eccellono porta a orientare investimenti economici e attenzioni culturali, appunto, in una specifica direzione. E riguarda infine chi a vario titolo opera sul fronte delle policy – direttamente, come i soggetti pubblici o comunque tramite leve economiche, come le fondazioni – perché dalle risposte alle precedenti domande discendono orientamenti che possono riguardare tanto le scelte regolative quanto le misure di sostegno ed incentivo.

Si procederà quindi nel primo capitolo con una sintetica ricostruzione dell’inquadramento teorico dell’impresa sociale, per verificare in che misura esso consenta di dare risposte soddisfacenti al quesito sopra proposto.

In questo sforzo, si sostiene nel secondo capitolo, è necessario evitare una scorciatoia mistico-narrativa spesso usata, e consistente nel basare la soluzione della questione su elementi contingenti, come avviene nei casi in cui la particolare abilità di un imprenditore sociale viene considerata non come spiegazione di una specifica storia di successo, ma come elemento che dimostra la superiorità delle imprese sociali in quanto tali. Ma, appunto, non è questa la via che qui si intende percorrere.

Nel terzo capitolo si introduce l’elemento a partire dal quale si sviluppa il successivo ragionamento, il nodo dell’equità: la capacità cioè di offrire beni o servizi di interesse generale a persone (o aree territoriali) che non possono averli su base di mercato; le imprese sociali sono in grado di arrivare là dove il mercato non arriva?

Possono farlo, si argomenta nel capitolo 4, laddove sappiano integrare come fattore produttivo elementi extra mercato; tale attitudine non rappresenta una sopravvivenza di inclinazioni risalenti ad un superato periodo pre-imprenditoriale delle imprese sociali, ma è anzi l’elemento differenziale dell’impresa sociale rispetto alle altre imprese. Questo, senza ignorare le possibili ambiguità di questa impostazione, di cui è necessario essere consapevoli; ed è questo il tema sviluppato nel capitolo 5.

Infine, nel capitolo 6, si prova a riflettere sulle conseguenze di quanto argomentato dal punto di vista sia delle politiche di sostegno all’impresa sociale, sia delle strategie di impresa.

1. Il concetto di impresa sociale: lo stato del dibattito

L’interrogativo di apertura – perché e a quali condizioni l’impresa sociale rappresenta un’opzione vantaggiosa rispetto all’impresa for profit – ci riconduce ad un dibattito teorico che ha caratterizzato, a partire dagli anni Ottanta, il tentativo degli studiosi di comprendere perché esistessero le organizzazioni non profit, tema a cui, soprattutto nel mondo anglosassone, si è tentato di rispondere assegnando una valenza fondativa al non distribution constraint (Hansmann, 1986, 1987).

Negli anni Novanta si assiste ad uno sviluppo di questo dibattito su più fronti. Anche a partire dall’esperienza italiana, emerge il tema dell’impresa sociale e delle sue caratteristiche distintive, che acquista una sua specificità rispetto a quello delle organizzazioni non profit; essa viene definita (EMES, 1999; Defourny, 2001), oltre – e forse prima ancora – che per il modo con cui tratta la distribuzione degli utili per le sue specificità di impresa multistakeholder, capace di integrare nella governance portatori di interessi diversi e, altrove, contrapposti. Nel frattempo, l’urgenza era diventata quella di elaborare definizioni e modelli utili ad inquadrare concretamente i fenomeni di imprenditorialità sociale che emergevano via via nelle diverse esperienze nazionali; definizioni e modelli che, seppur appoggiati su un solido substrato teorico, concentravano i propri sforzi sulla necessità di rendere il più possibile unitario e comprensibile un fenomeno che andava sviluppandosi in tutta Europa con, appunto, tratti comuni da individuare e insieme differenze connesse ai diversi sistemi giuridici e tradizioni culturali. Tale impostazione è stata a sua volta messa in discussione dal filone di studi promosso soprattutto nell’ambito delle business school statunitensi sulla social entrepreneurship, tendente a rifiutare o allentare le caratteristiche ritenute troppo vincolanti, tra cui i vincoli non volontari alla distribuzione di utili, a favore di valutazioni che identificano l’impresa sociale sulla base dell’impatto sociale generato e approcci centrati sul ruolo della finanza.

Questo dibattito è stato ricco e talvolta acceso, soprattutto nei momenti in cui ci si è trovati a dare una traduzione normativa dei fenomeni di imprenditorialità sociale; ma è invece risultata più rarefatta l’analisi dei fondamenti teorici dell’impresa sociale e delle sue caratteristiche costitutive e di come, in virtù di queste, le imprese sociali possano dare un contributo originale all’interesse generale. Ciò non significa che siano mancati sforzi in questo senso; si pensi ai lavori sulle motivazioni, volte comprendere alcuni dei vantaggi competitivi dell’impresa sociale (più che del non profit, in generale) e a quelli che hanno interpretato l’impresa sociale come produttore di esternalità positive in quanto orientate a soddisfare domanda non pagante (Borzaga, Bacchiega 2001; Santos 2009); ma si è trattato di riflessioni abbastanza isolate nel complesso delle elaborazioni di questi anni.

Sul fronte dei practitioner – e questo riguarda tanto il mondo degli imprenditori sociali, quando dei policy maker che ci occupano della materia – si sono invece cercate risposte operative, via via innamorandosi (forse un po’ incautamente) di concetti che hanno affollato il periodo turbolento seguito alla crisi del 2008. La sempre più influente letteratura sulla social entrepreneurship e l’infatuazione dell’Unione europea per la social innovation come magica ricetta per uscire dalla crisi ha da una parte gratificato gli imprenditori sociali, facendoli sentire al centro delle strategie di rilancio dell’Europa, dall’altro li ha portati ad assorbire un dibattito nato in altri contesti in modo talvolta acritico, che spesso tende ad attraversare la questione fondamentale qui posta – cosa e perché l’impresa sociale dovrebbe fare meglio di altri soggetti – senza approfondirla o ricorrendo al più a ragionamenti mediaticamente spendibili, ma a ben vedere poco fondati; si possono a tal proposito individuare almeno tre filoni lungo i quali pratictioner e policy maker si sono mossi.

