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ISSN 2282-1694
Tempo di lettura:  12 minuti
Argomento:  Esperienze
data:  19 settembre 2020

Da attori (non protagonisti) a co-registi

Andrea Campinoti, Marco Peruzzi

Il Consorzio Coeso Empoli condivide le motivazioni che lo hanno portato ad impegnarsi nella promozione del Distretto di Economia Civile insieme ad altre 25 organizzazioni di Terzo settore e del tessuto sociale e produttivo: collocare l'impresa sociale al centro delle strategie di sviluppo della comunità.


Introduzione

Perché un’impresa sociale dovrebbe collocarsi al centro delle strategie di sviluppo di una comunità? Se tale questione può apparire in prima battuta paradossale o inessenziale, il percorso che stiamo conducendo come Consorzio Coeso Empoli invece ci sta sempre di più convincendo che la risposta positiva a tale domanda risulta, oggi più che mai, essenziale e necessaria per il futuro dell’impresa sociale.

È importante evidenziare come questa esigenza non sia diretta conseguenza di quanto espressamente previsto dal quadro normativo disposto dal Dlgs 112 del 2017 e dalla Legge 381/91. Nella disciplina infatti viene stabilito espressamente che le imprese sociali (comprese le cooperative sociali) perseguono l’interesse generale della comunità attraverso la realizzazione di alcune e ben definite attività oppure garantendo l’inserimento lavorativo a persone svantaggiate, non attraverso un loro contributo nella definizione e nel perseguimento di una strategia di costruzione di una comunità più coesa, inclusiva e sostenibile. Ora, è evidente che a questa considerazione si può obiettare che anche la semplice realizzazione delle attività previste per le imprese e cooperative sociali è di per sé un contributo determinante in tal senso, ma la verità è che quanto accaduto in questi ultimi anni pare mostrare che non sia proprio così. Anzi tutta una serie di traiettorie e dinamiche sta lì a indicarci come, nonostante dagli anni Ottanta a oggi sia andata crescendo la rilevanza numerica della Cooperazione sociale (la gran parte dell’impresa sociale che esiste) - sia in termini di addetti, che di servizi erogati, che di fatturato - in generale le comunità in cui operiamo oggi non sono divenute più coese e inclusive di quanto lo fossero quaranta anni fa. Se un contributo c’è stato, come c’è stato, pare corretto affermare che esso ha al più limitato gli effetti delle tendenze alla disgregazione e all’esclusione nel vissuto e nelle esperienze di tante persone – cosa di per sé già importante e meritoria - ma non è riuscito a ‘segnare’ in maniera determinante la comunità in senso generale, nelle sue aspirazioni, nei suoi modelli di convivenza, nel suo sistema relazionale. È di questo invece che abbiamo bisogno.

Ne abbiamo bisogno per tre motivi fondamentali: a) le attività educative e di cura che conduciamo, i percorsi di inserimento lavorativo che realizziamo, difficilmente riescono a essere realmente efficaci o a incidere significativamente sul benessere della persone, se condotti in un contesto comunitario avverso o indifferente; b) la nostra professionalità, competenza, passione, vengono costantemente depauperate se nell’immaginario collettivo ciò che conta e viene valutato è esclusivamente il prezzo della prestazione, sia nel settore degli appalti pubblici che nel mercato privato; c) le risorse latenti che albergano nella comunità, nei termini di capacità e abilità di cui sono portatori tutti i suoi componenti, se riattivate nel segno della mutualità e della reciprocità, possono contribuire in maniera determinante per far fronte ai bisogni e alle necessità che la segnano, oltre a migliorare in via generale il tasso di benessere della comunità stessa[1] e dunque anche contribuire ad un ecosistema più favorevole all’impresa sociale ed al suo operato.

In questa lettura del contesto generale in cui operiamo è maturata la convinzione che, come Consorzio di Cooperative Sociali, fosse necessario provare a battere nuove strade per contribuire alla definizione e realizzazione di azioni volte a cambiare il paradigma economico e sociale che si è perseguito, consapevolmente o meno, fino ad ora. In tal senso il primo passo da compiere era evidente: non essere più attori – ancorché non protagonisti - di un copione scritto da altri, ma provare ad essere noi stessi co-autori e co-registi delle scelte strategiche che riguardano la comunità. E farlo a partire dai valori, dai principi, dal patrimonio di esperienza, professionalità e passioni di cui siamo portatori, per fare di questi un effettivo ‘bene comune’. Occorreva porsi al centro delle strategie di sviluppo della comunità, sia per ciò che siamo per ‘costituzione’, sia per il contributo che possiamo dare ai tanti e nuovi bisogni che sono espressi dalle persone, sia per fare meglio e con più efficacia quanto abbiamo fatto sino ad oggi, sia per contribuire alla nascita di nuove opportunità economiche.

