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ISSN 2282-1694
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Numero 1 / 2023

Saggi

Molte delle cose che credevamo sull’inserimento lavorativo sono false

Gianfranco Marocchi

E, quindi, quali sfide ci aspettano per il futuro


Il presente articolo è frutto dell’attività di ricerca svolta dall’autore per il Consorzio Nazionale Idee in Rete nell’ambito del progetto Europeo B-WISE.

Introduzione

Questo articolo ha origine da lavoro svolto all’interno di B-WISE, un progetto finanziato dalla Commissione Europea, dedicato al rafforzamento delle competenze delle Imprese Sociali di Inserimento Lavorativo, in Europa spesso indicate come WISE (Work Integration Social Enterprises), in particolare in ambito tecnologico e digitale; WISE sarà comunque l’acronimo che si utilizzerà in questo articolo per indicare il complesso di soggetti – le cooperative sociali di tipo B italiane e molti altri soggetti con varie forme giuridiche in altri Paesi europei – che condividono appunto la mission di inserire al lavoro persone svantaggiate e altri aspetti che saranno di seguito meglio indicati.

Tale progetto ha però consentito lo sviluppo anche di contenuti più generali relativi alle WISE, tra cui una fotografia del fenomeno in Europa – ben sviluppata in questo numero da Giulia Galera e Giulia Tallarini e il presente articolo – frutto di focus group e di 73 studi di caso in 13 Paesi europei.

Il tema delle imprese sociali di inserimento lavorativo è qui affrontato in ottica europea, ma rivolgendosi specificamente ad un lettore italiano, che ha quindi come riferimento principale, anche se non esclusivo, le cooperative sociali di inserimento lavorativo disciplinate dalla legge 381/1991.

Un primo tema che si intende affrontare è la definizione del perimetro delle WISE. Quando si può affermare che un certo ente è identificabile come WISE? Se ci si riferisce al caso italiano la risposta è abbastanza semplice: si guarda alle oltre 5.000 cooperative sociali di inserimento lavorativo, integrate da qualche unità di imprese sociali con diversa forma giuridica che hanno individuato nell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate la propria attività. Il perimetro delle WISE è quindi nel nostro Paese abbastanza ben definito, essendo identificato da specifiche normative, anche se mancano da diversi anni dati attendibili e aggiornati sui numeri principali che lo caratterizzano; ma la questione di definire quali enti siano identificabili come WISE appare assai più impegnativa quando ci si riferisce all’Europa, dove sono presenti tradizioni giuridiche, politiche e prassi operative molto diverse tra loro e non sempre agevolmente confrontabili.

Una volta definito il perimetro delle WISE, si tratterà – e questo rappresenta il secondo tema sviluppato in questo articolo – di ragionare sui diversi modelli con cui questo fenomeno si manifesta nel continente europeo. Si ragionerà in modo idealtipico, creando cioè dei modelli che nella loro forma pura potrebbero anche non trovare (o trovare solo occasionalmente) riscontro empirico, ma che ci aiutano a comprendere i fenomeni trattati. In particolare, si approfondiranno tre idealtipi: le WISE Produttive, le WISE Sociali e le WISE Formative, ben consapevoli che molto spesso i casi concreti possono mostrare in modo frammisto le caratteristiche di più modelli e che tale sincretismo risulta ancora più evidente soprattutto in taluni contesti nazionali. In questo capitolo si affronteranno anche alcune strategie di sostenibilità che caratterizzano i diversi tipi di WISE.

Questo ci porta alla terza sezione, dove si affronterà il tema delle politiche attuate nei confronti delle WISE; si provvederà, pur in forma ancora esplorativa, a verificare delle correlazioni tra politiche pubbliche e livello di sviluppo dei sistemi WISE nazionali, per poi sviluppare una riflessione specifica sul nostro Paese. Anche se la qualità dei dati è abbastanza approssimativa e richiede indubbiamente ulteriori e più rigorosi approfondimenti, si ritiene che il materiale disponibile sia adeguato ad argomentare su basi fattuali la necessità di una significativa evoluzione delle politiche italiane in tema di WISE.

In via provvisoria e con la consapevolezza che, in assenza di rilevazioni specifiche, si tratta di numeri orientativi, si può ipotizzare che vi siano nel nostro Paese circa 5.300 cooperative sociali di inserimento lavorativo, ove lavorano circa 25-30 mila persone la cui caratteristica di svantaggio è riconosciuta dalla legge; si possono ipotizzare, incrociando fonti diverse e con un notevole margine di approssimazione (e facendo riferimento ad un totale di 25.000 lavoratori svantaggiati), che si tratti di circa 13.500 persone con diverse forme di disabilità, 6.000 persone con problemi di dipendenze, 4.000 con problemi di salute mentale, 1.500 detenuti che lavorano in cooperativa o all’interno del carcere o, più frequentemente, che sono ammessi a benefici che consentono di lavorare all’esterno. Va inoltre ricordato che nelle cooperative sociali operano un numero di persone definibile con ancor meno precisione, non appartenendo a categorie riconosciute dalle normative del nostro Paese, ma stimabile in almeno 10 – 15 mila unità, che si trovano in una condizione di svantaggio più o meno significativa e generalmente riconosciuta come tale a livello comunitario: si pensi a persone con bassa istruzione, ultracinquantenni, con carriera lavorativa discontinua e dequalificata, ripetute prese in carico da parte dei servizi sociali e provenienti da uno stato di disoccupazione prolungato, oppure a donne sole con figli, a stranieri con difficoltà di integrazione, ecc. Chi ha confidenza con il mondo delle cooperative sociali non fatica ad individuare numerosi lavoratori con queste caratteristiche, che però da un punto di vista normativo figurano tra i lavoratori non svantaggiati. Possiamo ipotizzare che lavorino nelle cooperative sociali in tutto circa 90 mila lavoratori. Questi numeri, con piccole variazioni, descrivono a grandi linee il fenomeno in Italia in questi ultimi 15 – 20 anni; va comunque rilevato che, come evidenziato dai dati Euricse, il lungo ciclo di crisi che dal 2008 si prolunga in Italia sino a metà degli anni Dieci, non ha determinato una contrazione della cooperazione sociale di inserimento lavorativo, che si è anzi consolidata, pur senza modificare l’ordine di grandezza dei numeri in questione; ed è ragionevole ipotizzare, pur non essendovi oggi dati sufficienti per affermarlo con certezza, che anche la crisi pandemica non abbia avuto effetti recessivi significativi se non nell’anno 2020.  

Box 1. I numeri della cooperazione sociale di inserimento lavorativo in Italia.

Il perimetro delle WISE

Se, con tutte le difficoltà connesse alla scarsità e alla cattiva qualità del dato, nel nostro Paese la definizione del fenomeno WISE è abbastanza chiara, non si può dire lo stesso con riferimento al contesto europeo, dove ci si deve confrontare con una complessità su più fronti:

  • differenti gradi di riconoscimento delle WISE, che in alcuni Paesi possono non essere riconosciute come tali da un punto di vista giuridico e/o nelle policy o possono sottostare a vincoli molto diversi dal punto di vista dei lavoratori riconosciuti come svantaggiati, della disciplina dell’utile, ecc.;
  • estrema varietà delle forme giuridiche, in accordo con le tradizioni nazionali, con conseguente difficoltà, da parte di chi proviene da altri Paesi, di comprendere l’effettiva natura dei diversi soggetti identificati – ex lege o di fatto – come WISE;
  • differente attenzione da parte delle politiche, che possono essere sensibili o meno al fenomeno dell’esclusione dal mercato del lavoro e, laddove lo siano, possono agire con strategie molto diverse: accanto all’eventuale sostegno alle WISE, vi sono politiche di incentivo rivolte a chiunque assuma lavoratori deboli, sistemi di quote obbligatorie di assunzione di determinate categorie, laboratori protetti, ecc. Le politiche inoltre possono variare in modo significativo anche con riferimento a soggetti diversi nell’ambito di uno stesso Paese;
  • estrema varietà nel modo di operare, che dà luogo a modelli operativi diversi, di seguito approfonditi.

A fronte di ciò, è necessario individuare una strategia per delimitare il perimetro delle WISE sufficientemente resistente rispetto all’eterogeneità sopra evidenziata e che sia al tempo stesso sufficientemente:

  • inclusiva, e quindi non perimetri le WISE sulla base di criteri rilevanti in un certo contesto nazionale – come spesso accade, quello dell’autore che propone la perimetrazione – disorientando invece chi osservi il fenomeno da contesti culturali e normativi diversi;
  • selettiva, e quindi indentifichi un fenomeno ben definito e specifico, non cadendo nell’errore di ricomprendere nel perimetro chiunque a vario titolo si occupi di facilitare l’accesso al lavoro di persone svantaggiate, cosa che renderebbe il concetto di WISE indeterminato e in ultima analisi poco utile.

Pur essendo consapevoli del carattere provvisorio di questa definizione, si propone di considerare WISE organizzazioni:

  1. che svolgono una o più attività produttive (es. un ristorante, un’attività artigianale, un servizio di pulizia o di manutenzione del verde, un negozio, ecc.) specificamente finalizzate ad offrire, in coerenza con la propria mission statutaria, un’opportunità di lavoro a persone svantaggiate ed a favorire la loro integrazione sociale e il rafforzamento delle loro competenze;
  2. in cui la vendita dei beni e servizi prodotti (nel senso indicato al punto precedente, e non quindi le forme di remunerazione dell’inserimento lavorativo in quanto tale) produce una quota significativa delle risorse necessarie alla sopravvivenza dell’organizzazione; come regola generale, sarebbe opportuno che tale quota fosse superiore al 50%;
  3. dove la maggior parte dei lavoratori svantaggiati è assunta a libro paga e retribuita secondo contratti collettivi (e non, quindi, inquadrata come tirocinante, utente, o comunque come persona che per diversi motivi opera gratuitamente o con retribuzione simbolica) e, in base alle loro condizioni di salute, lavora un numero di ore tale da raggiungere almeno una parziale autonomia economica.

Rispetto ai due criteri enunciati per argomentare la validità della definizione, l’aspetto dell’inclusività appare soddisfatto in quanto:

  • i tre punti prima elencati non fanno riferimento a specifiche forme giuridiche;
  • non viene citato, tra l’altro, – in ciò adeguandosi anche agli autorevoli orientamenti assunti da Euricse e Emes nel mapping del 2020 –alcun vincolo relativo alla disciplina dell’utile che, stante le diverse forme giuridiche, avrebbe potuto nei fatti rappresentare un elemento di chiusura non auspicabile, ritenendo sufficiente quanto indicato sopra al punto 1 e cioè l’esplicita finalizzazione all’inserimento lavorativo (che porta con sé il fatto che diventi secondario o assente l’obiettivo di soddisfare l’azionista con il dividendo o con un incremento patrimoniale in futuro fruibile).

L’aspetto della selettività è al tempo stesso molto marcato, come si evidenzia nella Tabella 1.

Tabella 1. Perimetro delle WISE in base alla selettività.

Figura 1. Perimetro delle WISE.