Il primo si è sviluppato, con un approccio marcatamente demand side, sul tema degli ambiti di attività, alla ricerca di “settori innovativi” da un punto di vista imprenditoriale e al tempo stesso in grado di incidere sulla qualità della vita. Che siano app per far incontrare domanda e offerta di servizi di welfare o ludoteche, ambulatori medici o produzioni artigianali di qualità o iniziative di agricoltura biologica, si tratta di attività intraprese nella convinzione che vi fossero spazi di mercato inesplorati e agibili da imprenditori dinamici – cosa talvolta risultata vera, talvolta no – in ambiti di interesse generale; ma soprattutto si è ritenuto che la compresenza di tali caratteristiche identificasse come conseguenza un ambito elettivo per l’impresa sociale. Vi è un particolare che però non è stato considerato: che, anche nel caso di effettiva esistenza di tali spazi di mercato, in assenza di ulteriori ragionamenti, non vi era nessuna buona ragione intrinseca afiinché un’impresa sociale dovesse riuscire meglio di altri soggetti. L’esito che ne deriva è quello più logico: o l’ipotesi circa l’esistenza dello spazio di mercato di cui sopra è sbagliata, e allora l’iniziativa viene meno alla nascita; oppure l’ipotesi è giusta e, anche qualora l’imprenditore sociale sia stato effettivamente tempestivo nell’avviare l’attività, si trova ben presto a fronteggiare altri agguerriti competitors, che non risparmiano colpi bassi. È la storia descritta da Luca Fazzi (2019) rispetto alla scelta di operare nel settore sanitario. Qualcuno ce la fa – grazie a risorse di cui parleremo più avanti – molti soccombono; in ogni caso, non ha luogo l’ipotizzata migrazione del core business dell’impresa sociale verso i supposti giacimenti inesplorati.

Il secondo filone di ragionamento riguarda un ipotizzato spostamento dal mercato pubblico – arretrato, conservativo, condizionato da vincoli esterni e sottopagato – ad un mercato privato descritto come dinamico, innovativo, remunerativo e pertanto in grado di dare autonomia e indipendenza alle imprese sociali; e dunque diventa centrale la ricerca di “ibridazioni” (Venturi, Zandonai, 2014) con imprese for profit. Ora, a distanza di qualche anno, è possibile dare di tutto ciò una narrazione equilibrata. È senz’altro vero che le migliori imprese sociali hanno da sempre saputo muoversi con autorevolezza su più mercati, pubblici e privati, e hanno espresso contenuti imprenditorialmente interessanti e in generale hanno saputo evitare un’eccessiva dipendenza da un singolo cliente (pubblico o privato); è vero che alcuni soggetti pubblici hanno saputo guardare all’impresa sociale solo come un limone da spremere senza riconoscerne la valenza di interesse generale. Ma non è vero che rapporti basati sull’estrazione del valore a svantaggio delle imprese sociali non si verifichino anche nelle relazioni commerciali con i privati – basta pensare ad alcune esperienze di subfornitura da parte di cooperative sociali di inserimento lavorativo – mentre al contrario vi sono esempi di partenariato con pubbliche amministrazioni di grande interesse. In realtà, più che la natura pubblica o privata dell’interlocutore, sembrano dirimenti altri aspetti, in parte culturali, in parte concernenti le relazioni di forza tra impresa sociale e i propri clienti o partner. Ma, per quello che qui ci importa, anche in questo caso le strategie sono condotte in assenza di ragionamenti fondati sulle specificità delle imprese sociali. Per quale motivo un partenariato tra impresa sociale e impresa for profit, ad esempio sull’ambito delle energie rinnovabili, dovrebbe avere più successo che un altro tra due imprese for profit? Qual è la specificità che rende un’impresa sociale un partner ideale? E quale è il maggior contributo all’interesse generale?

Il terzo filone di ragionamento è centrato sulla finanza come leva capace di far emergere energie di imprenditorialità sociale inespresse: startup sociali che passano dalle menti dei loro creatori al successo imprenditoriale grazie al fatto che qualcuno le finanzia. Sarebbe facile argomentare la poca consistenza di questo ragionamento, ma qui il punto è un altro: laddove 1) effettivamente vi fosse un capitale interessato a sostenere – anche affrontando rischi inconsueti per il mercato – azioni imprenditoriali in ambito sociale, perché dovrebbe finanziare imprese sociali? Perché finanziare il nuovo dispositivo tecnologico di telemedicina ideato da un gruppo di startupper imprenditori sociali piuttosto che quello di una azienda for profit? Visto che, tra l’altro, i vincoli sulla distribuzione del patrimonio impediscono al finanziatore di beneficiare dell’eventuale aumento di valore dell’impresa?

Ricapitolando: gli studiosi mettono in secondo piano il dibattito sulle fondamenta delle imprese sociali per concentrarsi su definizioni operative; i practitioners sono sedotti da ricette che i ragionamenti sulle fondamenta li saltano esplicitamente a piè pari, perché elaborati in un sistema culturale che semplicemente non li contempla.

I risultati sono quelli noti: tanto il dibattito teorico, quanto le policy di sostegno annaspano tra anglismi poco consistenti, ricette tese a stimolare investimenti privati (che spesso non si verificano), a stimolare managerialità, a conquistare mercati improbabili, a sbarcare su “settori innovativi” che generalmente costano alle imprese sociali (o al finanziatore pubblico o privato) qualche decina di migliaia di euro senza portare a risultati consistenti.

Nel frattempo, l’impresa sociale rischia di evaporare. Se, per esemplificare con il primo filone, 1) è centrale che l’impresa sociale si lanci su “settori innovativi” come le app o la sanità, se 2) si constata che in fondo, a ben vedere, non vi sono elementi intrinseci che determinino una maggiore attitudine delle imprese sociali rispetto ad altre imprese nell’operare in tali settori, se ne conclude 3) che, semplicemente, l’impresa sociale non esiste. E che quindi è ragionevole concentrarsi su imprese che, al netto di taluni marginali ammiccamenti alla tradizione dell’impresa sociale circa la limitazione nella distribuzione degli utili, si caratterizzano per produrre un “impatto sociale positivo”, definizione che nei fatti tende a coincidere con il fatto di operare in modo quantomeno economicamente sostenibile in un settore di interesse generale. Profit, non profit, imprese sociali, B. Corp o benefit che siano, frutto dell’iniziativa di un singolo giovane intraprendente o di una cooperativa sociale, poco importa. È utile l’ambulatorio, la ludoteca, la app? Benissimo, ecco un’iniziativa ad impatto sociale positivo, in fondo cosa importa chi l’ha realizzata? Anche se poi la storia è andata a finire diversamente, questa era peraltro l’impostazione sottostante le prime versioni della Riforma dell’impresa sociale, sino che, in seconda lettura, l’articolato è stato modificato in modo rilevante rispetto alle versioni precedenti, adottando il testo a tutti noto.