Le difficoltà sempre maggiori a rispondere ai bisogni espressi dalle persone, la scarsa propensione a far nascere nuove cooperative sociali o a coinvolgere i giovani nella direzione di quelle esistenti, la riduzione dei margini operativi, la minima capacità di produrre percorsi di innovazione sociale o di intercettare le opportunità che potrebbero venire dagli sviluppi della tecnologia e dalla digitalizzazione, non sono casuali, ma frutto di un percorso di cui noi siamo stati attori non protagonisti, anche se questo non fa venir meno alcune nostre corresponsabilità.

Come Coeso Empoli ci siamo a mano a mano convinti che per invertire queste tendenze, cambiare, innovarci, occorreva allo stesso tempo innescare nella comunità processi che guardassero a un nuovo modello di sviluppo, così da andare a generare pian piano un ecosistema più resiliente per la buona cooperazione sociale che c’è e che potrà esserci a servizio della comunità. La sensazione è infatti che difficilmente i processi di innovazione (che siano di prodotto, di modello organizzativo, di carattere globale) che possiamo generare all’interno della singola cooperativa aderente o del Consorzio, potranno essere efficaci e condurre a significativi risultati, se non saranno inseriti anche in un nuovo contesto relazionale e valoriale della comunità di appartenenza. Il tutto nella consapevolezza che da questo potrebbe passare anche una evoluzione del ruolo stesso del Consorzio nei confronti della comunità, del terzo settore sul territorio, delle associate e delle federazioni di rappresentanza. Innescare e contribuire a processi esogeni ai contesti in cui operiamo usualmente infatti richiede la messa in campo di competenze e abilità di cui non siamo ‘naturalmente’ portatori – che dunque devono essere acquisiste, coltivate e sostenute con la necessaria determinazione -. Il Consorzio può costituire l’ambiente giusto per sostenere questo processo di crescita, oltre a garantire una capacità operativa e organizzativa adeguata sia nei termini delle risorse che devono essere investite in questi processi, che per la capacità di generare un soddisfacente impatto di questi nella comunità che si abita.

Per raccontare come siamo pervenuti a queste convinzioni e conseguentemente alla determinazione di sostenere da protagonisti la nascita del cantiere del Distretto di Economia Civile di Empoli, partiremo da una breve riflessione rispetto all’esigenza da cui siamo partiti: come un’impresa sociale può densificare il suo sistema relazionale, anche al fine di sostenere efficacemente il proprio modello di impresa, e su come questo possa avvenire in maniera credibile e convincente all’interno dei contesti comunitari. Successivamente illustreremo come siamo pervenuti a ritenere l’economia civile come il paradigma adeguato su cui fondare il nostro cammino e nello specifico come il modello del distretto, inserito in questo paradigma, ha costituito un ambiente corrispondente alle aspettative e alle esigenze operative che ci eravamo posti. Infine, accenneremo a come il percorso fatto fin qui e ciò che da questo sta emergendo stiano generando scenari estremamente interessanti sia per le nostre comunità, che per il Consorzio Coeso Empoli e le Cooperative sociali a questo aderenti, che si trovano a svolgere un ruolo inedito: essere co-protagonisti di scelte fondamentali per contribuire a rafforzare e irrobustire un nuovo modello di sviluppo della comunità.

La relazione, una risorsa essenziale per l’impresa sociale, un bene comune

Il nostro percorso è iniziato con l’acquisizione della consapevolezza che la ricerca esasperata di un futuro per la cooperazione sociale che passasse esclusivamente dall’aderire ai modelli di business dell’impresa for profit, peraltro in maniera acritica, fosse una strada foriera solo di sventure, anche sotto il profilo aziendale. Ma come andare oltre? Per spiegare un travaglio che al nostro interno è durato e dura da anni, può essere utile farsi aiutare (anche a fini esplicativi) da quanto scritto da Gianfranco Marocchi nel numero 2/2020 di Impresa Sociale. In questo scritto l’autore ci invita a ripensare profondamente i modelli di business e delle strategie adottati da molte imprese sociali negli ultimi anni, molte volte frutto di “un’accettazione acritica e isomorfica dei modelli di impresa diffusi nel for profit e una perdita del significato peculiare dell’imprenditorialità sociale e con esso dei vantaggi competitivi che esso potrebbe portare con sé”. Il riferimento diretto ed esplicito è a tutte quelle risorse relazionali e di sistema – a livello locale e di elezione - che un’impresa sociale può attivare e di cui può nutrire anche il proprio modello di business. “La prima direzione in cui lavorare è pertanto l’investimento in un rapporto non occasionale con il proprio contesto di riferimento, sia esso territoriale (come avviene nella maggior parte dei casi) o elettivo (una comunità extraterritoriale composta da soggetti che condividono un determinato problema o aspirazione). Tale contesto di riferimento è un vero e proprio terreno di investimento, con cui l’impresa sociale attua le sue interazioni significative secondo meccanismi prevalenti di reciprocità prima ancora che di mercato”. Azione che, per essere incisiva e efficace, non può essere condotta né occasionalmente né senza una precisa consapevolezza “intercettare risorse extra mercato, contribuire a suscitarle laddove siano assenti o latenti e, una volta che ci sono, sapere cosa farsene, sono elementi per nulla scontati che richiedono orientamenti culturali, scelte organizzative, profili dirigenziali ben definiti e che implicano una costante manutenzione affinché ciò sia protratto e ripetuto nel tempo, giacché le disponibilità extra mercato vanno conquistate e riconquistate giorno per giorno. Insomma, sono orientamenti che richiederebbero policy specifiche e strategie consapevoli tanto entro l’impresa sociale, quanto a livello di sostegno di enti pubblici e soggetti filantropici”.

