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ISSN 2282-1694
Tempo di lettura: 
Argomento:  Comunicazione
data:  07 dicembre 2025

Oltre la comunicazione del bene: il podcast come nuova narrazione sociale

Michele Scaffidi

Dalla comunicazione che informa alla comunicazione che educa; dalla comunicazione che mostra alla comunicazione che fa pensare; dalla comunicazione che celebra alla comunicazione che interroga: un invito al Terzo settore ad adottare forme narrative più aperte, umane e coraggiose.


Le riflessioni che seguono nascono anche dall’esperienza diretta dell’autore nella sperimentazione di linguaggi narrativi applicati ai temi sociali. In particolare, alcuni dei concetti discussi trovano applicazione pratica nell’uso del podcast come strumento di narrazione pubblica, di ascolto profondo e di sensibilizzazione, ambito nel quale l’autore conduce una propria ricerca. Una di queste sperimentazioni è rappresentata dal progetto Vite in corso, richiamato in nota.

Negli ultimi anni, anche il mondo del Terzo Settore ha compreso l’importanza strategica della comunicazione. Cooperative, fondazioni e imprese sociali hanno moltiplicato la loro presenza sui canali digitali, cercando di raccontare progetti, esperienze e risultati. Tuttavia, nonostante l’impegno crescente, l’impatto di questi contenuti rimane spesso limitato. Video e post a tema socio-educativo raramente superano poche migliaia di visualizzazioni e, nella maggior parte dei casi, restano confinati a un pubblico di addetti ai lavori.

Sembra quasi che il sociale parli soprattutto al sociale: una “eco-chamber” virtuosa ma chiusa, dove operatori, educatori e ricercatori si scambiano linguaggi e valori comuni, mentre la società civile — quella che non vive quotidianamente il lavoro di cura e di prossimità — resta ai margini dell’ascolto. Questa dinamica rischia di indebolire proprio quella funzione di mediazione culturale che dovrebbe caratterizzare l’agire sociale nelle comunità.

Questo fenomeno non è casuale. Dipende in parte dal modello di comunicazione informativa che ha dominato il settore negli ultimi vent’anni: la necessità di rendicontare, testimoniare, mostrare l’impatto dei progetti. Una comunicazione legittima, certo, ma che raramente riesce a generare coinvolgimento emotivo o partecipazione sociale. Come ricorda Jürgen Habermas (1981), la comunicazione autentica non si limita a trasmettere informazioni, ma costruisce senso condiviso. In molti casi, invece, la comunicazione del sociale si ferma al primo livello: illustra ciò che fa, ma non riesce a far percepire perché lo fa, che cosa significa per le persone coinvolte e per chi dovremmo sentirci corresponsabili.

In questo quadro, diventa evidente una tensione irrisolta: i servizi sociali e le imprese sociali vivono di relazioni, ma si raccontano spesso attraverso linguaggi tecnici e formali, incapaci di restituire la densità umana delle esperienze che attraversano. La forma — per riprendere Marshall McLuhan — finisce per tradire il contenuto, rendendolo debole e poco incisivo. Se il Terzo Settore adotta linguaggi istituzionali in spazi, come i social media, costruiti per immediatezza, profondità emotiva e identificazione, rischia di risultare invisibile.

Henry Jenkins (2013) ha mostrato come i contenuti non si diffondano per la loro qualità intrinseca, ma per la loro partecipabilità: devono suscitare emozioni, riconoscimento, desiderio di condivisione. Manuel Castells (2009) aggiunge che il potere comunicativo, nella società in rete, appartiene a chi riesce a costruire “frame emotivi condivisibili”. Il Terzo Settore, pur ricco di storie significative, fatica invece a trasformarle in narrazioni capaci di parlare a pubblici eterogenei. Non si tratta di spettacolarizzare la fragilità, ma di riconoscere che la complessità sociale non può essere restituita attraverso comunicati sintetici, fotografie simboliche o racconti “edificanti” di successo educativo.

Si apre così uno spazio nuovo: quello della narrazione sociale. Una narrazione che non mira semplicemente a raccontare un progetto o a valorizzare un ente, ma a restituire il senso umano e collettivo delle vite incontrate. Diversamente dalla comunicazione informativa, la narrazione non spiega ma evoca; non dichiara, ma coinvolge. Duccio Demetrio (1996) la definisce una forma di conoscenza: un modo per comprendere sé stessi e il mondo attraverso il racconto. Paulo Freire (1970) la descrive come atto di liberazione: la parola, quando è ascoltata, diventa strumento di coscientizzazione e di riappropriazione della propria storia.

