L'intervento del presidente di Idee in Rete, che da una parte evidenzia l'opportunità costituita dal Piano, dall'altra analizza i limti della bozza presentata, che non riconosce i soggetti che da decenni rappresentano le espressioni pià mature dell'economia sociale, prima tra tutte la cooperazione sociale di inserimento lavorativo.
L’Italia ha finalmente l’occasione di dotarsi di un Piano nazionale per l’economia sociale: un'occasione da accogliere con convinzione per valorizzare un un grande ecosistema, trasversale ai settori produttivi, capace di generare innovazione, coesione e competitività, in un paese come l'Italia dove operano migliaia di soggetti diversi: cooperative, imprese sociali, ETS, associazioni, fondazioni, mutue, reti di volontariato, cooperative di comunità, CER. Un universo ricco e vitale che va riconosciuto, rappresentato e sostenuto come un unico ecosistema industriale, perché solo così potremo far valere le nostre ragioni anche nei tavoli europei e governativi.
Ma un ecosistema industriale non si regge sull’omogeneizzazione. Richiede una cornice unitaria che non appiattisca le differenze, ma le metta a sistema, valorizzandole e tutelandone il contributo specifico. L’unità non è uniformità, è la capacità di stare insieme senza perdere ciò che ci distingue.
Per questo motivo, se è giusto e auspicabile che il Piano offra opportunità a tutte le componenti dell’economia sociale, è altrettanto necessario che tale ampliamento non finisca per diluire una delle nostre esperienze più preziose e originali: la cooperazione sociale di inserimento lavorativo, un modello che la normativa e la pratica hanno reso un punto di forza del Paese e che va preservato nella sua specificità.
È un’esperienza che da oltre trent’anni garantisce risposte efficaci laddove il mercato ordinario non arriva, riconosciuta come modello anche dalla Commissione europea in numerosi documenti. Una best practice internazionale, costruita in oltre trent’anni di lavoro, un patrimonio civile che appartiene al Paese, non solo al nostro settore.
La cooperazione sociale di tipo B – che ha svolto e continua a svolgere la funzione pubblica dell’inclusione socio-lavorativa delle persone svantaggiate – deve continuare a godere di una lex specialis: un riconoscimento giuridico e politico proporzionato al ruolo che svolge.
È una conquista normativa, culturale e istituzionale che non possiamo permetterci di perdere e che il Piano, nella sua forma attuale, non riconosce adeguatamente.
Sorprende notare che nella bozza del Piano la cooperazione sociale è quasi totalmente assente dai capitoli strategici:
Sostanzialmente la cooperazione sociale è citata solo solo nella parte introduttiva, mai nei capitoli in cui si delineano azioni, strumenti, governance, formazione, risorse, modalità attuative.
Non solo è sottorappresentata, è assente proprio dove invece dovrebbe essere centrale.
Eppure, le cooperative sociali gestiscono servizi essenziali, impiegano centinaia di migliaia di lavoratori, creano percorsi di inclusione che il mercato ordinario non garantisce, sono l’unico soggetto nato ex lege per generare interesse generale.
Un Piano che non riconosce questo ruolo rischia di essere non solo incompleto, ma politicamente e tecnicamente incoerente.
Il paragrafo 88 è in questo senso rivelatore: è l’unico punto del piano in cui si cita la “cooperazione sociale”, e lo fa confinandone il ruolo alle previsioni dell’art. 14 della “legge Biagi”. Una rappresentazione parziale, che non restituisce la portata del contributo che la cooperazione sociale offre da decenni alle politiche di inclusione nel nostro Paese. Una sorta di appendice funzionale alle aziende tradizionali, utile a risolvere i problemi di queste ultime sul piano amministrativo e/o reputazionale.
È una rappresentazione distorta, che ribalta la logica dell’inclusione:
È, al contrario, un soggetto autonomo dell’economia sociale, capace di generare capitale sociale, valore pubblico e percorsi inclusivi che nessun altro attore produce con la stessa efficacia. Attenzione, qui nessuno vuole sottovalutare o svalutare l’importanza del sopracitato strumento normativo, ma noi non siamo solo questo!
Ridurre il patrimonio della cooperazione sociale di inserimento lavorativo a una funzione ancillare significa disconoscere trent’anni di politiche pubbliche.
Un’altra indicazione che non ci convince si trova nel precedente paragrafo 77 di questa bozza di Piano, dove si lascia intendere che gli affidamenti riservati possano essere estesi genericamente a tutti gli enti dell’economia sociale. È un equivoco che andrebbe chiarito e, probabilmente, rimosso. Gli appalti riservati non sono un privilegio e nemmeno una corsia preferenziale. Sono uno strumento pubblico di inclusione socio-lavorativa, regolato da una normativa chiara (Legge 381/91 e Codice appalti 2023). Ampliarli arbitrariamente significherebbe indebolire la funzione pubblica dell’inserimento lavorativo, produrre distorsioni competitive e fare un danno alle persone fragili.