A queste considerazioni (chiaramente al nostro interno non espresse in maniera elaborata e sintetica come fatto da Marocchi in questo saggio) peraltro occorreva aggiungere un’altra questione assolutamente decisiva, almeno ai nostri occhi.

La densificazione del sistema relazionale di un’impresa sociale, ancorché non immediatamente legato a un risvolto imprenditoriale, come viene vissuto esternamente? Non vi è dubbio che un’azione condotta con intelligenza e continuità da parte di un’impresa sociale, soprattutto nel caso di una cooperativa sociale, riesca efficacemente a mostrare l’utilità della propria esistenza e azione per la comunità di riferimento. Ma il tema è: rispetto a quanti soggetti riesce a farlo? L’impressione è che, tra una tendenza a una certa autoreferenzialità, che ormai contraddistingue molte organizzazioni del terzo settore, una accresciuta diffidenza nei confronti del comparto da parte di molti concittadini, che lo percepiscono o come protesi del sistema di welfare pubblico - volto anche a ridurre i costi di produzione dei servizi - o come sistema da cui eventualmente acquistare prestazioni a basso costo – con scarso riconoscimento del valore sociale alle stesse – ormai l’orizzonte relazionale a cui un’impresa sociale può far riferimento si è notevolmente ristretto, fino quasi a coincidere con la propria dimensione imprenditoriale. L’esperienza che abbiamo sul territorio è che poi, soprattutto imprese e cooperative piccole – che dovrebbero essere in prima linea su questa traiettoria - sempre più difficilmente riescono ad avere le risorse in termini di competenze, ma anche di motivazione, per poter gestire un importante investimento nei percorsi di densificazione del sistema relazionale comunitario. La tenuta e l’ordinaria manutenzione dell’orizzonte di rapporti e legami esistenti appare già come un obbiettivo sfidante. Attivare o riattivare un ambiente in cui essere riconoscibili, riconosciuti, sostenuti in maniera diffusa da parte di una comunità è divenuta quindi per un’impresa sociale una operazione particolarmente difficile e peraltro ad alto rischio. Infatti, non è scontato che un’azione ancorché condotta con intelligenza e perseveranza riesca, nei contesti attuali, a generare quei rapporti di reciprocità che si vorrebbero innescare in maniera diffusa nella comunità. Vi è inoltre il rischio che i nuovi rapporti siano viziati da secondi fini o da un disassamento tra le motivazioni che li sostengono, per cui è possibile, per esempio, che la relazione che si instaura non sia in grado di alimentare nessuna reciprocità ma anzi sia foriera, anche a breve termine, di un potenziale conflitto.

Il punto è: generare o rigenerare risorse di reciprocità, fondati sull’inclusione sociale e sulla sostenibilità ambientale, costituisce o no un valore in sé per la comunità? In effetti sta divenendo ormai consapevolezza diffusa che le comunità che sono state in grado di preservare meglio i propri sistemi relazionali e di mutualità o quelle che stanno cercando di investire di più in questa direzione, risultino essere i contesti che appaiono meglio attrezzati per far fronte alle sfide del nostro tempo sia in campo sociale che ambientale. Non solo. Se è vero, come è vero, che nel futuro anche il valore economico sarà creato soprattutto attraverso l’innovazione e la creatività, probabilmente i contesti comunitari a maggior tasso di benessere (da misurare non tanto in termini di ricchezza patrimoniale o reddituale medi, ma nei termini di qualità della vita e dell’ecosistema che si abita) saranno anche quelli in grado di essere maggiormente attrezzati per accogliere o generare nuove esperienze professionali o imprenditoriali ad alto valore aggiunto (anche grazie sia alle opportunità che l’avvento dell’innovazione digitale e della digitalizzazione ormai rendono disponibili in molti territori, sia per il progressivo affermarsi dello smart working come modalità di lavoro – in tal senso l’emergenza sanitaria ha accelerato una tendenza oggettiva). Se generare reciprocità e condivisione sul terreno della coesione e dell’inclusione sociale e della sostenibilità ambientale in ambito comunitario è un bene in sé, come lo è, è evidente che allora rappresenta una sfida rispetto alla quale nessuno può chiamarsi fuori. Non solo enti pubblici e soggetti filantropici – come richiamato da Marocchi nel saggio sopra citato - ma anche il terzo settore tutto, le imprese for profit, le agenzie formative, il tessuto civico, le rappresentanze sociali e del mondo del lavoro (datoriali e delle lavoratrici e dei lavoratori), le singole cittadine e i singoli cittadini, tutti sono chiamati a mettersi in gioco su questo terreno. E di conseguenza, un’azione volta a promuovere un processo di incremento del capitale sociale di una comunità, non può che essere condotta, in maniera credibile, che da un cantiere che ambisca a includerne e a renderne protagoniste tutte le sue componenti fondamentali. Di questo l’impresa sociale deve essere un protagonista, se vuol sviluppare fino in fondo quel valore e quelle risorse extra mercato di cui necessita. E deve farlo trovando un terreno comune di impegno e corresponsabilizzazione con tutti gli altri protagonisti del contesto sociale ed economico che abita.