Va per onestà evidenziato come questi criteri possano essere utilizzati in modo più o meno restrittivo, secondo le scelte del ricercatore. Ad esempio, rispetto alla prevalenza del fatturato derivante dalla vendita di beni e servizi (con ciò intendendo attività artigianali, pulizie, manutenzione del verde, gestione di cimiteri, servizi ambientali, ecc., ma non i proventi della formazione, le convenzioni di ergoterapia e ogni altro ricavo relativo a servizi di welfare offerti alle persone svantaggiate) troviamo in Europa situazioni tra loro molto diverse. Se in alcuni casi è chiaro che si fuoriesce dal perimetro WISE (con riferimento alla ricerca svolta nell’ambito di B-WISE, i case study hanno rilevato taluni enti in Polonia ove il 90% dei proventi deriva da convenzioni che remunerano la presa in carico delle persone inserite e solo il 10% dalla vendita di beni e servizi), in altri casi – se ne sono riscontrati in Spagna, Austria, Belgio e Olanda – ci si trova senz’altro di fronte ad imprese che fatturano per la vendita di beni e servizi diversi milioni di euro, che investono cifre consistenti in macchinari avanzati e in strategie di marketing, che impiegano centinaia di lavoratori svantaggiati, ma che percepiscono quote di fatturato intorno al 50% dal riconoscimento del lavoro sociale e formativo svolto; in questi casi si può ragionevolmente sostenere sia la loro inclusione, sia la loro esclusione dal perimetro WISE, sulla base delle finalità che l’indagine si pone. Ma tali aree grigie non inficiano la pregnanza dei criteri adottati, rappresentando invece normali aspetti di complessità da affrontare laddove si passi dalla teoria alla analisi empirica di fenomeni articolati che si collocano, come già evidenziato, in contesti giuridici e di policy tra loro molto diversi.

Ciò detto, è bene rimarcare come la perimetrazione qui proposta abbia scopi analitici e conoscitivi e non vada intesa come implicitamente valutativa rispetto ai fenomeni studiati. Essere WISE non è una sorta di “titolo di merito” rispetto a chi non lo è e non si sviluppano in questa sede valutazioni comparative rispetto alla relativa maggiore auspicabilità di intervenire nelle politiche pubbliche a favore delle WISE, dell’ergoterapia, della formazione professionale, del placement o di altre azioni che riguardino a vario titolo l’integrazione lavorativa delle persone svantaggiate. Ciò va sottolineato perché emerge con molta evidenza – ciò è accaduto anche nell’ambito del progetto europeo B-WISE che ha dato origine a questo lavoro – una tendenza ad invadere i ragionamenti analitici con elementi valutativi, che portano i protagonisti a “rivendicare” a tutti i costi la propria appartenenza al perimetro WISE, anche quando si è in presenza di fenomeni oggettivamente diversi e anche a costo di forzare oltre misura a tal fine i criteri sopra richiamati. L’essere una WISE si associa, nella mente di chi si occupa di integrazione lavorativo, all’essere produttivi (positivo) anziché assistenziali (negativo), a costruire percorsi di autonomia (positivo) anziché di dipendenza dai servizi (negativo) e così via. In questa sede si evidenzia come tali costrutti riguardino temi degni di approfondimento in altra sede, ma non affrontabili in termini semplicistici. Essere WISE non è un riconoscimento o un premio, ma il frutto dell’applicazione di categorie analitiche a casi concreti.

I modelli

La definizione del perimetro delle WISE è solo il primo dei passaggi analitici che si intendono proporre. All’interno del perimetro delle WISE è possibile individuare nelle diverse esperienze europee almeno tre modelli, che saranno di seguito descritti. Prima di approfondirne i tratti distintivi, va comunque evidenziato che ci si riferisce a tre modelli interni al perimetro WISE, che quindi condividono le caratteristiche unificanti illustrate nel paragrafo precedente: hanno uno scopo esplicito di inserimento lavorativo, svolgono attività produttive che sono la fonte predominante di reddito, impiegano lavoratori svantaggiati retribuendoli in modo non simbolico, pagando loro un salario paragonabile a quello degli altri lavoratori. Ovviamente, quando si passa dal modello analitico ai casi concreti si troveranno situazioni intermedie, in cui si riscontrano in una WISE caratteristiche tipiche di più di un modello.

Ancora una volta, va notato che i tipi di WISE descritti di seguito sono indipendenti dalle loro forme giuridiche: ci possono essere WISE con la stessa forma giuridica che appartengono a modelli diversi e WISE con forme giuridiche diverse che sono classificabili nello stesso modello. Questa indipendenza della forma giuridica è preziosa per poter confrontare organizzazioni che operano all’interno di sistemi nazionali che sono anche molto diversi tra loro. Lo stesso si può dire con riferimento alle denominazioni, anche quelle che non coincidono con forme giuridiche specifiche; il caso più evidente è quello dei “laboratori protetti” che, sulla base delle diverse evoluzioni avvenute in alcuni dei Paesi europei – si fa riferimento su questo aspetto al saggio di Giulia Galera e Giulia Tallarini pubblicato in questo numero della rivista – in cui questa forma è presente, almeno in alcuni Paesi hanno assunto caratteristiche che li collocano nell’uno o nell’altro modello di WISE (mentre in altri casi rimangono strutture non assimilabili alle WISE e quindi non sono oggetto di questa analisi).

I modelli presentati di seguito mirano a identificare sottoinsiemi di WISE accomunati da una pluralità di elementi diversi: imprenditoriali, relativi alle pratiche di inserimento lavorativo, alla collocazione nelle politiche, alla cultura d’impresa, ecc. Non è una singola caratteristica che identifica un modello di WISE, ma la convergenza di più caratteristiche correlate che possono presentarsi in modo più o meno marcato. Lo sviluppo di questa impostazione ha quindi richiesto – sempre rimanendo fedeli all’indipendenza dalla forma giuridica, concentrandosi invece su aspetti sostanziali – di elaborare una griglia di analisi utile a far emergere le caratteristiche specifiche di ciascuno modello.

Ciò premesso, i tre modelli considerati sono:

  • WISE Produttive (o, nei documenti europei, Productive WISEs, PW)
  • WISE Sociali (o, nei documenti europei, Social WISEs, SW)
  • WISE Formative (o, nei documenti europei, Training WISEs, TW).

I tratti di base di ciascuno modello sono evidenziati nel diagramma (Figura 2) e sono poi approfonditi nei paragrafi seguenti, avvalendosi di tabelle comparative in cui sono schematizzate le caratteristiche esaminate per classificare le WISE nei tre modelli.

Figura 2. Modelli di WISE. Schema generale.

Le WISE Produttive (PW)

Sono WISE fortemente orientate alla produzione; la loro sostenibilità dipende esclusivamente o quasi dalla vendita di beni e servizi sul mercato, dove competono con altre imprese, sia WISE che, soprattutto, non WISE; non dispongono invece di proventi significativi derivanti da attività formative o dal riconoscimento del lavoro sociale svolto nei confronti dei lavoratori svantaggiati. Possono raggiungere una dimensione economica rilevante (spesso alcuni milioni di euro, talvolta alcune decine di milioni di euro), dando in questo caso lavoro a centinaia di persone e diventando attori imprenditoriali significativi nel territorio in cui operano. Soprattutto le unità più grandi (ma non solo) effettuano investimenti significativi in impianti di produzione, veicoli, strumenti di lavoro, tecnologie avanzate, ecc. e talvolta le loro immobilizzazioni ammontano nei bilanci ad alcuni milioni di euro. Operano in diversi settori di attività, dai servizi ambientali (raccolta differenziata, recupero di materiali usati) alle pulizie civili e industriali, dalla gestione delle aree verdi ai vari tipi di stabilimenti produttivi; spesso svolgono più di una attività, avendo nel corso del tempo scelto di differenziare i settori rispetto agli ambiti di partenza. Spesso operano in settori che consentono di mettere all’opera squadre in cui è possibile affiancare lavoratori svantaggiati e non. Competono in generale con imprese non WISE sia sul mercato degli appalti pubblici che (prevalentemente) sul mercato privato.

I lavoratori svantaggiati sono nella grande maggioranza regolarmente assunti e retribuiti secondo contratti collettivi di lavoro (in Italia, o il CCNL delle cooperative sociali o quello relativo al settore di attività), con l’obiettivo esplicito che lo stipendio porti all’indipendenza economica; i lavoratori svantaggiati con inquadramenti diversi (ad esempio tirocini) sono presenti in misura analoga a quella prevista per la generalità delle imprese da ciascuna normativa nazionale. Laddove la forma giuridica lo consenta – l’esempio più evidente è quello comune in Italia delle WISE in forma di società cooperative – i lavoratori svantaggiati sono o comunque possono essere soci della WISE.

La cultura d’impresa è fortemente orientata all’imprenditorialità e considera centrale il raggiungimento dell’autonomia economica del lavoratore svantaggiato: il lavoro e la conseguente remunerazione non sono concepiti come una mera “gratificazione” legata ad un percorso di inserimento sociale, ma come uno strumento di effettiva autonomia personale, che permette ai lavoratori svantaggiati di non essere (e di non percepirsi) più come fruitori di un servizio, ma come persone che hanno conquistato o riconquistato la propria autonomia, in grado quindi di vivere del proprio lavoro e di progettare un percorso di vita grazie a questo (trovare e mantenere una casa, acquistare un’automobile, avere una propria famiglia e dei figli, ecc.). L’aspetto principale di cui il lavoratore svantaggiato beneficia è l’occupazione – si intende, in un ambiente accogliente, attento alle sue esigenze e, in generale, in grado di tollerare maggiormente, rispetto alle imprese non WISE, eventuali momenti di difficoltà; sono invece meno diffuse, con l’eccezione di alcune imprese eccellenti, altre forme di intervento mirate a soddisfare esigenze diverse (es. alloggio, assistenza sociale, interventi educativi, azioni di presa in carico del nucleo familiare, ecc.).

In generale, le WISE Produttive prevedono (o aspirano a prevedere) la presenza di operatori specifici incaricati di supportare i percorsi di inserimento lavorativo, variamente denominati (in Italia, ad esempio, figurano spesso come “operatori dell’inserimento lavorativo”) e generalmente non coincidenti (o, quantomeno, non necessariamente coincidenti) con la figura che riveste una responsabilità organizzativa relativamente al lavoro della persona svantaggiata e di altri lavoratori (caposquadra). Talvolta negli organigrammi sono presenti anche figure con una responsabilità di secondo livello rispetto ai percorsi di inserimento lavorativo. Il fatto che l’operatore dell’inserimento lavorativo sia presente o meno dipende però dalle disponibilità economiche, che variano moltissimo da Paese a Paese e, in uno stesso Paese, nel corso del tempo; in Italia, ad esempio, tali figure, rispetto alle quali si trova abbondante documentazione già negli anni Novanta (si vedano, a titolo di esempio, le tavole di supporto per il progetto di inserimento lavorativo sul numero 9/1993 di Impresa Sociale; in generale la prima serie di Impresa Sociale mostra come trent’anni fa il tema fosse comunemente discusso tra le imprese sociali del nostro Paese), sono ad oggi mantenute da alcune WISE produttive, mentre altre incontrano difficoltà crescenti ad assicurare risorse adeguate per questa funzione.