E a ben vedere, un ragionevole motivo per adottare questo approccio ultra pragmatico c’è: i progressi che rendono a tutti noi la vita quotidiana più facile – dall’invenzione della ruota a internet, dal dominio del fuoco alle lavatrici – non sono necessariamente stati introdotti da imprese sociali, né necessariamente saranno imprese sociali a trovare risposta ai problemi sui quali oggi ci arrovelliamo e dalla cui soluzione deriva il benessere nostro e delle future generazioni, come la ricerca di fonti energetiche meno impattanti sui cambiamenti climatici o la pulizia del mare dalla plastica. Di questo bisogna avere consapevolezza, perché ogni discorso sull’impresa sociale non deve sentire su di sé il peso di cimentarsi con l’improbabile sfida di dimostrare che solo l’impresa sociale può interpretare l’interesse generale; più modestamente, ci si può impegnare ad argomentare che in talune situazioni (non in tutte), l’impresa sociale può farlo meglio di altri e che in ciò essa dunque trova la sua specificità, appunto il tema qui affrontato.

E svilupparlo è importante perché se non arrivassimo a conclusioni convincenti, non potremmo che constatare che da un passaggio all’altro, l’idea di impresa sociale diventa più rarefatta, lasciando spazio a una dottrina che postula la convergenza tra imprese for profit (sempre più portate ad incorporare obiettivi sociali) e imprese sociali (sempre più propense a fare propria l’organizzazione manageriale delle imprese for profit). Di ciò si ritrova traccia nella – forse ancor marginale, ma comunque presente – diffusione culturale di un concetto diverso di impresa, attenta non solo all’utile ma al benessere degli stakeholder (ne scrive bene Salvatori, 2020, giustamente ascrivendo questa evidenza tra i successi politici e culturali dell’impresa sociale), mentre sono molti i soggetti che per motivi diversi dichiarano di realizzare o di avere realizzato grazie alla loro attività di impresa azioni di interesse generale: i già citati produttori di lavatrici hanno reso meno faticosa la vita delle massaie, i geni della Silicon Valley hanno reso il nostro lavoro più produttivo, la vita più divertente e le nostre comunicazioni più facili; le aziende che introducono un ulteriore “+” alle A della classe energetica di un dispositivo contribuiscono a salvaguardare la specie umana dall’autodistruzione.

È innegabile che queste attività di impresa producano esiti che beneficiano la vita quotidiana di tutti noi e a ben vedere se l’unica trincea da frapporre alla dissoluzione del concetto di impresa sociale fosse costituita dal fatto che tali soggetti, a differenza dell’impresa sociale, producono risultati utili all’interesse generale, ma senza avere come mission statutaria lo scopo di portare un beneficio ai cittadini, tale difesa farebbe la stessa fine della linea Maginot: aggirata senza nemmeno bisogno di sfondarla. In fondo, se l’elemento della finalità statutaria viene astratto da altri elementi e viene di per sé considerato come qualificante, a chi mai potrebbe interessare?

Per tutti questi motivi, allora forse sì, a quarant’anni e più dai saggi di Hansmann e Weisbrod che oggi ogni tesista che si occupi di Terzo settore disciplinatamente richiama, c’è proprio bisogno di riprendere un discorso che ponga al centro gli interrogativi di partenza: cosa, diversamente da quanto detto poc’anzi, può o dovrebbe essere fatto solo da imprese sociali e a che condizione ciò si verifica?

2. Al di là degli elementi contingenti

Ci si impegnerà in queste riflessioni imponendoci un limite: precludersi ragionamenti fondati su elementi contingenti. Esemplificando: se un imprenditore eccellente in un determinato settore (poniamo in una certa produzione artigianale) è al contempo animato da finalità sociali (inserire al lavoro persone con disabilità) e sceglie di dare vita ad una cooperativa sociale di inserimento lavorativo che riesce poi ad ottenere risultati eccellenti, questo rappresenta senza dubbio un caso di successo. L’esperienza in questione, esibita dal mondo delle imprese sociali come un gioiello di famiglia, verrà raccontata in ogni dove per la sua capacità di proporre prodotti innovativi e di alta qualità, di venderli anche sui mercati più difficilmente raggiungibili (all’estero, a clienti privati, ai grandi marchi nella filiera del proprio settore produttivo, ecc.), di stabilire partenariati dinamici con altri soggetti, ecc.; ma il successo di questa iniziativa non deriva dal fatto di essere impresa sociale. Deriva dal fatto che un imprenditore eccellente è, per motivi etici, religiosi o di altro tipo orientato a destinare il proprio ingegno a questo tipo di impresa.

Ciò che invece non possiamo affermare è che tale eccellenza derivi da un legame intrinseco con il fatto di essere “sociale”; o che le persone diventano imprenditori eccellenti “in quanto sociali”. È più corretto dire che vi sono imprenditori di grandi competenze in un certo ambito di attività e quando uno di loro è animato da finalità sociali nascerà una di queste ottime iniziative. Tale narrazione sicuramente non è inutile (evidenzia alle imprese sociali la necessità di fondarsi su risorse eccellenti da un punto di vista imprenditoriale), ma nulla ci dice sulla domanda di partenza circa la specificità delle imprese sociali e, da un punto di vista delle strategie, rischia di essere parziale se non fuorviante, nel momento in cui (diversamente dall’esempio sopra immaginato) porta a pensare che l’essenza dell’impresa sociale di successo dipenda da una mera sommatoria di orientamenti sociali (solitamente posseduti da un gruppo dirigente preesistente) con elementi manageriali da importare dall’esterno. Certamente è imprescindibile per una impresa sociale avere dirigenti attenti e capaci; ma questo si è tradotto in ricette spesso approssimative, come l’innesto di manager estranei alla cultura di impresa sociale, retribuiti oltre misura rispetto al resto del gruppo dirigente e con esiti finali altamente problematici. L’assenza di un’idea chiara su quale sia il fondamento dell’impresa sociale porta a ritenere che il punto dirimente sia ottimizzare la qualità gestionale. La strategia spesso fallisce perché, in assenza di altre riflessioni 1) la colonizzazione di una impresa sociale da parte di un management esterno fa di essa qualcosa di assolutamente omogeneo alle altre imprese e in più 2) si verificano tensioni organizzative difficilmente gestibili.

Ma, tornando al nostro tema: non vi è nessuna buona ragione per cui gli imprenditori efficaci debbano essere “sociali” e soprattutto, laddove qualcuno lo fosse, non avrebbe di per sé un particolare vantaggio: sarebbe un ottimo imprenditore al pari di altri. E dove sta, allora, la specificità dell’impresa sociale?