Trasportate nel contesto dei media digitali, queste teorie acquistano nuova forza. Henry Giroux (2004) parla di public pedagogy per descrivere le forme di educazione che avvengono nello spazio pubblico: nei media, nella cultura, nelle pratiche discorsive contemporanee. Se la cittadinanza si forma anche attraverso ciò che ascolta e ciò che vede, allora il Terzo Settore ha una responsabilità narrativa che va ben oltre la promozione dei propri servizi: deve contribuire a costruire immaginari sociali più complessi, capaci di contrastare lo stigma, l’indifferenza e le semplificazioni.

In questo senso, la rete può diventare — come suggerisce Rivoltella — una piazza educativa diffusa, uno spazio dove le persone entrano in relazione non solo attraverso informazioni, ma attraverso simboli, storie, interpretazioni della realtà. Tuttavia, perché ciò accada, è necessario che il linguaggio del sociale si apra all’emozione, all’ambiguità, al dubbio; che rinunci alla retorica della “buona azione” per accogliere la complessità, la caduta, la trasformazione, le zone grigie che caratterizzano ogni percorso umano.

La voce — come linguaggio primario, intimo, corporeo — rappresenta oggi uno degli strumenti più efficaci per questo tipo di narrazione. Le forme audio, e in particolare i podcast narrativi, favoriscono un ascolto lento e immersivo, in contrasto con la velocità dei flussi digitali. La voce obbliga a fermarsi, ad ascoltare anche ciò che non è detto: un’esitazione, un respiro, un’interruzione. Sono elementi minimi ma potentissimi, che riportano al centro l’esperienza umana, al di là dei filtri della comunicazione istituzionale.

Per questo le narrazioni audio rappresentano un esempio concreto di innovazione comunicativa a impatto sociale: sono strumenti accessibili, replicabili, in grado di raggiungere pubblici che il Terzo Settore fatica tradizionalmente a intercettare. Il loro valore non risiede soltanto nelle storie raccontate, ma nel processo pedagogico implicito che attivano: trasformare esperienze individuali in patrimoni collettivi di senso, creando legami nuovi tra chi parla e chi ascolta.

In un’epoca in cui la fiducia nei servizi e nelle istituzioni è fragile, la narrazione autentica può restituire credibilità e legittimità al lavoro sociale. Ma per farlo, è necessario un cambio di prospettiva: dalla comunicazione che informa alla comunicazione che educa; dalla comunicazione che mostra alla comunicazione che fa pensare; dalla comunicazione che celebra alla comunicazione che interroga.
Solo così la parola del sociale può tornare a essere ciò che dovrebbe essere: una parola che genera legami, produce comprensione, costruisce cittadinanza. Una parola che riconsegna alle storie — specie quelle più fragili — la dignità del loro essere, prima di tutto, vite: complesse, imperfette, e proprio per questo capaci di restituire all’intera società un’immagine più onesta di sé.

Se il Terzo Settore saprà ripensare i propri linguaggi, adottando forme narrative più aperte, più umane e più coraggiose, potrà non solo migliorare il proprio rapporto con la cittadinanza, ma contribuire a un cambiamento culturale più ampio: uno sguardo nuovo sulla fragilità e sulla responsabilità collettiva. In questo passaggio — ancora tutto da costruire — risiede forse la possibilità di una comunicazione sociale davvero generativa: una comunicazione che non si limita a raccontare ciò che accade, ma che trasforma chi ascolta.

 

Bibliografia
Barone, M. (2019). Narrazione civica. Raccontare per partecipare. Roma: Carocci.
Castells, M. (2009). Communication Power. Oxford: Oxford University Press.
Demetrio, D. (1996). Raccontarsi. Milano: Raffaello Cortina.
Freire, P. (1970). La pedagogia degli oppressi. Torino: EGA.
Giroux, H. (2004). Public Pedagogy and the Politics of Neoliberalism. Policy Futures in Education, 2(3–4), 494–503.
Habermas, J. (1981). Teoria dell’agire comunicativo. Bologna: Il Mulino.
Jenkins, H., Ford, S., Green, J. (2013). Spreadable Media. NYU Press.
McLuhan, M. (1964). Understanding Media. McGraw-Hill.
Milani, P. (2006). Le parole per educare. Erickson.
Pariser, E. (2011). The Filter Bubble. Penguin Press.
Rivoltella, P. C. (2015). Media Education. La Scuola.
Sunstein, C. R. (2001). Republic.com. Princeton University Press.

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Michele Scaffidi

Michele Scaffidi è sociologo ed educatore professionale socio-pedagogico. Da oltre quindici anni opera nell’ambito penale minorile e nei servizi sociali territoriali, occupandosi di presa in carico educativa, consulenza e formazione per enti del Terzo Settore. Conduce attività di ricerca e sperimentazione nell’ambito della narrazione sociale in formato podcast, tra cui il progetto Vite in corso, reperibile al link http://www.youtube.com/@ViteinCorso e sulle principali piattaforme di streaming audio: Spotify, Google Podcast, Amazon Music/Audible, Apple Podcast.

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