In ogni caso va riconosciuto che, anche laddove (come nel nostro Paese) il sostegno pubblico a tale funzione sia carente o assente, nella maggior parte dei casi le WISE cercano, per quanto possibile, di garantire alcune forme di sostegno, che spesso però, date le poche risorse, si traducono in un impegno informale e senza tempo lavoro dedicato, assicurato da alcuni lavoratori secondo la loro personale disponibilità.

Ci sono sia WISE orientate a mantenere temporaneamente i lavoratori svantaggiati mirando poi a collocarli in altre imprese, sia WISE in cui i lavoratori svantaggiati rimangono permanentemente (a meno che scelte o situazioni individuali li portino a esiti diverse). In generale, questa seconda soluzione appare più diffusa, anche se ciò dipende in parte dal tipo di svantaggio e dalle politiche di sostegno pubblico, che in alcuni casi prevedono che l’inserimento sia tassativamente temporaneo (Francia, Austria, Spagna). La prima soluzione è ovviamente più costosa per le WISE, perché, oltre ai costi di collocamento che talvolta la WISE si assume, implica la sostituzione di persone che hanno accumulato competenze ed esperienza per ricominciare da capo lo stesso lavoro con un nuovo lavoratore svantaggiato inesperto. Solo in poche esperienze eccellenti ciò può avvenire in assenza di politiche significative di sostegno pubblico.

Il tipo di svantaggio delle persone inserite dipende da diversi fattori, come la mission della WISE e, talvolta, nel contesto europeo, da normative specifiche, che prevedono di concentrarsi su un particolare tipo di svantaggio (ad esempio, le persone con disabilità). In assenza di tali previsioni di legge, il tipo di svantaggio tende ad essere misto, cercando di rendere compatibili gli aspetti di integrazione lavorativa e produzione. Non va nascosto che, nei Paesi con un regime di sostegno pubblico debole, talune WISE possono essere tentate, a causa dell’esposizione alla forte concorrenza e della conseguente necessità di praticare prezzi sempre più aggressivi, a scegliere gli “svantaggiati meno svantaggiati” e quindi più produttivi.

Con riferimento al nostro Paese (e anche all’intero continente europeo), si tratta del modello largamente prevalente. La conformazione più tipica delle cooperative sociali di inserimento lavorativo segue questo modello.

Tabella 2. WISE Produttive: caratteristiche.

Le WISE Sociali (SW)

Le WISE Sociali nascono generalmente all’interno di organizzazioni che mirano a realizzare un complesso di interventi diversi (ad esempio, azioni educative e assistenziali, azioni di inclusione sociale, ecc.), legati in senso lato all’area del welfare, a favore di gruppi con caratteristiche specifiche di svantaggio: ad esempio, persone con disabilità intellettiva, persone con problemi di salute mentale, persone senza fissa dimora, donne sole con bambini o vittime di violenza, e così via. Nell’ambito del più ampio intervento rivolto alle persone, le WISE Sociali attivano percorsi finalizzati all’occupazione, poiché il la sfera occupazionale è considerata un aspetto decisivo per l’integrazione sociale e il benessere degli utenti.

Alcune di queste attività hanno avuto origine inizialmente con scopi di terapia occupazionale, considerando l’impiego in attività para-produttive come un’azione educativa e di empowerment di cui gli utenti possono beneficiare; per questo gli utenti sono incoraggiati nei loro sforzi attraverso piccoli compensi economici. Tali compensi, almeno originariamente, non erano inquadrati come forme di remunerazione effettiva, ma rappresentavano un elemento importante per il loro valore educativo e simbolico, come incentivi nei confronti della persona svantaggiata a cercare di migliorare le proprie capacità.

In alcuni casi, quelli di interesse per il presente rapporto, le attività sopra descritte si sono comunque evolute in attività produttive, capaci di generare ricavi attraverso la vendita di beni o servizi e, di conseguenza, in grado di produrre risorse utili a garantire una remunerazione non simbolica per le persone svantaggiate inserite. Queste sono appunto le WISE Sociali. In alcuni casi l’origine “sociale” della WISE appartiene alla storia remota dell’organizzazione e alla data attuale la WISE è per molti versi simile ad una WISE Produttiva, ma in altri, pur essendo pienamente all’interno del perimetro WISE (una quota significativa dei ricavi deriva dalla vendita di beni e servizi e una quota significativa dei lavoratori è remunerata in modo non meramente simbolico) rimangono evidenti caratteristiche di WISE sociale qui descritte.

Se la vocazione sociale originaria continua ad essere attuata all’interno del WISE, i ricavi per le attività produttive e le remunerazioni per le attività assistenziali nei confronti delle stesse persone svantaggiate sono compresenti; e coesistono lavoratori retribuiti e utenti di servizi con remunerazione simbolica. Più frequentemente, tuttavia, la vocazione sociale si attua all’interno di un “Gruppo di economia sociale”, di cui si tratterà in modo diffuso più avanti e la persona svantaggiata ha al tempo stesso un piccolo incarico lavorativo dalla WISE, mentre è utente di un altro ente ad essa collegato che opera nel campo del welfare.

In queste WISE l’integrazione lavorativa è parte integrante di un più ampio progetto sociale e quindi o la WISE stessa o organizzazioni ad essa collegate generalmente prendono in carico aspetti diversi da quelli lavorativi quali l’accesso ad una abitazione o il benessere psicologico delle persone inserite, anche lavorando in sinergia con servizi pubblici e di Terzo settore che si occupano specificamente di tali interventi; e, anche nello specifico momento della produzione, è presente personale che svolge attività di sostegno alle persone inserite, operando secondo regole organizzative ben definite; la WISE trova, spesso anche grazie alla relazione con altri soggetti di economia sociale inseriti in uno stesso gruppo di organizzazioni, risorse che consentono a questi operatori di svolgere il loro compito senza essere totalmente assorbiti dalla produzione.

L’equilibrio economico è assicurato da una combinazione di risorse tratte dal mercato e risorse che la WISE percepisce a vario titolo (a seconda delle normative nazionali) a fronte del lavoro sociale svolto. Queste risorse possono provenire direttamente dalla pubblica amministrazione (ad esempio, sotto forma di corrispettivi per l’integrazione di determinati utenti in attività produttive) o da un’organizzazione collegata che ha in carico i lavoratori svantaggiati come utenti e che pertanto contribuisce a finanziare la WISE perché con il suo intervento completa il progetto di integrazione sociale delle persone inserite.

Ci possono essere casi di coesistenza di lavoratori svantaggiati regolarmente retribuiti e di altri che partecipano alle attività WISE come utenti; possono essere adottate politiche retributive che prevedono compensi minimi che, anche se non sufficienti per l’autonomia delle persone, hanno un forte valore simbolico perché rendono evidente come la persona svantaggiata possa essere a tutti gli effetti un produttore di reddito, anche se minimo, e non solo un utente. Va inoltre considerato che le legislazioni nazionali prevedono spesso trasferimenti economici a favore di determinate categorie di lavoratori svantaggiati (ad esempio, le persone con disabilità) sotto forma di pensioni e indennità. Pertanto, il reddito è talvolta considerato come complementare a tali trasferimenti, prestando attenzione a non superare i limiti che determinerebbero la decadenza del sussidio.

In questi e in altri casi accade che la persona svantaggiata lavori un numero di ore molto limitato (meno di 10 ore settimanali o talvolta con istituti contrattuali che consentono di lavorare in modo discontinuo su chiamata) con conseguente remunerazione mensile contenuta, anche quando siano applicate le paghe orarie contrattuali. Ciò può derivare da una oggettiva difficoltà della persona svantaggiata a lavorare per un numero maggiore di ore, dalla scelta appunto di voler contenere il reddito sotto i livelli in cui determinerebbe il venir meno di trasferimenti assistenziali o comunque dal fatto che l’obiettivo dell’autonomia, centrale per le WISE Produttive, non è invece altrettanto centrale per le WISE Sociali, dove il lavoro è funzionale alla crescita personale e all’integrazione sociale e dove quindi la dimostrazione della capacità della persona svantaggiata di produrre è già di per sé l’obiettivo di successo da perseguire, senza che debba portare alla effettiva indipendenza economica.

Le WISE Sociali includono persone con diversi tipi di svantaggio: ad esempio persone con gravi disabilità quali deficit cognitivi, pazienti psichiatrici, persone provenienti da percorsi di esclusione estrema (ad esempio, persone senza dimora). In altri casi, il tipo di svantaggio è meno marcato in termini di riduzione della capacità lavorativa (ad esempio, donne sole, donne vittime di violenza), ma il valore sociale connesso all’inclusione in un’attività professionale è comunque forte. Soprattutto nei casi di svantaggio più grave, le persone svantaggiate rimangono permanentemente nella WISE.

Le WISE sociali possono operare in vari campi di attività come laboratori di ristorazione e di produzione alimentare, agricoltura sociale, assemblaggio, laboratori tessili, sartoria, accoglienza turistica, negozi, ecc. Ci sono WISE Sociali in cui l’attività si caratterizza per il suo aspetto di “laboratorio”, ovvero la possibilità di operare in un contesto relativamente protetto, impostando tempi e metodi di produzione coerenti con le caratteristiche delle persone coinvolte. Il contesto laboratoriale facilita anche l’azione degli operatori dell’inserimento lavorativo, che lavorano così a stretto contatto con le persone svantaggiate e possono valorizzare la dimensione del gruppo. In altri casi, le WISE hanno scelto appositamente un’attività a contatto con il pubblico (es. negozio) per il valore “politico” di questa scelta nella lotta ai pregiudizi: ciò offre una dimostrazione concreta alla cittadinanza che anche le persone generalmente considerate incapaci di lavorare possano invece realizzare prodotti di qualità, favorendo così un cambiamento di mentalità nella cittadinanza al fine di contribuire alla costruzione di società più coese. Il livello di utilizzo della tecnologia è generalmente moderato, fatti salvi alcuni Paesi dove vi sono significative politiche di sostegno alle WISE ed esse sviluppano significative tecnologie assistive o comunque soluzioni che rendono più facile il lavoro a persone con disabilità; negli altri Paesi la scelta è invece di individuare attività sufficientemente semplici da essere realizzabili anche da persone con una forte riduzione della capacità lavorativa.

Con riferimento all’Italia, questo modello, pur meno diffuso rispetto a quello delle WISE Produttive, è comunque presente in modo non residuale; spesso si tratta di cooperative sociali di inserimento lavorativo originate da cooperative sociali operanti nel campo del welfare o di cooperative ad oggetto plurimo, che desiderano trovare opportunità lavorative per gli utenti che mostrano maggiori capacità e che ritengono auspicabile anche per alcuni altri il potersi misurare con un contesto produttivo a fini di crescita personale. Spesso tali esperienze coinvolgono persone con forme di svantaggio assai marcate, ad esempio con disabilità psichica, e spesso si sostengono anche grazie ad una forte presenza di volontari o familiari delle persone inserite.

Tabella 3. WISE Sociali: caratteristiche.