3. Il nodo dell’equità

Come già evidenziato in premessa, la risposta a questa domanda ha impegnato i migliori studiosi nel periodo “classico” della riflessione sull’impresa sociale, gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso; non si scrive dunque oggi su un foglio bianco, ma entro un dibattito con una tradizione solida, anche se di rado frequentato di recente. Il già citato saggio di Bacchiega e Borzaga, pubblicato nel 2001, può a buon diritto rappresentare una chiusura ideale per il nostro Paese di quella fase di studi: riprende e ordina i diversi filoni che hanno caratterizzato il dibattito precedente – Hansmann (1986, 1987) e il vincolo alla non distribuzione per tutelare il donatore dall’asimmetria informativa; Weisbrod (1977, 1988) e il non profit come soggetto che produce beni pubblici oltre alle preferenze dell’elettore mediano; Ben-Ner (1991) e il controllo dei consumatori su beni caratterizzati da asimmetria informativa; Young (1983, 1997) e altri con le spiegazioni supply side connesse agli orientamenti degli imprenditori sociali – e, dopo averli discussi, propone alcuni sviluppi considerando le specificità istituzionali delle imprese sociali e le strutture di incentivo che le caratterizzano, in particolare in relazione all’ingaggio dei lavoratori, avvalendosi tra l’altro l’esito di alcune ricerche empiriche svolte in quegli anni (Borzaga, 2000) che avevano evidenziato i benefici di alcuni elementi – ad esempio l’equità percepita nella distribuzione del valore aggiunto tra dirigenti e altri lavoratori – peculiari delle imprese sociali.

La proposta qui formulata non ha la pretesa di sostituirsi a quelle sopra richiamate o ad altre sviluppate negli anni successivi, ma più modestamente vorrebbe contribuire al rilancio, a vent’anni di distanza, dei temi “fondamentali” esplorando sentieri di ragionamento in parte diversi e paralleli, non collidenti con le interpretazioni teoriche citate e anzi presumibilmente con esse ricomponibili, anche se tale intento esula dai fini di questo contributo.

Lo spunto è offerto da una specifica questione, in questi anni sollevata da alcuni studiosi tra cui Luca Fazzi[1] e introdotta anche nel già citato saggio di Borzaga e Bacchiega[2], relativa all’equità e alla giustizia sociale; una questione quindi presente, ma che non è stata raccolta a sufficienza dal dibattito scientifico e che è stata, come si vedrà nel prosieguo, da più parti ignorata nel momento in cui si è trattato di tradurre elaborare policy e strategie.

Il tema – se e come le imprese sociali operino nel senso di costruire una società con maggiore equità e giustizia sociale – è interessante di per sé e per le sue implicazioni etiche e valoriali, ma qui è posto al centro della riflessione perché si tratta di un nodo critico sul quale la maggior parte delle concezioni attuali dell’impresa sociale vanno in affanno e che ci consente quindi di intraprendere una parte propositiva circa il quesito che attraversa questo scritto.

Poniamoci la domanda diretta: come può una qualsiasi iniziativa di un’impresa sociale agire nel senso di includere nel godimento di un bene o servizio di interesse generale cittadini che generalmente ne sono esclusi? Cittadini, in altre parole, che non hanno le risorse – né proprie, né trasferite direttamente o indirettamente a loro vantaggio da una pubblica amministrazione o da un soggetto filantropico – per poterne godere? Come è possibile che un ambulatorio medico, un servizio per l’infanzia e le famiglie, un intervento per favorire il mantenimento a domicilio degli anziani, ecc. di un’impresa sociale possa offrire prestazioni a chi non è in condizioni di acquistarle a prezzo di mercato? Come può un’impresa sociale portare azioni a valenza sociale (es. aggregative, di riqualificazione, ecc.) in un territorio deprivato in cui nessun soggetto for profit troverebbe sostenibile operare?

Qui il ragionamento di mercato si inceppa, entra in corto circuito. Non si tratta di disquisire sulla praticabilità dei meccanismi di mercato in settori con alta asimmetria informativa, tema caro ai primi teorici del non profit: si tratta di prendere atto che il mercato certe azioni non può considerare nemmeno la possibilità di intraprenderle. Si può innovare, ottimizzare, tagliare i costi… ma non c’è nulla da fare, curva della domanda e dell’offerta provano ad avvicinarsi, ma per quanti sforzi si facciano si ostinano a non incontrarsi. Un nido per genitori a basso reddito, l’assistenza ad anziani non coperti da servizi pubblici, l’apertura di un locale in un luogo degradato, il recupero per finalità sociali di un immobile in disuso da anni: si può essere efficienti e dinamici quanto si vuole, ma spesso i conti per un soggetto che si alimenta di sole risorse di mercato in questi casi non tornano e non possono tornare.

L’eccellente imprenditore sociale e l’eccellente imprenditore for profit operante nello stesso ambito, sino ad ora erano sullo stesso piano: entrambi dinamici, entrambi attenti a spazi di mercato inesplorati, a segmentare un’offerta su nicchie originali (es. i servizi low cost); entrambi con il vincolo della sostenibilità, che consente – a parità di competenze, di capitali di partenza, ecc. – di arrivare sino ad un certo punto, lo stesso. Entrambi hanno attuato le stesse azioni di innovazione tecnologica che li portano ad operare in condizioni ottimali rispetto allo stato di conoscenze attuali e dunque a poter offrire i costi più competitivi. Entrambi hanno una parimenti invidiabile organizzazione. Entrambi possono attuare (sino ad un certo punto) azioni distributive, realizzare margini in una certa prestazione per offrire gratuità alle persone indigenti (l’impresa sociale per mission, l’imprenditore for profit per immagine). Ma, al di là di tale soglia, il banco salta.

Entro logiche di impresa ordinaria, una certa azione ispirata al principio di equità non è realizzabile. Per l’impresa sociale lo è?

Il punto di interesse di questo discorso non è solo politico o valoriale, è che – come i deja vous in Matrix – segna un bug del sistema, il primo punto in cui l’imprenditore sociale si trova di fronte la cultura trionfante di impresa costretta ad allargare le braccia sconfitta. Questo è impossibile, dice l’impresa, qui il mercato non ci arriva.

E l’impresa sociale, come si pone di fronte alla questione? Anch’essa è interrogata da quello che potremmo definire il “dilemma dell’equità”, la tensione tra una mission che la slancia verso il tentativo di andare oltre il limite del mercato e la consapevolezza di essere “impresa tra le imprese”, sottoposta a vincoli che rendono difficile oltrepassarlo. Cosa fa di questo dilemma? Se ne smarca, collocando le responsabilità delle scelte allocative al soggetto pubblico e scegliendo per sé il ruolo di gestore professionale delle azioni da questo finanziate? È portata ad assumere scelte sconsiderate, ad autoaffondarsi accorgendosi troppo tardi, secondo l’efficace espressione di un amico cooperatore, di “avere il cuore più grande del portafoglio”? O accetta la sfida di confrontarsi anch’essa in prima linea con la questione dell’equità; e, in questo secondo caso, ha gli strumenti adeguati a farlo?