Un orizzonte di senso: il paradigma dell’economia civile

Occorre essere chiari su un punto sin dall’inizio: la scelta che occorre è ‘partigiana’. Di questo noi eravamo e siamo pervicacemente convinti. Alcuni potrebbero obbiettare che l’impresa sociale si dovrebbe limitare a ‘produrre’ servizi per l’educazione e/o la cura e opportunità occupazionali per persone svantaggiate ‘tappandosi il naso’ rispetto al contesto in cui questo può avvenire. Ma, al di là della non trascurabile considerazione che negli statuti delle cooperative sociali, per esempio, si fa sempre riferimento ai valori universali di democrazia, pace, tutela della dignità della persona, promozione del benessere di ciascuna e ciascuno, solidarietà, coesione sociale, come ultima finalità dell’azione dell’impresa, come si può non riflettere sul fatto che oggi, più di prima, occorre avere una visione larga di ciò che facciamo se si vuol davvero avere un futuro, anche da un punto di vista imprenditoriale? Essere parte di filiere produttive, di solito posizionati nella parte bassa, molto bassa, della distribuzione del valore che queste generano, è già un contesto che rende molto dura la prospettiva futura di tante esperienze imprenditoriali condotte da imprese sociali. Ma se poi questo avviene all’interno di filiere, ancorché legali, ma che generano impatti sociali o ambientali devastanti, è evidente che si crea un corto circuito che non ci dovrebbe sfuggire: l’impresa sociale nata per ‘finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale’ nella sua dimensione operativa di fatto andrebbe a contraddire le ragioni della sua esistenza. In questa prospettiva insomma l’impresa sociale si trova nella situazione di non avere alcuna rilevanza significativa all’interno del processo produttivo (testimoniato sia dallo scarso valore economico che le viene riconosciuto, che dal fatto che non le viene data la possibilità di crescere da un punto di vista di capacità di conoscere e determinare lo sviluppo futuro della filiera), con l’aggiunta di essere inserita in comparti che generano più direttamente esclusione sociale, nefasti impatti ambientali, effetti devastanti sulla salute delle persone; insomma proprio quei ‘mali’ sociali e ambientali che l’impresa sociale dovrebbe contribuire, a livello di sistema, a lenire[2]. Senza soffermarci quindi sul fatto che ogni scelta è ‘partigiana’ - e che dunque anche l’impresa sociale che scegliesse per esempio di lavorare nella filiera del gioco d’azzardo legale è un’impresa che ha compiuto una scelta di parte, a nostro avviso sbagliata – siamo partiti dall’assunto che l’orizzonte imprenditoriale in cui occorreva muoverci era quello di un paradigma economico che fosse in grado di generare opportunità per la comunità – e non devastanti riflessi socio-occupazionali – che contribuisse a migliorare l’impatto delle attività antropiche sull’ambiente, che esaltasse la bellezza e l’irripetibile unicità di quanto prodotto nella storia dall’umanità.

Tale scelta ‘partigiana’ doveva essere consapevole e determinata. Un generico richiamo ai valori della solidarietà o della sostenibilità ambientale, ancorché importante, non è di per sé in grado di attivare il processo generativo perseguito. Come ha evidenziato Papa Francesco nell’Enciclica “Laudato Si’”, non basta né richiamarsi a certi valori né produrre certe pratiche o certi effetti per abitare in maniera responsabile il nostro tempo. L’ecologismo integrale richiede, in una dimensione di cooperazione e condivisione, adeguati apparati culturali e conoscitivi, ma anche la generazione di nuovi stili di vita e di convivenza sociale, di rinnovata partecipazione democratica, di promozione e tutela dei beni comuni, di produzione di beni e servizi necessari al benessere e allo sviluppo della famiglia umana, nella consapevolezza che “il tutto è superiore alla parte”[3] e che tutto è in relazione.

Si trattava dunque non solo di richiamare le ragioni dell’esserci dell’impresa sociale in via astratta, ma di rendere incisiva la propria missione oggi, attraverso un adeguato schema interpretativo e operativo che desse ‘senso’ e futuro anche alla sua dimensione imprenditoriale.