Le WISE Formative (TW)

Le WISE formative nascono dall’evoluzione delle organizzazioni che svolgono attività di formazione e hanno sviluppato un’attenzione specifica al trattamento dei gruppi vulnerabili, ad esempio NEET o persone con disabilità. Si tratta di organizzazioni che in alcuni casi hanno raggiunto una dimensione significativa sia in termini di persone formate sia di attrezzature produttive funzionali alle attività formative e che, ad un certo punto della loro storia, hanno ritenuto importante integrare l’offerta formativa con la realizzazione di attività produttive in cui i tirocinanti o le persone appena formate potessero sperimentare direttamente i ritmi e le esigenze di un contesto lavorativo reale.

Ciò ha dato origine a unità produttive che vendono beni e servizi ai clienti e, così facendo, ricavano una parte non trascurabile della loro sostenibilità. Sebbene si tratti di esperienze non molto diffuse nei diversi Paesi europei e sebbene i valori economici dell’attività produttiva rimangano in molti casi modesti, si tratta di casi di grande interesse per la sperimentazione di forme di integrazione tra aspetto formativo e lavorativo.

Come nelle WISE sociali, anche le WISE formative spesso mantengono forti relazioni con una “organizzazione madre”, che contribuisce direttamente o indirettamente alla loro sostenibilità, ad esempio mettendo a disposizione locali e attrezzature acquistati per finalità formative, contribuendo agli investimenti o sostenendo i costi del personale che lavora sia nelle attività formative dell’organizzazione madre, sia nella WISE.

I settori di attività possono essere vari, anche se il settore della ristorazione e della produzione alimentare sembra più diffuso di altri.

A volte le attività imprenditoriali rimangono un mero sottoprodotto dell’attività formativa principale e hanno dimensioni imprenditoriali minime; in altri casi, si sono evoluti nel tempo, diventando vere e proprie WISE Formative.

Queste WISE, in linea con le loro origini, sono strutturate per formare le persone in vista del loro successivo inserimento nel mercato del lavoro ordinario; generalmente non si considerano come l’approdo finale per le WSN, ma come un “ponte” verso successive esperienze lavorative e quindi differiscono dagli altri modelli di WISE per diverse caratteristiche.

In primo luogo, le attività di formazione non sono occasionali ed episodiche, né limitate alla “formazione on the job” che caratterizza la maggior parte delle WISE Produttive, ma sono una parte fondamentale e strutturata del progetto di integrazione, talvolta precedente all’inserimento lavorativo, talvolta contemporanea. In secondo luogo, diversamente dalle WISE sociali, dove il lavoratore svantaggiato è di norma integrato in modo permanente in un contesto relativamente protetto, le WISE formative tendono a strutturare attività di job placement verso imprese non WISE a completamento del progetto di inserimento lavorativo. A questo esito contribuiscono anche le relazioni che la WISE o l’organizzazione madre operante in ambito formativo hanno nel tempo strutturato con le imprese del settore, le quali considerano le persone formate dalla WISE come un potenziale bacino per trovare personale. Da qui la terza caratteristica distintiva: la permanenza delle WSN è generalmente piuttosto breve (a volte quantificabile in mesi, a volte in pochi anni) rispetto alle WISE Produttive e alle WISE Formative. Per concretizzare questo obiettivo è necessario, ovviamente, oltre alla formazione e al supporto da parte della WISE, che lavoratore svantaggiato si trovi in una situazione in cui è stimolato a migliorare significativamente le sue competenze, in modo da poter aspirare, dopo un periodo in WISE, ad un impiego in un’impresa non WISE.

Lo status delle persone occupate spesso è piuttosto “elastico”: soprattutto laddove i periodi di permanenza nella WISE sono brevi, anche se le attività svolte consistono nella vendita di beni e servizi sul mercato, possono coesistere persone occupate (eventualmente con contratti specifici dedicati a chi entra nel mondo del lavoro, in Italia tipicamente il contratto di apprendistato) e persone con uno status legato alla fase di formazione (es. tirocini).

In Italia esperienze di questo tipo sono abbastanza rare, si tratta probabilmente di alcune decine di casi in tutto il Paese, frutto di evoluzioni produttive all’interno di enti formativi. Malgrado la loro residualità numerica, si tratta di esperienze che è utile considerare perché costringono a interrogarsi – in generale, anche con riferimento alle WISE Produttive – sulla funzione della crescita professionale all’interno del percorso di inserimento e sul modo per supportarla.

Tabella 4. WISE Formative: caratteristiche.

Nella Tabella 5 le valutazioni di cui sopra sono mostrate sinotticamente. Gli elementi caratterizzanti di ogni WISE sono bordati di rosso.

Tabella 5.  Valutazioni delle Tabelle precedenti mostrate sinotticamente. Gli elementi caratterizzanti di ogni WISE sono bordati di rosso.

WISE sociali, WISE Formative e gruppi di economia sociale

Come si è evidenziato nei paragrafi precedenti, soprattutto nel caso delle WISE Sociali e di WISE Formative, una corretta comprensione della loro natura e del loro modo di operare, richiede spesso di considerare la WISE all’interno di una “logica di gruppo”; in molti casi, in fatti, le WISE fanno spesso parte di entità organizzative collettive, variamente denominate e strutturate sulla base delle normative nazionali. Ad esempio, possiamo immaginare una WISE Sociale che gestisce un negozio dove lavorano alcune persone svantaggiate con disabilità intellettiva o con problemi di disagio mentale, che sono al tempo stesso utenti di un altro ente, che opera in modo strettamente integrato con la WISE e che realizza varie attività assistenziali (cura, istruzione, housing, ecc.); dello stesso gruppo fanno parte un soggetto che si occupa di sensibilizzazione, attività culturali, editoria, tutto finalizzato a promuovere la causa delle persone svantaggiate inserite e un’associazione di familiari, che supporta le diverse attività del gruppo, ad esempio con volontariato, raccolta fondi o con azioni di advocacy presso le istituzioni, ecc. Possono far parte del gruppo, talvolta, anche attività con una valenza sociale meno esplicita, che contribuiscono però, grazie ai margini realizzati, al finanziamento delle attività realizzate. Generalmente si può individuare, all’interno del gruppo, una organizzazione che riveste un ruolo guida o perché economicamente è più rilevante, o perché ha contribuito ad originare le altre unità, perché vi ha storicamente operato un fondatore riconosciuto da tutti come ispiratore del gruppo, ecc.

Tutti questi soggetti possono essere connessi attraverso legami formali, quali l’essere parte di un ente di secondo livello, oppure grazie al fatto che gli amministratori delle diverse entità coincidono parzialmente, con talune figure quindi che contribuiscono ad amministrare più unità; spesso, ancora, tutti i soggetti si riconoscono all’interno di una storia comune, si rifanno all’opera di uno stesso fondatore o ad un sistema di ideali che tutti condividono. Ovviamente tali forme di connessione possono combinarsi tra loro e variare sulla base delle tradizioni nazionali e dei sistemi culturali in cui nascono, ma in ogni caso vanno a definire quello che si propone di identificare come “Gruppo di economia sociale”.

Figura 3. Esempio di un gruppo di economia sociale che include alcune WISE.

Con riferimento al nostro Paese, possiamo individuare diverse soluzioni interpretabili come gruppo di economia sociale: certamente alcuni consorzi di cooperative sociali rivestono la funzione qui descritta (mentre altri hanno valenze diverse), così come i casi di spin off tra cooperative sociali, così come altre aggregazioni che nascono intorno a soggetti con una forte identità (anche non costituiti in forma di impresa, come talune associazioni) che originano una pluralità di soggetti di economia sociale tra cui anche le WISE.

I Gruppi di economia sociale vanno letti in modo dinamico: può avvenire che nel gruppo nascano, grazie a meccanismi di spin off e/o opere di promozione, nuove unità che sviluppano una specifica attività. Ma può anche accadere che nascano tensioni tra le diverse unità del gruppo, per diversi motivi: una unità reclama una maggiore indipendenza, mostra insofferenza verso le modalità di gestione definite centralmente o le ritiene penalizzanti rispetto alle proprie esigenze di sviluppo; oppure, con il ritiro dalle attività o il decesso del fondatore, non si riesce ad individuare una nuova leadership ugualmente indiscutibile; o, ancora, in fasi economiche più difficili, i meccanismi di accentramento e distribuzione delle risorse vanno in affanno o talune unità entrano in crisi, mettendo il gruppo di fronte alla scelta di sostenerle ulteriormente – con il rischio di mettere in crisi l’intero sistema – o lasciarle affondare, affrontando i contraccolpi sul morale, economici, occupazionali, di immagine che una circostanza di questo genere riversa su un sistema fortemente integrato. Tutto ciò può generare spinte centrifughe che portano talune unità fuori dal gruppo, cambi anche traumatici nella governance, scissioni, ecc. Ancora, può avvenire, anche se con maggiore difficoltà, che il Gruppo di economia sociale eserciti una forza attrattiva verso unità esterne, anche nate da tradizioni e origini diverse, ma che aspirano ad entrarvi; non si tratta di dinamiche facili, data la natura fortemente identitaria delle relazioni, ma può avvenire che il gruppo si ingrandisca con questo tipo di ingressi. In ogni caso, il perimetro di Gruppo di economia sociale non è da considerarsi come dato una volta per tutte, ma è sottoposto nel corso del tempo a successive ridefinizioni.

A volte questa integrazione di più unità organizzative può includere anche flussi economici espliciti (un’unità del gruppo sostiene economicamente le attività di un’altra unità economicamente più debole, ma che il gruppo considera socialmente significative) o, più spesso, flussi impliciti: coloro che lavorano in alcune unità del gruppo sono effettivamente pagati da un’altra unità, generalmente quella economicamente più forte; o una delle unità del gruppo possiede beni immobili, strumenti produttivi, veicoli, ecc., che però sono comunemente utilizzati anche da altre unità gratuitamente o a prezzo di favore. In questi casi, appare ancor più evidente come la corretta considerazione della natura e dell’operato della WISE richieda di considerarla nell’ambito delle sue relazioni all’interno di un gruppo di organizzazioni fortemente integrato, che esprime obiettivi comuni e condivisi, uno dei quali è l’integrazione lavorativa delle persone svantaggiate. Tanto la sostenibilità economica, quanto l’effettivo impatto delle azioni sociali diventano comprensibili nel momento in cui la WISE è considerata come parte di un “Gruppo di economia sociale” nel senso sopra evidenziato. In specifico, nella maggior parte dei casi individuati, le WISE formative e le WISE sociali appaiono essere frequentemente organizzazioni generate da un gruppo di economia sociale e da esso fortemente sostenute, mentre le WISE produttive, laddove inserite in tali contesti, vi operano in modo più paritario. Ma anche laddove i flussi economici sono meno evidenti, la WISE all’interno di un gruppo è comunque fortemente influenzata dal punto di vista culturale, operativo, ecc. dall’appartenenza al gruppo stesso.