4. “You can't get something from nothing”

La risposta, ridotta alla sua componente essenziale è: l’impresa sociale può farlo se e nella misura in cui disponga di risorse di cui le altre imprese non dispongono e in cui abbia sviluppato una specifica capacità nell’integrarle entro un’azione imprenditoriale.

Ci siamo preclusi le risposte ideologiche (“visto che siamo sociali, ci organizziamo meglio di altri e quindi ci riusciamo”), ci siamo preclusi le risposte basate su narrative contingenti (“la tal cooperativa, dove c’è un imprenditore sociale eccellente, ci riesce”).

Ipotizziamo un’impresa sociale altrettanto ben diretta, ben organizzata, tecnologizzata, ecc. rispetto ad una pari impresa di mercato. Se riesce a operare un’azione di equità sconosciuta al mercato è perché introduce nel processo produttivo (in senso lato) risorse inaccessibili al mercato. Riesce ad intercettarle o ad attivarle essa stessa e ad integrarle efficacemente.

You can't get something from nothing” dicono gli anglofoni, mutuando spesso dalla termodinamica ad altri ambiti un assunto peraltro abbastanza intuitivo e che qui ci porta ad affermare molto semplicemente una cosa: per affrontare la questione dell’equità in termini inconciliabili con il mercato, bisogna disporre (e saper disporre) di risorse extra mercato; o meglio, contestualizzando sulle imprese sociali: bisogna essere in grado di integrare in un’azione imprenditoriale risorse di mercato e risorse extra mercato, essendo le seconde quelle che – ponendo una pari efficienza della macchina produttiva – costituiscono il differenziale in grado di infrangere i limiti che il mercato non riesce a superare.

Quali sono queste le risorse extra mercato?

L’esperienza delle imprese sociali ci mette di fronte ad una invidiabile varietà di risposte. La presenza di soci volontari, che apportano energie aggiuntive sconosciute alle imprese ordinarie; la disponibilità dei dirigenti e dei lavoratori a mettere a disposizione dell’impresa un effort extra in ragione della condivisione dello scopo sociale; la disponibilità degli azionisti a conferire all’impresa il risultato di esercizio in misura superiore rispetto ad altre imprese, rinunciando alla propria soddisfazione economica; l’apprezzamento del valore sociale incorporato nel prodotto che orienta le scelte di acquisto con logiche non solo di mercato; disponibilità di donatori, istituzioni filantropiche e soggetti economici a sostenere l’impresa con liberalità in denaro, immobili, attrezzature; la disponibilità di professionisti a offrire gratuitamente le proprie competenze; disponibilità da parte di soci e di altri investitori a conferire capitali; disponibilità diffuse alla collaborazione e alla partecipazione entro il contesto comunitario in cui l’impresa sociale opera; ecc..

Si potrebbe forse a buon diritto dire che l’impresa è “sociale”, fa qualcosa che se operasse secondo la logica del mercato non sarebbe possibile, proprio perché è in grado di attirare e integrare nel proprio ciclo produttivo queste risorse.

Sarebbe limitativo inquadrare questo discorso solo in modo “meccanico”, ipotizzando che grazie a tali risorse l’impresa sociale offra ad un costo inferiore a quello del mercato i medesimi servizi che il mercato offre ai soggetti paganti (o per i quali il pubblico paga), così che ne possano fruire anche le persone a basso reddito o in posizione spazialmente o socialmente troppo distante dai segmenti di mercato remunerativi; talvolta può accadere (e anche questo è un modo per generare equità), ma solitamente la specificità delle imprese sociali porta a ripensare, grazie a tali risorse aggiuntive, le logiche del servizio proponendo soluzioni differenti e innovative, inaccessibili ad altri attori. Esemplificando: se ci si pone la questione di come favorire la permanenza di persone anziane a domicilio, evitando così istituzionalizzazioni improprie, la risposta di mercato rimanda a prestazioni professionali di assistenza domiciliare, rispetto alle quali, come è noto, non vi sono risorse sufficienti se non per una quota molto limitata di potenziali beneficiari, con il risultato che tutti conosciamo: chi ha soldi per pagare costosi servizi aggiuntivi, una famiglia che può dedicare ingenti quantità di tempo e risorse o ha un sostegno pubblico può rimanere a domicilio assistito in modo dignitoso, gli altri no.

Le risposte più virtuose delle imprese sociali per superare tale forma di discriminazione non consistono solo nell’offrire più ore di assistenza domiciliare accollandosi (in tutto o in parte) il costo a favore delle famiglie povere, grazie ad esempio al poter disporre di risorse aggiuntive sotto forma di donazioni; ma di pensare a modalità di servizio originali dove, ad esempio, le prestazioni domiciliari, rese su base professionale, sono integrate in un insieme di azioni (di prossimità e vicinato, volontariato per i servizi leggeri, cohousing, portierato sociale, ecc.) realizzate sotto logiche diverse e solo parzialmente frutto di scambi di mercato, così che il complesso di questi interventi porti al risultato desiderato del mantenimento dell’anziano più a lungo presso il proprio domicilio.

Questo esempio mette bene in luce il duplice aspetto qui considerato, il fatto cioè che non basti “disporre” di risorse extra mercato (questione che ha a che fare con aspetti reputazionali, di radicamento comunitario, ecc.), ma anche che sia necessario saperle integrare al meglio, tema connesso a doti imprenditoriali peculiari e non coincidenti con la capacità di inserire nella produzione le sole risorse di mercato (manodopera, forniture, ecc.). In realtà, a ben vedere, i due aspetti sono comunque tra loro interconnessi, perché si può ragionevolmente ritenere che il primo – la disponibilità a conferire all’impresa sociale risorse extra mercato – non sia indipendente dal secondo – la capacità dell’impresa sociale di utilizzarle. In altre parole, laddove uno stakeholder constati che il tempo volontariamente messo a disposizione, la donazione, la collaborazione dell’associazione di cui fa parte, la sua consulenza professionale pro bono, ecc. diventano elementi qualificanti di un prodotto sociale altrimenti irraggiungibile – insomma rappresentano una forzatura in senso positivo del dilemma dell’equità – sarà incentivato a farlo e a diffondere una reputazione che porti altri a farlo; nella misura in cui vedrà la sua disponibilità dispersa nell’inutilità, smetterà di offrirla, ricacciandola nella latenza o veicolandola altrove. Anzi, quanto detto ci fa comprendere l’esistenza di un legame forte tra le due dimensioni, la disponibilità extra mercato e il suo utilizzo: la prima non è solo variabile indipendente (connessa, ad esempio, a orientamenti valoriali, religiosi o di altro tipo diffusi nella popolazione), ma è, almeno in parte, una variabile dipendente, se si considera che un orientamento prosociale può concretizzarsi in disponibilità effettiva di risorsa sociale extra mercato, o rimanere latente. Il passaggio dal condizionale (“sarei anche disposto ad agire…”) all’indicativo (“agisco”) si verifica nella misura in cui vi è aspettativa di concreta utilità del proprio impegno (Marocchi, 1997). In questo senso, quelle che qui abbiamo accomunato sotto il nome di “risorse extra mercato” (giacché si vuole sottolineare come, da un punto di vista economico, costituiscano un fattore di produzione specifico che determina il differenziale a vantaggio delle imprese sociali rispetto alle altre imprese) sono inquadrabili, per dirla con Polanyi (1974), come elementi inseriti in una logica di reciprocità, dove l’aspettativa principale di “restituzione” è rappresentata da un insieme di elementi immateriali come la constatazione del buon utilizzo e dell’utilità della disponibilità offerta, oltre che ad aspetti quali il poter estrinsecare la propria creatività, di veder valorizzate e apprezzate le proprie capacità, di essere inseriti in sistemi di relazione gratificanti, ecc.