Era necessario individuare un nuovo paradigma di senso e operativo che riuscisse a fornire gli schemi cognitivi in grado di leggere, evidenziare e denunciare gli effetti devastanti del modello di non-sviluppo neoliberista che ha segnato gli ultimi quaranta anni di storia dell’umanità (che sono emersi in maniera drammatica durante la crisi pandemica che stiamo vivendo) e di conseguenza a fornire anche un insieme di opzioni possibili che fossero in grado di indicare la via per un futuro praticabile (e non solo predicabile) sul piano sociale ed economico. Occorreva infine che tale paradigma avesse in sé la dimensione dell’inclusione, perché è evidente che, per essere praticabile e incisiva, qualsiasi opzione doveva riuscire a intercettare e a convogliare su di sé in maniera credibile le aspirazioni e la volontà di cambiamento – verso l’ecologismo integrale - che albergano nel mondo delle istituzioni, dell’economia, del terzo settore, del tessuto associativo, delle rappresentanze del mondo del lavoro (datoriale e delle lavoratrici e dei lavoratori), delle agenzie formative, delle cittadine e dei cittadini.

L’economia civile, l’intendere cioè il sistema economico come luogo di legami e reciprocità, ha indubbiamente queste caratteristiche, oltre a quella, connaturata al suo costituirsi potenzialmente come ‘paradigma’[4], di porsi, in quanto schema di lettura, interpretazione e azione dell’esistente e di una sua necessaria trasformazione, quale alveo di processi di sviluppo e cambiamento.

La collocazione cosciente e consapevole del nostro Consorzio nel solco e nella pratica dell’economia civile è apparsa dunque allo stesso tempo come un posizionamento ‘naturale’, un contesto generatore di nuove opportunità produttive, ma anche come un nuovo punto di rilancio per la missione che questo è chiamato a svolgere nella comunità a partire dalla sua azione imprenditoriale.

Per farlo convincentemente era però necessario, come richiamato sopra, ambire a contribuire ad un’azione trasformativa del modello di sviluppo perseguito nella comunità che abitiamo. Se infatti l’azione fosse stata limitata ad un ri-orientamento delle proprie attività, pur rimanendo un fatto positivo, il rischio di vederne fortemente limitati gli impatti era molto alto. Occorreva farsi parte di un processo trasformativo di tutta la comunità, per far emergere le opportunità che tale sfida può generare. Si trattava e si tratta non solo di ri-orientare il proprio posizionamento nel mercato, ridefinire i propri processi produttivi, ristrutturare il modello organizzativo, rimotivare le ragioni mutualistiche della propria esistenza, ma di fare in modo che la comunità evolva con l’impresa sociale verso le pratiche dell’ecologismo integrale, nell’alveo del paradigma dell’economia civile.

Per fare un esempio: è importante che sempre più imprese, soprattutto se sociali, investano nei processi di riuso dei beni. L’economia circolare fatta con sistemi di produzione o trasformazione che limitino la dissipazione delle risorse ambientali è infatti una questione centrale per il futuro del pianeta e dunque dell’umanità (e per questo è importante anche che il riuso derivi da filiere il più possibile di prossimità e giungendo solo in ultima istanza al riutilizzo delle materie prime seconde). Ma fino a che questo non sarà “di moda” difficilmente le filiere di produzione legate a questo modello avranno successo da un punto di vista imprenditoriale. Per questo certamente occorre che la trasformazione riguardi i processi produttivi e le strategie commerciali, ma è decisivo che questo cambiamento sia innanzitutto nell’immaginario collettivo, negli stili di vita, nel sistema di valori e credenze che anima e motiva il nostro agire quotidiano di cittadini, di produttori e di consumatori[5]. Da evidenziare peraltro come la definizione di nuove filiere produttive e di commercializzazione legate, seguendo l’esempio, all’economia circolare, potrebbero consentire all’impresa sociale di scalare il proprio posizionamento nella distribuzione del valore prodotto, riuscendo così a superare un gap strutturale che l’ha vista collocarsi generalmente, nella sua storia, solo nei gradini più bassi di tale distribuzione[6]. L’impresa sociale deve dunque contribuire a questa evoluzione della comunità che abita, che le è essenziale per poter dispiegare appieno le opportunità derivanti dal suo essere inserita nel paradigma dell’economia civile. Ma come?

Un innesco adeguato – il distretto dell’economia civile

Il metodo che a noi è parso più convincente per avviare questo percorso è stato quello del Distretto dell’economia civile[7]. Sono sostanzialmente due le ragioni che ci hanno spinto verso questa scelta.