In molti dei casi rilevati in diversi Paesi europei, all’interno di questi gruppi la WISE (che assume chiare caratteristiche di WISE Sociale) appare a prima vista come il soggetto economicamente più debole, in grado di operare solo grazie al sostegno economico degli altri soggetti del gruppo: tipicamente, anche quando non vi sono trasferimenti diretti a favore della WISE, i suoi dirigenti sono in realtà stipendiati da altre organizzazioni del gruppo, sedi e attrezzature sono di proprietà di altre organizzazioni e sono rese disponibili con costi simbolici: questo porterebbe a pensare la WISE come soggetto secondario nella compagine. In realtà questa lettura è solo parzialmente vera; il punto di partenza è che l’organizzazione “madre” del gruppo, che opera generalmente in ambito assistenziale (meno spesso in ambito formativo) parte dalla consapevolezza circa la necessità di integrare la propria funzione sociale con una o più attività volte a promuovere l’occupazione delle persone svantaggiate o, quantomeno, ad avvicinarle ad uno status occupazionale; ciò può prevedere l’apprendimento di un mestiere, la socializzazione dell’ambiente di lavoro, il senso di soddisfazione per la retribuzione ricevuta, ecc. Inoltre, come si è visto a proposito delle WISE sociali, laddove l’attività lavorativa si svolga in contesti aperti al pubblico, come un negozio, ciò costituisce una forma molto efficace di vetrina pubblica sull’operato del gruppo. La lettura più corretta è probabilmente quella di una simbiosi tra l’organizzazione “madre” operante nel campo del welfare e la WISE: il progetto sociale dell’organizzazione “madre” sarebbe incompleto senza la WISE, e la WISE non sarebbe in grado di sostenersi autonomamente, senza l’organizzazione “madre”, almeno a breve termine; ciò è testimoniato dal fatto che spesso l’organizzazione madre considera la WISE come un “fiore all’occhiello” del Gruppo, ama rappresentarla nella comunicazione pubblica, considerandola una prova della mentalità imprenditoriale e dinamica del gruppo e come testimonianza che l’azione di integrazione del Gruppo approdi ad esiti non assistenziali.

Transizioni tra modelli

La descrizione dei tre idealtipi e l’attenzione posta alle caratteristiche che differenziano i modelli tra loro non deve portarci a sottovalutare le dinamiche di trasformazione che possono interessare le WISE. Il quadro è dinamico, e organizzazioni nate inizialmente con tratti che le avvicinano ad un determinato modello possono nel corso del tempo maturare caratteristiche diverse.

L’origine stessa delle WISE Sociali e delle WISE Formative è stata indicata in una transizione da parte di organizzazioni dell’economia sociale non WISE, operanti nell’ambito del welfare o della formazione professionale, che hanno dato vita a una WISE per completare il loro progetto di intervento.

Ci sono WISE Sociali che si sono evolute nel tempo, alcune mantenendo parte delle caratteristiche originali, ad esempio legate alla presenza di educatori o altre professioni socioassistenziali e a percorsi di inserimento molti attenti ad aspetti di cura della persona, altre invece evolvendo verso un modello nitido di WISE Produttiva (S2PW). Allo stesso modo può accadere che WISE Produttive considerino importante provvedere a funzioni relative al benessere della persona inserita anche in ambiti diversi dal lavoro e organizzino quindi – magari a partire da forme particolarmente estese di welfare aziendale – interventi di housing, sostegno psicologico, nidi aziendali, forme di assistenza integrativa e altro a favore dei propri lavoratori, in particolare delle persone svantaggiate. Questo può avvenire in modo più immediato nei Paesi in cui le WISE godono di sostegni pubblici significativi, ma anche, quantomeno nei casi di imprese eccellenti, i Paesi come l’Italia che hanno forme di sostegno più contento, anche grazie alla capacità delle WISE di aggregare risorse comunitarie di vario genere (donazioni, filantropia istituzionale, volontariato diffuso, ecc.), grazie alle quali sono in grado di dotarsi di interventi di welfare strutturati.

Tutto ciò porta a considerare l’opportunità, laddove si utilizzino le categorie qui proposte per analizzare una specifica WISE, di considerare non solo l’ovvia presenza di situazioni intermedie – e non potrebbe essere diversamente, essedo i tre modelli concepiti come tipi ideali – ma anche di dinamiche trasformative che interessano tutti i modelli; ogni WISE è un organismo vivente, che evolve sulla base del contesto circostante e della sensibilità delle persone che la guidano e va pertanto compresa nella sua traiettoria di sviluppo.

L'irresistibile forza attrattiva delle WISE Produttive

Ci sono aspetti di percezione che rappresentano essi stessi elementi conoscitivi, anche a prescindere dal fatto che tali percezioni si basino o meno su elementi reali; anzi, ancor più quando le percezioni contrastano con la realtà dei fatti ciò indica la presenza di fenomeni che è utile comprendere.

In premessa va evidenziato come, nel corso della ricerca, si siano presentati i diversi modelli di WISE come opzioni sullo stesso piano, senza gerarchie valutative, e si sia in più sedi evidenziato come non vi sia un modello intrinsecamente “più WISE” di un altro e come al tempo stesso ciascun modello rischi, laddove enfatizzi a dismisura talune proprie caratteristiche, di fuoriuscire dal perimetro WISE o comunque di far prevalere i lati discutibili associati a ciascun modello.

Malgrado ciò, è apparsa evidente una tensione in tutto il continente europeo – in taluni casi nei fatti, in altri negli auspici – verso il modello delle WISE Produttive. Tale modello sembra avere un fascino significativo non solo nei Paesi in cui è stato tradizionalmente prevalente, ma anche dove erano presenti unità che potevano ragionevolmente evolvere verso un modello di WISE Sociale, come i Paesi in cui le WISE derivano dell’evoluzione dei laboratori protetti.

In primo luogo, tutto ciò può essere valutato in termini positivi: le WISE aderiscono, idealmente e nei fatti, ad un modello di cui colgono la forza imprenditoriale, l’atteggiamento dinamico, la ricerca dell’innovazione, l’autonomia dai poteri pubblici grazie alla capacità di sostenersi sul mercato, la professionalità, la qualità dei servizi resi, la propensione ad investire: un modello che segna un distacco netto dai vecchi laboratori protetti che ha portato molte WISE in Europa a diventare imprese eccellenti, punto di riferimento nel loro contesto territoriale e nei loro settori di attività, ben lontane dall’immagine un po’ trasandata e approssimativa e sicuramente “assistenziale” delle WISE tipica di alcuni luoghi comuni.

Al tempo stesso pare utile introdurre alcune cautele.

Il primo elemento è che, proprio per la forza evocativa del modello di WISE Produttiva, vi è una rincorsa a definirsi tali anche da parte di WISE pur eccellenti, ma che hanno oggettivamente una natura diversa. WISE con un fatturato di 50-60 mila euro, una trentina di svantaggiati inseriti (ovviamente, ciascuno impegnato per poche ore alla settimana e con compensi mensili minimi), affermano senza esitazioni di essere parte del modello di WISE Produttiva. Ciò evidenzia da una parte un indiscutibile segnale del successo culturale di questo modello, ma la difficoltà di percepire la ricchezza e la possibile complementarità di modelli diversi; e, da un punto di vista della ricerca, rappresenta una tendenza da non assecondare, pena lo svuotare di significato ogni sforzo analitico.

Il secondo aspetto è più delicato. Ogni tendenza culturale porta con sé rischi di cui è bene essere consapevoli. L’enfasi sulla natura imprenditoriale delle WISE ha portato prima le WISE stesse e poi – aspetto problematico – le politiche a non vedere la loro funzione sociale e formativa. Se “WISE = assunzioni”, rischia di essere tralasciato un altro aspetto caratterizzante e incluso nella definizione proposta: nella WISE si cresce, si fa – per utilizzare un’espressione tipica della tradizione italiana – un “percorso di inserimento lavorativo”, che, ricordando le già citate elaborazioni del nostro Paese di oltre trent’anni fa, comprende strumenti per sostenere e verificare l’acquisizione di soft skill, di competenze professionali e di autonomia, ecc. da parte della persona svantaggiata e, almeno in taluni casi e in talune tradizioni cooperative, un’azione attiva per favorirne il successivo collocamento nel mercato del lavoro non WISE. Tutte cose che non avvengono per caso, che prevedono accorgimenti organizzativi, personale dedicato, procedure definite, ecc.; e che sono qualcosa di diverso dalla concezione – pur meritoria – della WISE come “luogo della seconda possibilità”: come mero contesto non discriminante dove una persona generalmente già produttiva che ha avuto un percorso di vita problematico come il carcere o la tossicodipendenza ha – verrebbe da dire “semplicemente”, anche se si è consapevoli che già si tratta di una gran cosa! - l’opportunità di lavorare. Ma, al di là della singola WISE, la questione è che nel momento in cui le politiche hanno questa percezione del ruolo della WISE, perdono la consapevolezza della sua specificità, la omologano ad altri datori di lavoro che a certe condizioni sono più o meno disponibili ad assunzioni di “casi sociali” e tendono di conseguenza a annacquare le politiche di supporto. È quanto, lo si vedrà nelle prossime pagine, è avvenuto, purtroppo, nel nostro Paese.

Utilità del modello

Giunti a questo punto, è utile soffermarsi su alcuni elementi di valutazione del modello proposto. Da un certo punto di vista, la strada intrapresa pare promettente: consente di comparare WISE che operano in contesti culturali diversi e in cornici giuridiche molto differenti tra loro, risultato non scontato all’inizio del percorso. La scelta di utilizzare un set di indicatori su alcune dimensioni concrete – le tabelle che nelle pagine precedenti analizzavano caratteristiche imprenditoriali, caratteristiche dell’inserimento lavorativo, relazione con le politiche – e l’utilizzo di uno schema di base molto semplice basato su tre modelli facilmente riconoscibili ha dato origine a ragionamenti comparativi originali, in grado di favorire l’inquadramento e la comprensione con criteri condivisi di unità organizzative tra loro molto diverse. Il fatto che una tassonomia relativamente semplice e lineare consenta di inquadrare in modo soddisfacente circa i due terzi delle WISE successivamente sottoposte a studio di caso fornendo una chiave di lettura utile a comprenderle, rappresenta un esito originale e non scontato. Inoltre, questa modellizzazione ha un effetto “legittimante” rispetto all’articolazione del mondo WISE: l’identificazione di modelli diversi porta con sé un orientamento a cercare complementarità, a comprendere quanto possa essere ampio lo spazio operativo per queste imprese e come le azioni possano arricchirsi reciprocamente.

Ma, per fare un passo ulteriore, è utile ragionare sui casi in cui il modello appare avere effettivamente questo valore euristico e dove invece stenta a dimostrarsi utile.

Il modello ha mostrato un buon grado di funzionamento soprattutto nei Paesi in cui il sostegno pubblico alle WISE non è troppo elevato: ad esempio, facendo riferimento ai Paesi coinvolti nel progetto B-WISE, Bulgaria, Croazia, Grecia, Italia, Lettonia, Romania e Slovenia. In questi Paesi è abbastanza facile analizzare una WISE confrontandola con l’idealtipo e individuare grazie a ciò tratti culturali e organizzativi riconducibili ad uno specifico modello, a volte in una forma “pura”, a volte con qualche carattere misto. In questi Paesi, pur richiedendo probabilmente alcuni perfezionamenti, il modello contribuisce a delineare un insieme di caratteristiche utili per comprendere la natura delle WISE e di conseguenza per inquadrare correttamente sia le politiche pubbliche, sia le strategie per lo sviluppo del settore.