Piuttosto, restando sempre sul tema dell’inclusione lavorativa, sarebbe opportuno che il Piano affrontasse con coraggio questioni oggi irrisolte: il mancato riconoscimento normativo ed economico della figura del tutor per l’inserimento lavorativo, le criticità del sopracitato art. 14, la frammentazione regionale, le disfunzioni dei Centri per l’Impiego, la necessità di certificare le competenze e, infine, la stessa definizione di “svantaggio”, che va certamente aggiornata, ma senza sganciarla dalla quota minima prevista dalla legge 381/91 e dalla relativa possibilità di certificarla in modo chiaro e verificabile. Paesi, che anni fa venivano in Italia per capire come si promuove l’inclusione lavorativa delle persone svantaggiate, oggi ci hanno superati per continuità e visione. Lo conferma anche una recente ricerca che abbiamo svolto con Euricse insieme a diversi partner europei.
È proprio su questo punto che il Piano può fare un salto di qualità: l’inclusione lavorativa delle persone svantaggiate richiede una strategia nazionale, perché non è una questione settoriale, ma una responsabilità del Paese.
Il Piano evita, volutamente, di toccare un nodo centrale: in Italia esiste una normativa sull'Impresa Sociale che, per la sua architettura, rappresenta già una cornice in grado di accogliere e qualificare un'amplissima fetta dei soggetti dell'economia sociale così come li definisce l'UE, a partire dalla cooperazione, tutta la cooperazione. Perché si continua a non affrontare questo punto, relegando il D.Lgs. 112/17 a un semplice “di cui”?
La bozza, nella sua versione attuale, rappresenta un timido tentativo di mettere insieme soggetti, visioni e aspettative di un ecosistema che ancora fatica a percepirsi e riconoscersi come tale. Vengono dedicate molte pagine a descrivere l’economia sociale, ma molto meno a indicare come farla crescere. Restituisce l’esistente, ma non delinea il futuro. Manca ciò che trasforma un documento in una politica pubblica. Per rendere questo percorso davvero generativo servono tre scelte nette: riconoscere l’economia sociale come un ecosistema industriale, con un’architettura capace di valorizzare le sue molteplici identità; tutelare la lex specialis della cooperazione sociale, l’unica esperienza ex lege che da più di trent’anni produce inclusione lavorativa concreta e riconosciuta anche a livello europeo e le attribuisce dal principio il perseguimento dell'interesse generale; trasformare il Piano in uno strumento operativo, dotato di obiettivi, risorse e una governance in grado di incidere realmente nei territori.
Il primo risultato importante di questo processo resta, comunque, quello di aver avviato, per la prima volta, un confronto strutturato tra istituzioni pubbliche e attori dell’economia sociale. Un passaggio tutt’altro che scontato: perché la reciproca legittimazione è la condizione necessaria – non ancora sufficiente, ma indispensabile – per dare forma a un ecosistema compiuto.
Si è aperto, così, uno spazio politico inedito, nel quale attori diversi stanno iniziando a confrontarsi, a misurarsi e, quando necessario, a riconoscere l’importanza di una sintesi. Una sintesi che, voglio ripeterlo, non nasce dall’uniformità, ma dal rispetto delle differenze e dalla capacità di farne valore condiviso. Per questo serve una responsabilità collettiva capace di andare oltre le frammentazioni autoreferenziali e le contrapposizioni interne che ancora indeboliscono e spaccano il nostro mondo.
L’economia sociale non deve ridursi ad un “addendum” ma deve ambire ad essere una delle infrastrutture democratiche del Paese. E la cooperazione sociale ne è uno dei pilastri, con una storia che ha prodotto risultati concreti, riconosciuti anche a livello europeo. La sua tutela non è una rivendicazione di parte: è un impegno verso il Paese.
I prossimi mesi saranno cruciali per capire se l'Italia ha solo svolto il suo compitino (ma senza cambiare nulla) o ha davvero avviato questo processo di legittimazione di un ecosistema industriale trasversale, in cui tutti i suoi attori si possano sentire efficacemente rappresentati. Occorrerà intervenire sugli aggiustamenti emersi, definire strumenti puntuali e costruire meccanismi capaci di rendere il Piano realmente operativo a livello nazionale, regionale e locale. È un lavoro che coinvolge tutti – istituzioni, reti nazionali, territori e organizzazioni – e che richiede una responsabilità condivisa.
Idee in Rete propone insieme all’INAPP e alla Sapienza – Università di Roma, con la partnership strategica di Confcooperative, Fondsviluppo e Fondazione Impresa Sensibile un momento di approfondimenti sull'Economia sociale il 21 novembre 2025 presso l’Auditorium della Sapienza con la seconda edizione de Il Fattore Economia Sociale Vedi qui il programma.
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