La prima riguarda una considerazione di contesto e di modalità di lavoro. La comunità empolese è innanzitutto molto ricca di esperienza di volontariato, associazionismo, impegno civico, che la abitano, alcune, da oltre un secolo. A questo va aggiunto un’Amministrazione Comunale storicamente impegnata sui temi del welfare e dello sviluppo sostenibile, una realtà di imprese profit dinamica e particolarmente attiva – anche sui fronti dell’innovazione tecnologica e digitale e dell’economia circolare - una presenza diffusa e radicata di organizzazioni sindacali e di rappresentanza del lavoro dell’impresa – in ogni comparto - e delle istanze sociali. A prima vista, dunque, un luogo che sarebbe dovuto essere relativamente al riparo dagli effetti più devastanti delle crisi economiche e sociali che hanno segnato gli ultimi quindici anni di storia del nostro Paese; un luogo in cui la tensione verso un modello di sviluppo comunitario più coesivo e sostenibile non dovrebbe essere venuta meno, nonostante l’egemonia culturale esercitata, potremmo dire a livello globale, dal modello neoliberista negli ultimi trent’anni. E invece anche qui il modello descritto da Giacomo Becattini come sintesi efficace tra sviluppo industriale e coesione comunitaria (il Distretto industriale) si è logorato e gli effetti sono stati non solo un decadimento generale di tensione verso la partecipazione politica e civica, oltre che verso il mutualismo e la solidarietà, ma anche un progressivo ripiegamento delle tante esperienza positive di impegno comunitario per il bene comune, verso una parcellizzazione delle ragioni e degli orizzonti di questo[8]. Quindi una realtà allo stesso tempo ricca di esperienze positive, ma con sempre più evidenti falle sul piano della coesione sociale; una realtà da rispettare profondamente, ma per cui e in cui occorreva e occorre agire. La struttura del ‘cantiere’ per la costituzione del Distretto dell’economia civile di Empoli ha consentito di costruire un ambiente che fosse ‘adeguato’ a questa realtà e a questo bisogno. Peraltro, un contesto che ha permesso al Consorzio Coeso Empoli una collocazione corretta nei confronti degli altri protagonisti del ‘cantiere’. Pur avendolo di fatto proposto e sostenuto sin dall’inizio, questo nostro ruolo non è stato vissuto in maniera pervasiva da parte degli altri soggetti che attualmente lo costituiscono, ed il merito di questo deve essere ascritto soprattutto alla dinamica inclusiva e coesiva con cui il ‘cantiere’ è pensato e definito anche in via astratta. E questo vale anche per tutti gli altri partecipanti al tavolo: stessa dignità, stessa tensione verso il bene comune, stessa voglia di contribuire ad un modello di sviluppo ispirato all’ecologismo integrale. Allo stesso tempo però al Consorzio è stato riconosciuto il valore della propria esperienza imprenditoriale, volta al perseguimento della cura delle persone e dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, non solo in sé, ma come patrimonio della comunità e dunque come risorsa (nei termini di competenze, professionalità, esperienze) per un’azione condivisa e congiunta di carattere trasformativo per tutta la comunità.

La seconda ragione risiede nella metodologia che la logica del Distretto comporta: non si tratta di discutere in via astratta di come poter intervenire per modificare i contesti comunitari in cui si producono e manifestano marginalità o esclusione o di condividere una riflessione su come promuovere un diverso modello economico, fondato sulla sostenibilità ambientale e sull’inclusione lavorativa delle persone svantaggiate. Il metodo del Distretto implica infatti la conduzione di un’attenta lettura delle dinamiche demografiche, sociali ed economiche che segnano la comunità, un lavoro di mappatura e georeferenziazione delle sue emergenze e delle sue eccellenze, una strategia di intervento (usando per esempio la metodologia dell’agopuntura per densificare il capitale relazionale) motivata, ragionata, condivisa e soprattutto misurabile e dunque verificabile. Insomma, un contesto che costringe tutti i partecipanti a mettersi in gioco, superare la propria dimensione di parte (ancorché in un profondo e radicato rispetto reciproco delle funzioni, dei ruoli, delle attività che ciascuno conduce direttamente) contribuire alla cura della comunità, delle persone che la compongono, dei suoi beni comuni, a partire dall’ambiente naturale e urbano.

Conclusione

Proprio in queste settimane il cantiere per il Distretto dell’Economia civile di Empoli compie un anno di vita. Attualmente, il tavolo generale del Distretto sta ultimando il lavoro di lettura dei dati demografici, sociali ed economici del territorio e delle singole esperienze di economia civile già presenti e esistenti nel contesto di riferimento. Inoltre, ha avviato anche l’analisi del Regolamento per i Beni Comuni di Empoli – in sinergia con l’Amministrazione Comunale della Città. Al suo interno si sono costituiti anche 5 specifici gruppi di lavoro a cui hanno aderito a geografia variabile alcuni partecipanti al tavolo generale del Cantiere. Due sono legati alla crisi che stiamo attraversando e si occupano di a) sostegno alimentare (a integrazione delle molte iniziative già presenti nella comunità) e b) contrasto al divario digitale. Due hanno ad oggetto la nascita di nuove infrastrutture sociali volte al rafforzamento ma anche all’innesco di nuove pratiche di mutualità e auto-sostegno interne alla comunità. Nello specifico si tratta della possibilità di costituire una Fondazione di Comunità (al fine di supportare la propensione al dono in favore del bene comune) e di dar avvio ad una piattaforma di comunità (che sia in grado di cogliere le opportunità che la digitalizzazione può fornirci a supporto della densificazione del sistema relazionale interno ad uno specifico contesto territoriale). Il quinto gruppo invece si occupa di economia circolare cercando di coniugare un’azione volta alla giusta sensibilizzazione della comunità rispetto agli impatti devastanti generati da un modello produttivo lineare, alla necessità di innovare e rendere ‘sostenibili’ i nostri stili di vita e i nostri consumi, ma anche a valutare possibili occasioni per sviluppare nuove opportunità di lavoro nell’ambito dell’economia circolare.