Nei Paesi ad alto sostegno pubblico (ad esempio, sempre con riferimento ai Paesi coinvolti in B­-WISE, Austria, Belgio, Paesi Bassi e Spagna), troviamo una situazione più sfumata, in cui le WISE tendono a mostrare in modo sistematico caratteristiche di diversi modelli: che hanno quindi indubbie caratteristiche delle WISE Produttive (fatturati dalla vendita di beni e servizi nell’ordine di diversi milioni di euro, assumono regolarmente centinaia o migliaia di lavoratori svantaggiati, investono, ecc.), ma allo stesso tempo organizzano attività formative strutturate con il rilascio di attestati e, talvolta, offrono attività di supporto sociale, grazie ad un elevato numero di “operatori dell’inserimento lavorativo” (secondo il linguaggio italiano) che dispongono di un orario di lavoro significativo esplicitamente dedicato al supporto dei lavoratori svantaggiati e quindi scollegato dalla produzione.

Certo, anche in questi casi, in cui coesistono elementi caratteristici di diversi modelli, è possibile individuare, a livello della cultura organizzativa o di mission, una maggiore vicinanza all’uno o all’altro modello (ad esempio questo è abbastanza chiaro in diversi casi studiati in Austria e in Belgio); ma va evidenziato come senza dubbio i confini siano più sfumati e il modello risulta nei fatti utile non tanto per identificare diversi tipi di WISE, quanto per isolare diverse funzioni all’interno delle singole WISE. In alcuni Paesi (Paesi Bassi e Spagna), anche con queste precauzioni, è più difficile utilizzare il modello proposto e i protagonisti delle WISE paiono in difficoltà ad individuarne la pregnanza, in quanto tendono a dare per scontato che tutte e tre le funzioni (o almeno quella produttiva e quella formativa) siano naturalmente compresenti in una WISE e che tutte queste funzioni abbiano una collocazione organizzativa ben definita in termini di risorse, personale, ecc.

Come spesso capita nei percorsi di analisi, questa difficoltà ha rappresentato – un tipico caso di serendipity – un’anomalia che ha incoraggiato a sviluppare la riflessione in una ulteriore direzione, che chiama in campo in modo decisivo le politiche adottate dai diversi Paesi; di questo si tratterà di qui in avanti, nella seconda parte dell’articolo.

Le WISE e le politiche pubbliche

Perché una parte significative dei Paesi europei ha compreso e trovato utile la tripartizione proposta nella prima parte dell’articolo ed un certo numero di altri Paesi, pur apprezzandone l’intento tassonomico, invece faticava sia a comprenderla sia, soprattutto, ad adattarla alla propria realtà nazionale? Tale constatazione ha condotto il gruppo di ricerca ad una riflessione ulteriore, sviluppata in questa seconda parte dell’articolo.

In premessa: di quali WISE parliamo

Un assunto trasversale deve essere chiarito per tutto ciò che verrà discusso in questo capitolo. Le considerazioni svolte intendono riferirsi alla “normalità” delle WISE di ciascun Paese, pur nella consapevolezza delle difficoltà nel definire questo concetto. In ogni caso, ciò che si intende evitare è una narrazione che si riferisca alle “eccellenze” che sono pur presenti nei diversi Paesi. Quello delle “eccellenze” è un punto di vista comunemente usato, poiché, per molti scopi (ad esempio, promozione del movimento WISE o la comunicazione esterna promossa dalle WISE o dalle loro rappresentanze) c’è la tendenza a dare risalto alle best practice, con l’ovvio risultato di mettere in secondo piano eventuali sfide, ostacoli o criticità che riguardano la maggioranza delle WISE.

Il punto di vista qui adottato comporta invece di domandarsi, relativamente ai diversi aspetti empirici oggetto di indagine – ad esempio, se le WISE abbiano personale dedicato per una parte consistente del tempo lavoro alla cura dei percorsi di inserimento e quindi non alla produzione – non se in “in talune esperienze eccellenti ciò accade”, ma se tale soluzione è comune e diffusa all’interno di un determinato contesto nazionale. La narrazione basata sull’eccellenza ha certamente un valore importante: ha contribuito e contribuisce ancora oggi a rimuovere i pregiudizi di cui le WISE (e in generale le imprese sociali) sono ancora vittime – ad esempio, essere poco imprenditoriali, poco professionali, un po’ “approssimative” nell’organizzazione; cose che in realtà sono in realtà preconcetti che non corrispondono alla realtà –, aiuta a promuovere la consapevolezza di ciò che le WISE possono fare, stimola le WISE, anche quelle oggi più deboli, a trovare in esperienze eccellenti una fonte di ispirazione e di incoraggiamento circa la reale possibilità di svilupparsi. Ma una narrazione basata sull’eccellenza serve a poco quando l’obiettivo è quello di intervenire sul complesso delle WISE. Con riferimento al nostro Paese, ad esempio, la narrativa delle best practice si concentra generalmente su (per eccesso) alcune decine di casi, mentre le WISE, contando solo quelle in forma di cooperativa sociale di inserimento lavorativo, sono ben più di 5.000; solo per rifarsi ad aspetti quantitativi, una cosa è descrivere alcune decine di unità che operano, generalmente nel nord Italia, con alcune centinaia di lavoratori, un’altra è considerare che nel Mezzogiorno almeno la metà delle WISE ha un fatturato inferiore ai 100 mila euro (elaborazione Euricse su dati Aida-Bureau Van Dijk); e questo discorso si potrebbe replicare per la gran parte delle caratteristiche evidenziate nella scheda utilizzata per analizzare i diversi modelli di WISE. I ragionamenti qui condotti aspirano a riguardare la normalità delle WISE, non le eccellenze.

Solidità del sistema WISE e politiche di sostegno

Fatta questa premessa, si analizza di seguito il rapporto tra le politiche di sostegno alle WISE e il grado di sviluppo dell’ecosistema WISE in ciascun Paese. Sono considerate due variabili, relative all’ecosistema WISE di ogni Paese.

La prima variabile riguarda l’intensità del sostegno che le WISE ricevono in un Paese. Si tratta di una questione complessa perché i modelli nazionali sono molto diversi e possono comprendere una varietà di voci, come ben illustrato anche nell’articolo di Gallera e Tallarini su questo numero di Impresa Sociale:

  • sovvenzioni dello Stato o degli enti locali in forma di contributi in conto esercizio;
  • diminuzione del costo del lavoro del personale svantaggiato, degli operatori dell’inserimento lavorativo o di altre figure nella WISE;
  • forme di remunerazione del lavoro sociale, variamente configurate, ad esempio con il rimborso del costo del lavoro degli operatori dell’inserimento lavorativo o con sussidi o “rette” basate sul numero di lavoratori svantaggiati inseriti;
  • benefici fiscali specificamente legati all’inserimento lavorativo o allo status di WISE, che non generano entrate aggiuntive, ma minori spese, che però hanno lo stesso risultato sul conto economico delle WISE;
  • prestiti a tasso agevolato;
  • contributi per investimenti o progetti specifici o altre voci, giustificati dalla natura di WISE dell’ente;

Sebbene ciò non riguardi direttamente le politiche pubbliche, va notato che le WISE possono anche ricevere sostegno da soggetti privati, che riconoscono il valore del loro lavoro a beneficio della comunità; ciò include risorse non monetarie (volontariato, uso di spazi o strumenti, distacco di lavoratori da parte di altre società, ecc.) e così via; questo è stato evidenziato anche nel paragrafo precedentemente dedicato ai Gruppi di economia sociale. Tranne in casi specifici, e anche se può essere di grande interesse, la quantità di risorse concesse ai WISE da soggetti privati è di solito – quando non si consideri la singola esperienza ma il sistema WISE nel su insieme - limitata e il tema non viene approfondito qui in modo specifico.

Comunque, stante l’estrema varietà delle misure adottate, diventerebbe troppo dispendioso comparare l’impatto delle diverse politiche; si è pertanto scelto di agire “per differenza” semplificando il complesso quadro sopra richiamato in una unica domanda: qual è la quota dei ricavi derivanti dalla vendita di beni o servizi prodotti dalla WISE? Specificando, si intende, che i “ricavi delle vendite” sono ad esempio i ricavi derivanti da servizi di pulizia o ambientali, da un bene venduto in un negozio, da pasti forniti attraverso il catering o un ristorante, e così via; ciò che residua, sono di conseguenza proventi che non derivano dalla vendita di beni e servizi, ma da varie e composite forme di riconoscimento, da parte di soggetti pubblici e privati, del lavoro sociale svolto dalla WISE.

Sebbene la risposta possa essere più complicata di quanto sembri – ad esempio perché elementi occasionali come la partecipazione a un progetto europeo o un contributo di una fondazione hanno un effetto contingente in un determinato anno, ma non caratterizzano in modo continuativo il conto economico della WISE – emerge una chiara distinzione tra:

  • Paesi in cui le WISE beneficiano di un sostegno significativo (ad esempio, Austria, Belgio, Francia, Paesi Bassi, Spagna e probabilmente Polonia, anche se i dati sono carenti). In questi Paesi, i redditi derivanti da attività diverse dalla vendita di beni e servizi a clienti privati o pubblici variano nei casi studiati solitamente dal 20% al 50% e, in alcuni casi, superano il 70%.
  • Paesi in cui tale regime di sostegno è inesistente o comunque molto limitato (ad esempio, Bulgaria, Croazia, Grecia, Italia, Lettonia, Romania e probabilmente Slovenia, anche se questo caso andrebbe approfondito e valutato). Questo gruppo comprende diverse situazioni, che vanno dai casi in cui vi è una completa assenza di sostegno ai casi in cui esistono forme di sostegno limitate, ma non trascurabili; consideriamo tali i casi in cui la quota di risorse trasferite a fronte del riconoscimento del lavoro di inserimento lavorativo non supera il 20%.

L’Italia è appunto inserita in questo secondo gruppo in quanto l’unico beneficio economico stabile e diffuso di cui le WISE godono è rappresentato dalla fiscalizzazione degli oneri sociali; tale misura riduce di più di un terzo il costo del lavoro delle persone svantaggiate ufficialmente riconosciute (circa il 30% dei lavoratori totali), essendo il costo del lavoro una componente che oscilla generalmente tra il 50% e l’80% del totale dei costi, generando così nella maggior parte dei casi un beneficio equivalente ad un contributo di importo variabile tra il 5% e il 10% del fatturato.

La distinzione sopra introdotta relativa al livello di supporto non coincide necessariamente con quella relativa al grado di riconoscimento giuridico delle WISE: possono verificarsi casi in cui il riconoscimento giuridico è debole e il sistema di sostegno (non alle WISE, non essendo riconosciute, ma ai soggetti che realizzano inserimento lavorativo) è significativo (ad esempio, Austria e Paesi Bassi): si tratta quindi di politiche che non sono legate a una particolare forma giuridica, ma al tipo di attività svolta, ad esempio con contributi commisurati al numero e al tipo di persone integrate, qualunque sia l’impresa che li assume; e questo si incrocia con la presenza di alcune imprese che scelgono di specializzarsi specificamente in tale attività, in coerenza con gli scopi statutari, che diventano “WISE” di fatto ben supportate, anzi, supportate in misura maggiore anche rispetto a diversi Paesi ove esse godono di un riconoscimento giuridico compiuto.