5. Frutti avvelenati?

Ma in questo discorso, non bisogna nasconderselo, accanto alla ricetta per poter proporre alla comunità quello che il mercato non contempla, vi è più di un frutto avvelenato.

Il primo è connesso alla sgradevole sensazione, da parte di molte imprese sociali, che discorsi come questi le rigettino in un passato pre imprenditoriale, che facciano venire meno la tensione all’efficacia di impresa con tanta fatica conquistata; ovviamente questa perplessità è fondata, nella misura in cui le risorse extra mercato non servano a conquistare nuovi spazi di equità, ma a compensare inefficienze. Se l’evocazione di risorse extra mercato – la disponibilità dei genitori di collaborare alle attività che la cooperativa attua per i propri figli disabili, la disponibilità di acquirenti fidelizzati ad acquistare quanto in tali contesti si produce – ha come esito la vendita semi forzata di manufatti di scarso pregio o il galleggiamento di imprese mal organizzate, mal attrezzate e poco dinamiche, non si sta costruendo molto. Le risorse extra mercato debbono consentire di superare i limiti del mercato, non di bilanciare le inefficienze e le inadeguatezze. Ma molto spesso gli stessi imprenditori sociali, non cogliendo questa sottile ma decisiva differenza, fanno della capacità di condurre la propria impresa in assenza di risorse extra mercato un punto di orgoglio, l’attestazione di essere effettivamente riusciti a conseguire l’eccellenza di impresa, di non avere nulla da invidiare ad altri imprenditori; e così facendo quasi senza avvedersene si riducono ad offrire un prodotto non dissimile a quello realizzabile dal mercato. Non colgono come invece l’integrazione efficace delle risorse di mercato sia un processo delicato e complesso, che include elementi tecnici, organizzativi, valoriali che debbono essere ben assortiti e coordinati; che implica capacità di relazione e dialogo con il territorio, leadership culturale, capacità comunicativa, stili organizzativi non standard. Bisogna essere imprenditori eccellenti, per saper trasformare le disponibilità extra mercato in equità sociale; chi non è eccellente in questa capacità con ogni probabilità non intercetterà queste risorse, e, nel caso se le trovasse nei pressi, non saprebbe cosa farne: chiederebbe al volontario di rispondere al telefono o di fare fotocopie, quasi considerandolo un peso o utilizzerebbe la donazione occasionalmente ricevuta per chiudere un buco di mala gestione dell’anno precedente.

Il secondo punto è forse ancor più delicato. Soprattutto alcune delle risorse elencate attirano su di sé sospetti imbarazzanti. L’operatore che sta lavorando un numero indefinibile di ore senza chiedere retribuzione aggiuntiva è un consapevole altruista, un imprenditore sociale partecipe che sta investendo sulla costruzione di un progetto comune, un dipendente che cerca suo malgrado di salvare il proprio posto di lavoro pericolante, o un lavoratore sfruttato, obbligato a farlo se non per minaccia perché “qui tutti devono fare così”? È evidente che la risposta a questa domanda non è affatto neutra nella valutazione dell’operato di un’impresa sociale, con la complicazione che spesso discernere tra le diverse situazioni non è semplice: non vi sarebbe da stupirsi se nella stessa impresa sociale, in un medesimo ambiente di lavoro, vi fossero persone che stanno facendo la stessa cosa vivendola in ciascuno di questi quattro modi diversi.

Va comunque considerato che non tutte le risorse prima elencate hanno la stessa valenza, anche se tutte possono essere in qualche modo parte di un orientamento complessivo a superare le limitazioni di un approccio di mercato. Un’impresa sociale che abbia come unica risorsa extra mercato il superiore effort dei propri lavoratori, soprattutto se ciò non si configura come situazione iniziale per dar vita ad un nuovo progetto, ma come condizioni strutturale, è sicuramente più esposta a situazioni ambigue come quelle sopra richiamate rispetto ad una che può contare su un ampio e diffuso sostegno comunitario.

Pur senza concludere che alcune tra le risorse extra mercato siano intrinsecamente migliori di altre, è quindi bene non trascurare di interrogarsi, quando si studia un caso concreto, sulla effettiva valenza dei diversi fenomeni, nella consapevolezza che taluni costituiscono il cuore della virtuosa specificità delle imprese sociali, altri no. Ma tali legittime prudenze non debbono essere motivo del disconoscimento di quanto le risorse extra mercato – generalmente, un ampio mix delle stesse – siano e possano essere la effettiva leva che differenzia le imprese sociali dalle altre imprese e che consente loro di realizzare un prodotto sociale altrimenti inarrivabile.

6. Indicazioni per le strategie di impresa e per le policy

E di qui qualche indicazione per le strategie di impresa e per le policy. Che, alla luce di quanto affermato, vanno radicalmente riviste, tanto in termini di indirizzi e orientamenti dei protagonisti dell’imprenditorialità sociale, quanto rispetto alle politiche pubbliche.

Nell’ultimo decennio, infatti, hanno decisamente prevalso misure strutturate intorno all’obiettivo di rendere le imprese sociali tanto innovative, efficienti, manageriali come lo sono le imprese for profit, eventualmente promuovendo dei punti di contatto tra i due mondi. Le imprese sociali debbono diventare appetibili per gli investitori, ibridarsi con il profit, acquisirne i dirigenti: tutto a partire dal presupposto che il punto dolente delle imprese sociali, il nodo da affrontare e risolvere, sia appunto un gap di efficienza, produttività e innovatività rispetto alle imprese for profit.