L’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia da Covid 19 non solo non ci ha bloccati, ma anzi ha radicato ancor di più la convinzione nei partecipanti della necessità di lavorare alacremente all’attuazione del Distretto e alle progettualità che già sono nate al suo interno, che ad oggi già vede protagonisti 25 organizzazioni, oltre all’Amministrazione Comunale, gran parte del Terzo settore, ma vi sono anche imprese, rappresentanze sindacali, agenzie formative e di sviluppo.            

Cosa tutto questo riuscirà nel tempo a produrre, come riuscirà a incidere sul futuro della comunità, è evidente che non può essere oggetto di riflessione critica a solo un anno dall’avvio di questo percorso. Certo è che l’aver intrapreso la strada di un rinnovato co-protagonismo della nostra impresa sociale – il Consorzio Coeso Empoli – sul piano generale dell’assunzione di responsabilità nei confronti della comunità tutta, di un impegno per una nuova strategia di valorizzazione dei beni comuni (di cui deve essere depositaria e protagonista la comunità stessa, per essere in grado di esprimere un grado più elevato di coesione ed inclusione sociale e un modello di sviluppo economico e sociale più sostenibile), ha già significato sia per la comunità, che per la nostra realtà di impresa sociale, maggiori conoscenze, opportunità e una rinnovata motivazione a contribuire al bene comune.

Per il Consorzio Coeso Empoli peraltro questo ha comportato già di per sé un incremento significativo del sistema relazionale a cui faceva riferimento, sia nei confronti dell’impresa profit, che delle altre organizzazioni del Terzo Settore, che delle rappresentanze sociali e del lavoro. In questo processo di densificazione relazionale che ci riguarda stanno prendendo corpo anche ipotesi per la generazione di nuove esperienze imprenditoriali, frutto dell’incontro tra intelligenze, sensibilità, competenze, che già erano presenti sul territorio ma che non emergevano a causa della separatezza dei mondi e delle filiere che ciascuno abitava[9].

Come accennato nell’Introduzione, la riflessione abbozzata in questo lavoro, se riportata in maniera specifica alla fattispecie dei Consorzi di cooperative sociali, può essere generatrice anche di un’eventuale riflessione su una possibile evoluzione della funzione che questi svolgono nei confronti delle comunità, delle associate e delle federazioni di rappresentanza. La natura consortile si presta di per sé sia ad un richiamo ad un orizzonte comune e comunitario, che alla capacità di messa in campo di risorse e capacità che difficilmente sono alla portata della gran parte delle imprese e delle cooperative sociali. Per questo possono essere la tipologia di impresa sociale meglio attrezzata, per vocazione e missione, per competenze e visione, ma anche per rappresentatività e capacità di impatto, a questo ruolo. E’ evidente che questa eventuale evoluzione del Consorzio si costituisce potenzialmente anche come la cornice in cui incastonare; a) il processo di sua riconfigurazione come “Attivatori di processi innovativi, passando dall’essere timonieri a facilitatori e piattaforme abilitanti di dinamiche libere a geografia variabile” (Letizia Piangerelli, Sara Rago, Paolo Venturi “Reti e strategie cooperative per generare valore” – Aiccon); b) una nuova valorizzazione della sua funzione ideologica , con una marcata e netta demarcazione rispetto al ruolo delle rappresentanze delle federazioni, volta a creare un ecosistema adeguato per le cooperative aderenti attraversa la promozione di un’azione trasformativa della comunità abitata (chiaramente a vantaggio innanzitutto della comunità stessa e dei beni comuni che la connotano) [10]

Insomma a valle di questa limitata esperienza concreta crediamo che sia possibile già affermare che è, non solo auspicabile, ma bensì necessario che l’impresa sociale si collochi al centro del necessario cambiamento del modello di sviluppo della comunità che abita, sia per esplicare al meglio le proprie potenzialità a servizio dei beni e del bene comune, che per intercettare e condividere nuove opportunità sotto il profilo imprenditoriale, siano esse rivolte all’educazione e alla cura, che all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. In fondo, nel passaggio da attori (soprattutto se non protagonisti) a co-registi (ancorché con una piccola voce in capitolo) è evidente di per sé già un cambiamento decisivo: la trama proviamo a scriverla e dirigerla, non solo a interpretarla, con tutto quello che questo chiaramente comporta nei termini di assunzione di responsabilità ma anche di autonomia e dignità.