Sebbene sia un elemento più difficile da valutare con una equivalente percentuale, va anche considerato che un ricorso intensivo e diffuso ai contratti riservati ha di fatto risultati simili a quelli del sostegno economico. I contratti riservati – nel nostro Paese sono tali le convenzioni ex articolo 5 della 381/1991, che hanno anzi rappresentato negli scorsi decenni un riferimento per il continente europeo, nonché gli affidamenti ex art. 112 del d.lgs. 50/2016 (si rimanda a questo articolo di Marocchi per approfondimenti e comparazioni tra i diversi strumenti) sono a tutti gli effetti da includere nelle “vendite di beni e servizi” come qui definiti, ma hanno caratteristiche tali da rappresentare di fatto anche una valida forma di sostegno significativa per le WISE. In altri termini, anche quando il fatturato è interamente legato ai ricavi derivanti dalla vendita di beni e servizi, se una parte significativa di tali beni e servizi è conseguita nell’ambito di appalti riservati, ciò produce un effetto di sostegno significativo, per almeno due motivi:

  • garantisce spesso di fatto l’eliminazione dagli aspetti più aspri (e deleteri) della concorrenza di mercato (anche se talvolta non sono assenti elementi di competizione tra WISE), sollevando le WISE dall’impegnarsi in feroci competizioni al ribasso;
  • offre un orizzonte temporale certo per il ritorno sull’investimento, dando una relativa sicurezza che consente di pianificare gli investimenti e quindi rafforzare la WISE.

Nella storia dello sviluppo delle WISE in alcuni Paesi (ad esempio, Italia), questa seconda forma di sostegno è stata maggiore del sostegno economico diretto; ma, quantomeno nelle fasi in cui ha inciso in modo significativo sui fatturati, ha avuto la medesima funzione di supporto allo sviluppo di un solido ecosistema WISE.

La seconda variabile considerata è la rilevanza del fenomeno WISE in ciascun Paese. Ancora una volta, pur nella consapevolezza del carattere semplificatorio di questa distinzione e della presenza di casi intermedi, si possono identificare abbastanza nitidamente due polarizzazioni, corrispondenti a Paesi con un sistema WISE forte e Paesi con un sistema WISE debole. La Tabella 6 riassume alcune delle caratteristiche che ci aiutano a identificare gli ecosistemi nazionali WISE forti e deboli. 

Tabella 6. Ecosistemi nazionali WISE.

Nei sistemi WISE nazionali deboli ci sono solo poche decine di WISE e le persone svantaggiate assunte sono poche centinaia. I fatturati sono generalmente minimi (nell’ordine di poche decine di migliaia di euro fino, in pochi casi, a qualche centinaio di migliaia di euro), spesso con la presenza di molti lavoratori svantaggiati in una WISE, circostanza da cui deriva una quota di remunerazione pro capite necessariamente assai limitata; la struttura aziendale è debole, il gruppo dirigente è lo stesso da decenni perché diventa difficile trovare sostituti, e, in generale, il gruppo di lavoro è composto o da una “vecchia guardia” un po’ stanca o da giovani che sfuggono alla prima occasione. D’altra parte, in sistemi nazionali di WISE forti, troviamo migliaia di WISE, decine di migliaia di lavoratori svantaggiati e di altri lavoratori. Sebbene anche in questi Paesi ci siano WISE (magari molto dinamiche) di piccole dimensioni, è anche facile trovare, in diverse parti del Paese, WISE con fatturati di diversi milioni di euro, investimenti consistenti, alti livelli tecnologici, team di alta qualità – la WISE è considerata attrattiva per professionisti e giovani generazioni – e remunerazioni contrattuali piene a lavoratori svantaggiati e altri operatori.

Naturalmente, questa classificazione richiederebbe l’introduzione di variabili più raffinate, ad esempio confronti con la dimensione della popolazione, con la numerosità della popolazione target o con il costo della vita di ciascun Paese. Ma in sede di prima analisi esplorativa e a fronte di una situazione in cui il costo della vita oscilla all’interno della maggior parte dei Paesi europei con un fattore 1:2, una presenza di differenze come quelle sopra evidenziate non lascia molti dubbi sull’identificazione dei sistemi WISE forti e deboli. Questo non deve assolutamente essere considerato un giudizio di valore sulla capacità o incapacità delle persone coinvolte. Al di là delle differenze dimensionali, è facile trovare in tutti i Paesi persone che spendono tutte le loro energie e le loro vite con impegno e dedizione per migliorare la condizione delle persone svantaggiate. Ma questo non ci esime dal notare che le differenze esistono e sono significative.

Ebbene, l’esito chiaro di questo lavoro è che esiste una evidente corrispondenza, nitida e diretta, tra Paesi con politiche di supporto all’inserimento lavorativo sviluppate e sistemi nazionali WISE forti; e quindi, tra sistemi nazionali con politiche di sostegno all’inserimento lavorativo minime o inesistenti e un sistema WISE nazionale debole.

Figura 4. Sistema WISE e politiche di supporto. La posizione precisa di ciascun Paese all’interno di un quadrante è incidentale; una versione più precisa di questo grafico richiederebbe un’analisi più approfondita. L’esatta collocazione di Polonia e Slovenia va approfondita con la raccolta di ulteriori dati.

Svelato l’arcano 

Ritornando al tema da cui eravamo partiti: perché generalmente nei Paesi con un significativo sostegno pubblico alle WISE o comunque alle funzioni di inserimento lavorativo, la distinzione in tre modelli è pur apprezzata per la capacità di individuare filoni culturali originari delle WISE, ma ritenuta non molto utile (e talvolta poco comprensibile) nell’interpretare il fenomeno?

La risposta è semplice: un imprenditore sociale spagnolo o olandese, che guida una WISE in cui lavorano correttamente inquadrate a libro paga centinaia di persone svantaggiate, che fattura sul mercato diversi milioni di euro (e riceve un 25% - 40% dei propri ricavi a riconoscimento degli interventi di inserimento lavorativo) fatica a comprendere come noi ricercatori italiani si possa ipotizzare che una WISE possa essere “produttiva” (e loro certamente lo sono, visti i numeri come quelli sopra esemplificati) e non “formativa”, dal momento che ritengono normale che le persone svantaggiate svolgano specifiche attività formative strutturate, riconosciute e certificate; e, almeno in alcuni casi, che una WISE possa non essere anche “sociale” nel senso di farsi carico di altre problematiche della persona svantaggiata. È una tale ovvietà che, se non avvenisse, faticherebbero a considerare l’organizzazione una WISE.

In sostanza: quello che in Italia, Paese con un livello di aiuto che, abbiamo visto, si aggira intorno al 5% - 10% rispetto al fatturato, è realizzato – sempre, fatte salve alcune decine di eccellenze – “un po’ come si può”, in modo artigianale e contando sulla encomiabile disponibilità di chi alla causa dell’inserimento lavorativo dedica vita ed energie, nei Paesi con un livello di aiuto quattro o cinque volte superiore è una funzione così normale che si stenta a concepire una WISE in cui ciò possa non avvenire. Così come appare strano, in Spagna, chiedere se sono presenti nella WISE dei “supporter” – degli “operatori dell’inserimento lavorativo” – dal momento che nelle WISE più diffuse (i CEE, Centros Especiales de Empleo) è del tutto normale che vi siano e il loro costo è sostenuto dalla mano pubblica in relazione al numero di persone inserite. Nulla di diverso da quanto faceva, per fare un esempio, l’Agenzia del Lavoro di Trento negli anni Novanta del secolo scorso, con risultati encomiabili verificati da ricerche indipendenti o da quanto sta avvenendo oggi nella Regione Veneto, dove si prevede un seppur modestissimo incentivo a funzioni sociali svolte dalle WISE (vedi scheda); solo che in Italia, anziché fare tesoro di tali sperimentazioni e diffonderle, o si sono depotenziate o rimangono confinate in specifici contesti locali, mentre altri Paesi europei ne hanno fatto una leva decisiva per il sostegno delle WISE e dell’integrazione lavorativa.

La differenza tra Paesi con politiche di sostegno forti e i Paesi con politiche deboli non è solo relativo ai numeri – lo vedremo meglio nel prossimo paragrafo, proponendo dei confronti con l’Italia – ma anche sulla sostanza (e forse sulla qualità) dell’intervento. E sulla qualità dell’organizzazione: un livello di aiuto intorno al 30% garantisce la possibilità di remunerare adeguatamente gli operatori e i dirigenti, di assicurarsi, oltre ai formatori, tecnici adeguati che governino la produzione, investimenti su tecnologie – ad esempio su tecnologie assistive che rendano più facile il lavoro delle persone con disabilità e tutto ciò, in un circolo virtuoso, funziona da catalizzatore per poter accedere ad ulteriori risorse, ad esempio dall’Europa, ben disposta a finanziare soggetti di questo tipo.

Al contrario, politiche esitanti generano – prendendo a prestito una calzante espressione di Carola Carazzone – un circolo vizioso dell’impoverimento. Non percependo quanto l’operato delle WISE sia prezioso e privilegiando obiettivi di breve termine, le politiche non finanziano (o, con riferimento al caso italiano, de-finanziano rispetto al passato) le WISE, che di conseguenza devono contare solo sulla competizione di mercato per finanziare le funzioni di inserimento lavorativo. Alla ricerca di risorse, le WISE si pongono sul mercato in modo via via più aggressivo nella speranza di guadagnare terreno, ma l’aumento di commesse conseguite a basso costo rappresenta in realtà un nodo ulteriore del circolo vizioso: ci si accorge ben preso che le risorse non bastano e si è costretti a carcare economie – minori salari, minor supporto alle persone svantaggiate – che nel giro di alcuni anni, non appena viene meno lo sforzo straordinario di volontari e operatori ultra-motivati, deteriora la qualità dell’inserimento lavorativo. La percezione diventa a questo punto che le WISE siano soggetti di una qualche utilità sociale, ma che in fondo non facciano cose molto diverse da tante altre imprese dove lavorano ex tossicodipendenti, ex detenuti o persone con disabilità. Se così è, si conclude sul fronte delle politiche, non vi è motivo per finanziare in modo specifico le WISE o per investire su affidamenti riservati, vanno considerate alla stregua di altri operatori di mercato; e di qui il circolo vizioso ricomincia.

Figura 5. Circolo vizioso dell’impoverimento delle WISE.

Infine, una notazione su una pista di lavoro che forse merita qualche approfondimento.

Nei Paesi con un basso livello di sostegno pubblico, tutte le WISE sono organizzazioni senza scopo di lucro, che, rifacendosi alle categorie del nostro Paese, potrebbero senza dubbio essere incluse tra gli Enti di Terzo settore. Alcune WISE sono promosse da enti religiosi, associazioni di persone con disabilità e dalle loro famiglie o da persone con forti ideali di cambiamento sociale; si tratta generalmente di WISE che possono contare su contributi significativi da parte di volontari, che hanno volontari o semi-volontari come manager, raccolgono donazioni da cittadini o enti filantropici e così via. In questi casi, le WISE sono chiaramente organizzazioni “sociali” (in senso lato).