L’ipotesi dell’esistenza di questo gap si basa su alcune congetture non di per sé irragionevoli: si potrebbe presupporre che chi giunge alla determinazione di dar vita ad una impresa sulla base di un’istanza sociale e valoriale sia originariamente poco incline a concentrarsi su aspetti manageriali, creando così organizzazioni in cui si profonde buona volontà, ma scarsamente efficienti, poco avvezze all’investimento, poco capaci di misurarsi con il mercato.

Il fatto è che, in primo luogo, tali ipotesi non appaiono corroborate da dati; anzi, le evidenze esistenti segnalano tendenze opposte. Certamente una maggiore qualità di impresa è un bene, ma l’idea che l’impresa sociale sia fragile, sottocapitalizzata, conservativa, inefficiente non trova riscontri empirici (Borzaga, 2018). Esistono imprese sociali eccellenti e fragili così come avviene tra le imprese for profit, anzi, semmai i dati sulla resilienza alla crisi – quantomeno, si intende, quella del 2008-2014; su quella attuale, si vedrà – sembrano documentare performance migliori delle imprese sociali rispetto al resto del sistema economico. E la maggior parte dei limiti che sono attribuiti alle imprese sociali non sono diversi da quelli delle piccole e medie imprese. Ovviamente può essere auspicabile migliorare ulteriormente gli aspetti gestionali; ma è invece – e questo è il secondo punto – assai pericoloso l’assunto che ciò debba essere fatto assomigliando quanto più possibile alle imprese for profit, assunte come benchmark di innovazione e dinamicità; l’impresa sociale che ne scaturisce, fascinata da ibridazioni, finanza e managerialità, appare poco concentrata sullo sviluppare la capacità di suscitare e integrare nel suo ciclo produttivo le risorse extra mercato. E alla fine incontra serie difficoltà a dare risposte non retoriche, ma economicamente fondate sugli effettivi elementi che la distinguono dall’impresa for profit e quindi alla necessità di creare equità oltre a quanto il mercato riesce a fare.

Al contrario, intercettare risorse extra mercato, contribuire a suscitarle laddove siano assenti o latenti e, una volta che ci sono, sapere cosa farsene, sono elementi per nulla scontati che richiedono orientamenti culturali, scelte organizzative, profili dirigenziali ben definiti; e che implicano una costante manutenzione affinché ciò sia protratto e ripetuto nel tempo, giacché le disponibilità extra mercato vanno conquistate e riconquistate giorno per giorno. Insomma, sono orientamenti che richiederebbero policy specifiche e strategie consapevoli tanto entro l’impresa sociale, quanto a livello di programmi di sostegno di enti pubblici e soggetti filantropici.

La prima direzione in cui lavorare è pertanto l’investimento in un rapporto non occasionale con il proprio contesto di riferimento, sia esso territoriale (come avviene nella maggior parte dei casi) o elettivo (una comunità extraterritoriale composta da soggetti che condividono un determinato problema o aspirazione). Tale contesto di riferimento è un vero e proprio terreno di investimento, con cui l’impresa sociale attua interazioni significative secondo meccanismi prevalenti di reciprocità prima ancora che di mercato.

Per riuscire in tale intento, non solo per evitare sudditanze culturali verso il for profit, ma anche per motivi sostanziali, l’impresa sociale deve allontanarsi con decisione – anche nelle proprie scelte terminologiche – da un sistema di pensiero che inquadra il contesto di riferimento come “target”, “mercato” e simili o che considera “marketing” l’interloquire con le persone del proprio territorio per coinvolgerle nella propria azione[3]; tale frasario è accolto dalle imprese sociali come segno della capacità di confrontarsi con premesse neutrali e in modo a-valutativo, ma introduce un virus insidioso, che dalle parole quasi inconsapevolmente passa al modo di pensare e di agire.

Il contesto di riferimento territoriale o elettivo è invece il luogo da cui l’impresa sociale trae valori, orientamenti, persone, risorse: tutti elementi che integra imprenditorialmente e trasforma in prodotti utili per il contesto stesso, entro un rapporto di interlocuzione e negoziazione continua; l’impresa sociale è espressione imprenditoriale di quel contesto di riferimento e individua il primo investimento proprio nel coltivare la specialità di quel rapporto. Per fare un esempio, non “raccoglie rifiuti”, ma lavora insieme alla propria comunità per migliorare l’ambiente in cui vive; e in questo senso può essere altrettanto utile l’investimento in un nuovo automezzo per la raccolta o nella promozione di un ciclo di incontri sul tema della raccolta differenziata con i cittadini; e quindi, a ben vedere, può essere altrettanto utile – sempre, si intende, anche da un punto di vista imprenditoriale e del ritorno anche in termini di sostenibilità economica – dedicarsi a mettere a punto strumenti finanziari o aprire la propria sede alle associazioni del territorio perché vi si rechino per le proprie assemblee. Insomma, il modo di inquadrare l’azione imprenditoriale va ripensato per essere inserito in un quadro di dialogo e interscambio con i propri stakeholder che abbia una grammatica diversa da quella propria delle imprese for profit.

Quanti programmi di sostegno all’impresa sociale, negli ultimi dieci anni, si sono arrovellati sul promuovere l’adozione di strumenti finanziari (peraltro piuttosto improbabili), e quanti invece riconoscono come decisivo (e quindi degno di cofinanziamento) un progetto, per riprendere l’esempio precedente, teso a fare della propria sede un centro di incontro frequentato dagli abitanti del quartiere? Quanti soldi sono stati spesi dalle imprese sociali e dai loro sostenitori per contorti progetti di social innovation o per app di incontro domanda-offerta mai divenute operative, anziché in iniziative di coinvolgimento attivo nelle attività di impresa dei cittadini del territorio?

E, va detto, le imprese sociali stesse, quando si dedicano ad attività di relazione con il proprio territorio, spesso ne hanno una visione limitata: ne riconoscono valenze positive laddove si tratti di progettare interventi a servizio dei cittadini (interventi nei quali, immancabilmente, bisogna “coinvolgere il territorio”), ma non ne intravvedono il carattere fondamentale nei propri meccanismi di sostenibilità di impresa. Regalare la propria sede a cittadini e associazioni per le feste di quartiere non è solo un’azione generosa, ma è parte integrante di una relazione peculiare – inaccessibile alle imprese for profit – di continuo interscambio, che fa affluire all’impresa sociale disponibilità e risorse; risorse che poi bisogna inserire in modo strutturale nella propria operatività di impresa, affinché contribuiscano ad affrontare in modo dirompente il dilemma dell’equità.