[1] Ma gli effetti deleteri della tendenza al disimpegno e alla deresponsabilizzazione, che hanno segnato e segnano in maniera pesante anche molti contesti minori, hanno contribuito a nostro avviso anche al diffondersi di atteggiamenti che hanno attraversato e attraversano anche il vissuto delle singole imprese sociali. L’affievolirsi dello spirito mutualistico all’interno di gran parte delle cooperative sociali, sia a livello del governo dell’impresa, che per quanto riguarda gli addetti, per esempio, è dovuto in parte a un generale decadimento della tensione verso la condivisione e la collaborazione avvenuto nella comunità.

[2] Particolarmente illuminante a tal proposito la sintetica riflessione di Filippo Barbera dal titolo “Le tre crisi della Cooperazione Sociale” all’interno la sezione Contributi del sito del Forum Disuguaglianze e Diversità (www.forumdisuguaglianzediversita.org).

[3] Papa Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium (24 novembre 2013), 237.

[4] Sul portato del concetto di ‘paradigma’ il riferimento diretto è all’opera di Thomas S. Kuhn “La struttura delle rivoluzione scientifiche” pubblicata in Italia da Einaudi

[5] A tal proposito si veda Domenico Secondulfo “Il mondo di seconda mano”, Franco Angeli Editore

[6] Stesso ragionamento può essere fatto parlando dei servizi di cura: occorre che la comunità viva le propria responsabilità nei confronti delle fragilità, per far sì che da un lato quanto fatto sotto il profilo educativo e assistenziale non venga disperso o non compiutamente valorizzato e dall’altro vengano riconosciuti (dunque apprezzati, dunque valorizzati anche economicamente) i servizi che l’impresa sociale può mettere in campo per il benessere della persona, anche di natura innovativa (per esempio integrando strutturalmente le opportunità messe a disposizione dalla tecnologia digitale e dalla digitalizzazione, con le competenze educative e di cura di cui dispongono i dirigenti, i progettisti, gli educatori, gli operatori, gli assistenti che operano nelle imprese sociali) superando così una condizione che oggi la vede spesso strangolata tra il mercato nero e appalti legati solo alla fornitura di prestazioni a basso valore aggiunto. A tal proposito si veda ISTAT Rapporto Annuale 2019 Capitolo 2 ‘Le risorse del Paese: opportunità per uno sviluppo sostenibile’ Approfondimenti e analisi 2.3. ‘L’impatto dell’economia sommersa sull’efficienza e sulla performance delle imprese e dei settori’.

[7] Per un approfondimento si veda “I Distretti dell’economia civile – come sviluppare la sostenibilità ambientale, sociale ed economica dei territori” a cura di Carlo Andorlini, Lorenzo Barucca, Alessio di Addezio, Enrico Fontana – Pacini Editore

[8] A tal proposito si veda il Primo Rapporto – Anno 2017 prodotto dall’Osservatorio Sociale Regionale – Regione Toscana

[9] Una spinta in tal senso potrà venire anche dal piano nazionale di attuazione dell’iniziativa dell’Unione Europea Next Generation EU. A tal proposito si veda il Quaderno 1 “Obiettivi di sviluppo e politiche europee” pubblicato dall’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile.

[10] Su quest’ultimo punto si veda l’analisi sulla traiettoria storia del ruolo dei Consorzi contenuta nel saggio di Carlo Borzaga e Alberto Ianes “Il sistema di imprese della cooperazione sociale. Origini e sviluppo dei consorzi di cooperative sociali” - Euricse

Rivista-impresa-sociale-Andrea Campinoti Consorzio Co&so Empoli

Andrea Campinoti

Consorzio Co&so Empoli

Laureato in filosofia ad indirizzo morale e politico all’Università di Siena è stato Sindaco di Certaldo dal 2004 al 2014 e Presidente Nazionale dell’Associazione “Avviso Pubblico – Regioni e Enti Locali per la formazione civile contro le mafie” dal 2002 al 2013. Il percorso nella cooperazione sociale è iniziato con una collaborazione con la Cooperativa Sociale Pegaso. Attualmente è il coordinatore dell’area progettazione innovazione e sviluppo del Consorzio Co&so Empoli, e impiegato nell’Area Amministrazione della Cooperativa Sociale “Rifredi Insieme” di Firenze, di cui è anche membro del CDA.

Rivista-impresa-sociale-Marco Peruzzi Consorzio Co&so Empoli

Marco Peruzzi

Consorzio Co&so Empoli

Laureatosi a Padova in psicologia, nel 2003 entra nel mondo della cooperazione sociale, iniziando a lavorare nella Cooperativa Sociale Il Piccolo Principe, dove negli anni svolge prima il ruolo di educatore e poi di coordinatore di servizi; entra nel Consiglio di Amministrazione della Cooperativa nel 2007 e vi rimane fino al 2018, ricoprendo la carica di Vicepresidente dal 2010 e di Presidente dal 2014; da luglio 2018 diviene Presidente della Cooperativa Sociale Casae e a novembre dello stesso anno Presidente del Consorzio Co&So Empoli.

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