Un cittadino che si offra di “dare una mano”, una associazione che si dichiari disponibile a collaborare, una parrocchia che ceda volentieri i propri spazi, rischiano infatti di essere, nell’impresa sociale sedotta dal verbo della managerialità, difficilmente inquadrabili nell’organizzazione delle attività. Sono problemi da gestire e non risorse, non si sa cosa farsene, in altre parole. È necessario un cambio di mentalità specifico, un ripensamento organizzativo consapevole, per intravvedere in ciò delle opportunità operative, in taluni casi dirette, in taluni casi laterali rispetto all’attività a quel momento svolta, ma parte comunque dell’interscambio che caratterizza le imprese sociali, al fine di forzare in senso inclusivo i limiti che la sostenibilità impone alla ricerca di equità. E la capacità di integrare gli interscambi nella propria azione genera a sua volta ulteriori disponibilità, in un circolo virtuoso che si autoalimenta.

Conclusioni

Il discorso si è articolato a partire da una riflessione sulle teorie prevalenti, evidenziando come taluni spunti in esse presenti necessitino di essere sviluppati ulteriormente laddove si voglia essere in grado di rispondere alla domanda, solo apparentemente semplice, dalla quale si è partiti, relativa a motivi per cui l’impresa sociale dovrebbe essere in grado di realizzare meglio di altri soggetti azioni di interesse generale.

L’esito di tale percorso non ha portato a contrapporsi a tali teorie, ma a cercare di completarle, ponendosi ad esse in modo complementare. Con riferimento alle teorie che individuano la non distribuzione degli utili come fattore dirimente, è effettivamente ragionevole pensare che uno stakeholder sia disponibile ad apportare risorse extra mercato solo laddove ciò non si risolva in un’appropriazione di profitto da parte di azionisti, ma nell’effettivo perseguimento della finalità sociale che lo muove. Rispetto alle teorie fondate sulla partecipazione degli stakeholder, si può senz’altro convenire sul fatto che una governance che coinvolga gli stakeholder nelle basi sociali e degli organi direzionali favorisca un loro impegno diretto nell’apportare risorse e nel gestirle in funzione di un obiettivo di equità, giacché così possono contribuire a indirizzarne e controllarne l’utilizzo. Ma dobbiamo al tempo stesso essere consapevoli che gli elementi che, secondo le teorie prevalenti, caratterizzano le imprese sociali si pongono come condizioni necessarie ma non sufficienti alla 1) messa a disposizione e 2) alla adeguata integrazione nel processo di produzione delle risorse extra mercato decisive per creare un differenziale con le imprese for profit. Sono cioè necessari, si è argomentato in queste pagine, ulteriori passaggi affinché un potenziale apporto extra mercato diventi effettivo e affinché i contesti ove esso è reso disponibile siano in grado di tradurlo al meglio in reale azione di interesse generale, capace di raggiungere anche destinatari altrimenti esclusi.

E allora, come evidenziato nella seconda parte di questo scritto, forse è proprio sull’aspetto delle ricadute di policy e sulle strategie di impresa che è opportuno concentrarsi.

Perché se quanto qui detto è vero, una parte consistente dei modelli di business, delle strategie di impresa comunemente predicati e delle politiche adottate nell’ultimo decennio, sono da ripensare profondamene, così come lo è il pensiero che ha orientato la cultura prevalente sia tra gli osservatori, che tra gli stessi imprenditori sociali, dove in questi anni ricorre il rischio di un’accettazione acritica e isomorfica dei modelli di impresa diffusi nel for profit e una perdita del significato peculiare dell’imprenditorialità sociale e con esso dei vantaggi competitivi che esso potrebbe portare con sé.

Il tema dell’equità è stato via via assorbito – tra chi parla e scrive, anche se non per fortuna nelle prassi operative di moltissime imprese sociali – da altre priorità, rimandato alle scelte allocative del soggetto pubblico o a quanto il mercato consenta. L’imprenditore sociale riluttante, che, pur non riuscendo a formalizzare un pensiero compiuto, intuisce sulla base del suo operato quotidiano di avere “qualcosa di diverso” dalle altre imprese, è richiamato all’ordine, convinto ad abbracciare managerialità, appetibilità per la finanza, tecnologie, mentre la capacità di suscitare e organizzare in modo imprenditoriale risorse extra mercato, l’elemento che fa la differenza, è utilizzato per lo più come contorno di colore alla narrazione mediatica, senza però metterne a fuoco la pregnanza decisiva nel caratterizzare l’azione di impresa e la sostenibilità.

Di qui l’urgenza di rimettere questo discorso al centro della riflessione e di sviluppare politiche e strategie coerenti.

DOI: 10.7425/IS.2020.02.01

Bibliografia

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Note

  1. ^ Tra i suoi molti contributi che incrociano il tema, Luca Fazzi, Terzo settore e nuovo welfare in Italia, Franco Angeli, 2013; Luca Fazzi, Imprenditori sociali innovatori. Casi di studio nel terzo settore, Franco Angeli, 2015 e il recente Luca Fazzi, Costruire l'innovazione nelle imprese sociali e nel terzo settore, Franco Angeli, 2019. Nell’ultimo dei libri qui citati l’autore evidenzia come elemento problematico della cultura dell’impresa sociale sia avere sviluppato una cultura dell’innovazione che spesso perde di vista il tema della giustizia sociale: la “subordinazione culturale del mondo della solidarietà e della giustizia a quello del denaro e del potere economico” e “l’incontro con le nuove ideologie di mercato avviene … in un contesto storico e valoriale per certi versi molto fragile dove i valori dell’inclusione e della giustizia sociale come obiettivi prioritari dell’agire organizzativo rischiano di essere messi nella pratica in seria discussione…”.
  2. ^ Gli autori evidenziano (pag. 223-226) come possa verificarsi una “difficoltà a raggiungere l’equilibrio tra domanda ed offerta privata for-profit di servizi di utilità sociale” e che ciò vada spiegato con la “impossibilità per molti consumatori … di acquistare questi servizi all’eventuale prezzo di mercato”; a fronte di ciò viene sottolineata la “… possibilità che le organizzazioni non profit possano sorgere con l’obiettivo di modificare la distribuzione di reddito tutte le volte che quella esistente non è ritenuta, da un gruppo sufficiente di agenti, conforme alla loro funzione di preferenza sociale.”
  3. ^ Per fare un esempio (in negativo), si può constatare, da una rapida ricerca sul web come in alcuni ambiti, come quello della raccolta fondi, sia culturalmente diffusissimo l’utilizzo di una strumentazione culturale e di modelli comunicativi acriticamente importata dal for profit.
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