Laddove il livello di sostegno è sufficientemente elevato, invece, le azioni di inserimento lavorativo non devono essere compensate da risorse aggiuntive extra mercato normalmente attratte da organizzazioni senza scopo di lucro come il volontariato diffuso, le donazioni, ecc.; in questi casi, soprattutto nelle tradizioni culturali dove è meno radicato il riconoscimento dei soggetti dell’Economia sociale, emergono taluni indizi circa una possibile differenziazione dell’universo delle WISE, con la presenza di imprese esterne all’economia sociale che tendono a percepire l’integrazione lavorativa come un’attività economica cui dedicarsi. Queste imprese possono essere, naturalmente, aziende coscienziose in termini di responsabilità sociale, disposte a sottolineare il valore sociale del loro lavoro, ma possono assumere in modo più o meno marcato anche alcune delle caratteristiche delle aziende private a scopo di lucro.

Questa circostanza non è sorprendente: in ogni settore di interesse generale in cui si creano condizioni di buona redditività, intervengono attori imprenditoriali for profit: ad esempio, in molti Paesi, tra cui l’Italia, è emerso un rilevante settore privato for profit nell’assistenza sanitaria o nell’assistenza residenziale agli anziani. Allo stesso modo, dove ve ne sono le condizioni, l’integrazione lavorativa può attrarre anche imprese tradizionali in cerca di profitto. In questi casi, l’inclusione nell’universo WISE è discutibile, poiché lo scopo esplicito dell’integrazione lavorativa (e non la remunerazione del capitale degli investitori) è una delle caratteristiche fondanti enunciate in apertura per perimetrare il fenomeno; e una cosa è convenire sul fatto che, pur in assenza di vincoli formali alla distribuzione degli utili, si consideri WISE un ente chiaramente finalizzato all’inserimento lavorativo, un’altra è includere tra le WISE un soggetto in qualche modo omologabile ad un privato che gestisce una struttura per anziani, e che invece opera nel settore dell’integrazione lavorativa. È senza dubbio una pista di lavoro da approfondire in futuro a livello europeo.

Guardando all’Italia

Rispetto a questi risultati, il lettore italiano sente senz’altro il bisogno di rispondere ad alcune domande.

La prima è, evidentemente, dove è collocata l’Italia in questo schema e perché.

L’Italia è collocata in posizione intermedia. La fiscalizzazione degli oneri sociali non è, come si è visto, una misura di per sé così rilevante, generalmente incide sul conto economico a una cifra; molto meno, come si è visto, rispetto ai Paesi dove il sostegno si aggira intorno al 30-40%; e non molto di più rispetto a misure in essere per la generalità delle imprese che assumono lavoratori deboli a seguito di varie politiche di incentivo e compensazione, aspetto che abbassa ulteriormente il differenziale competitivo nei confronti di imprese non WISE che non sopportano oneri paragonabili in tema di inserimento lavorativo.

Rispetto ad alcuni Paesi del tutto privi di misure di sostegno, va comunque registrato che, oltre ad esistere comunque la fiscalizzazione degli oneri sociali, in taluni territori trovano applicazione i contratti riservati, pur se in misura minore rispetto ad alcuni decenni fa e in modo molto diseguale nelle diverse aree del Paese. Questa misura, che nel corso degli anni Novanta si era affermata come una “via italiana” al sostegno dello sviluppo dell’impresa sociale, è stata progressivamente abbandonata nell’ultimo ventennio in omaggio a dottrine che vedono nella competizione di mercato l’unica via per la tutela dell’interesse pubblico, portando gli enti locali che ne erano stati protagonisti a ricercare attraverso forme aperte di competizione ogni possibile margine di ribasso nelle gare d’appalto e dismettendo via via le iniziative di appalti riservati che avevano precedentemente intrapreso. Vero è che, almeno in una qualche misura, è ancora sensibile, oltre che la sporadica applicazione di tale procedimento, l’effetto di lungo termine della sua applicazione estesa negli anni Novanta del secolo scorso, che ha dato l’occasione, almeno alle WISE più avvedute, di patrimonializzarsi e investire, facendosi trovare quindi pronte alla situazione più difficile verificatasi negli anni successivi.

Non vi sono invece, a parte modeste sperimentazioni locali, iniziative sistematiche di riconoscimento della funzione sociale dell’inserimento lavorativo. L’idea cioè che sia arduo trarre dagli (scarsi) margini sulle attività produttive le risorse per gli stipendi degli operatori affiancano le persone svantaggiate – non solo per colmarne la produttività, ma anche e soprattutto per rafforzarne la soft skills e le competenze professionali, oltre che, in alcune esperienze, per farsi carico di bisogni ulteriori rispetto a quelli specificamente legati al lavoro – pare al di fuori dei margini di comprensione della politica italiana.

Due recenti misure della Regione del Veneto sul collocamento mirato costituiscono una pur limitata apertura al riconoscimento del ruolo della cooperazione sociale di inserimento lavorativo. Nello specifico si tratta delle misure del Disability Job Coach (DGR 1103/21) e del Voucher per il Lavoro Rafforzato (DGR 1101/21), che stanno trovando prima applicazione proprio in questi mesi.

Disability Job Coach. La Regione del Veneto riconosce il costo di alcune ore lavorative del Disability Job Coach, un operatore esperto degli enti accreditati ai servizi al lavoro o di una cooperativa sociale di tipo B o ad oggetto plurimo, che opera per favorire l’inserimento di una persona con disabilità in un’azienda; in sostanza alle cooperative di inserimento lavorativo sono parzialmente remunerate le funzioni di placement, cosa che tra l’altro può favorire la transizione dalla cooperativa sociale ad un’azienda for profit.

Il Voucher per il Lavoro Rafforzato.  La Regione del Veneto attribuisce un voucher al lavoratore svantaggiato, che può essere utilizzato anche a favore di cooperative sociali di inserimento lavorativo per acquisire servizi e strumenti di sostegno nell’ambito di un percorso personalizzato di tirocinio.

Si tratta di misure economicamente modeste e che non riguardano l’aspetto principale del lavoro sociale delle cooperative sociali di tipo B e cioè l’azione degli operatori dell’inserimento lavorativo nei confronti dei lavoratori svantaggiati; ma si tratta comunque di una prima apertura nel dare atto che le WISE svolgono un lavoro sociale che va riconosciuto.  

Box 2. Le recenti misure della Regione Veneto (redatto con la collaborazione di Chiara Antonioli).

Circa la solidità del sistema WISE, si ha, anche in questo caso, coerentemente con l’ipotesi di lavoro enunciata, una situazione intermedia. I 25.000-30.000 lavoratori svantaggiati inseriti (circa la metà persone con disabilità) sono sicuramente assai di più rispetto a molti altri Paesi europei – rispetto a quelli in particolare con politiche ancor più deboli a sostegno delle WISE e dell’inserimento lavorativo come Croazia, Grecia, Lettonia, Romania e probabilmente Slovenia (questo ultimo caso da approfondire); ma, secondo i dati raccolti nel progetto B-WISE, assai meno rispetto alla Spagna (dove nei Centros especiales de empleo lavorano quasi 100.000 persone con disabilità), all’Austria, Paese di 9 milioni di abitanti, meno di un sesto rispetto all’Italia, dove nelle sole Sozialökonomische Betriebe (SÖB) lavorano un numero di persone svantaggiate simile all’Italia, al Belgio (11.5 milioni di abitanti) che tra Collectief maatwerk, Lokale diensteneconomie, Entreprise d'Insertion, Entreprises de travail adaptées le WISE inseriscono oltre 40.000 lavoratori svantaggiati, alla Francia, dove lavorano tra Entreprise d’insertion, Entreprise de travail temporaire d’insertion e Entreprise adaptée circa 100 mila persone svantaggiate e probabilmente anche all’Olanda, pur se i dati raccolti sono piuttosto fragili. Metà classifica, in piena coerenza con la correlazione proposta.

Ma, in questo caso, non vi è dubbio, il bicchiere è mezzo vuoto. È mezzo vuoto perché l’Italia le WISE le ha inventate circa 50 anni fa, le ha promosse storicamente nel continente, ha diffuso con decenni di anticipo alcuni degli strumenti di supporto più potenti, come gli affidamenti riservati che hanno via via dato forma alle normative europee in materia; e per insipienza politica e per trascuratezza si trova ora abbondantemente superata da diversi altri Paesi che hanno invece intrapreso con assai maggiore decisione la strada del supporto all’inserimento lavorativo. Se oggi l’Italia ha mantenuto posizioni di centro classifica è grazie da una parte al capitale costruito nel passato, dall’altra ad uno spirito di resistenza oltre misura da parte dei cooperatori sociali. Ma, senza una consapevolezza di cosa sta accadendo, questo argine è destinato a franare nel giro di pochi anni; e per questo è bene evidenziare con chiarezza – e a costo di qualche ridondanza rispetto a quanto già scritto – i motivi che ci hanno portato a questa situazione.

Già si è detto della ideologia della concorrenza che ha portato le pubbliche amministrazioni a preferire risparmi anche minimi sui prezzi di fornitura (spesso a costo di degradare il livello di servizio offerto ai cittadini) pur di poter affermare che un certo servizi, magari gestito da tempo da cooperative sociali, era stato posto sul mercato. La sostanza, in termini di depauperamento del capitale sociale del territorio – le WISE che hanno dovuto interrompere la propria operatività – e di conseguenze sui lavoratori fragili è stata considerata un danno collaterale e necessario.

La narrazione basata su buone prassi rappresenta una mistificazione pagata a caro prezzo dal mondo delle WISE. Gratificante e rassicurante, con questa narrazione si sono mostrati i “gioelli di famiglia”, le eccellenze, ottenendo dalla politica un plauso sorridente, che ha però contribuito a mettere in ombra il fatto che il nostro Paese rimaneva al palo mentre l’Europa avanzava. E, collegato a ciò, lo stesso si può dire di una dottrina per molti versi commovente (oltre che apparentemente convincente), ma purtroppo errata: la dottrina è che - per ragioni non meglio specificate, ma comunemente accettate e soprattutto unanimemente apprezzate – le WISE italiane siano in grado di realizzare senza costi aggiuntivi un doppio prodotto, il bene o servizio venduto in modo competitivo sul mercato e il “prodotto sociale”, l’inserimento al lavoro delle persone svantaggiate. A pensarci bene, perché mai tutto ciò dovrebbe funzionare (sempre, si intende, al di là dei casi eccellenti)? Su quali fondamenta economiche? Perché le WISE dovrebbero essere in grado di realizzare in modo sistematico e permanente un sovraprofitto su mercati altamente competitivi per destinarlo a sostenere i costi di tutte le azioni necessarie ad assicurare un inserimento lavorativo di qualità? Il fatto è che, in sostanza, ci è piaciuto crederlo, anche in assenza di motivi fondati per farlo. La realtà è sostanzialmente diversa; certo possono esserci fasi di mercato specifiche in cui in taluni settori si realizzano utili significativi, può esserci la capacità di mobilitare risorse extra mercato – volontariato, acquisti fidelizzati con motivazione valoriale, ecc. – ma tutto ciò ha valenza contingente, salvo, come già evidenziato, talune eccellenze specifiche. In generale una buona impresa – se tutto va bene – riesce a stare sul mercato e può anche realizzare inserimento lavorativo di qualità solo se riceve risorse adeguate.

L’esito è evidente, non appena si passi dall’analisi delle buone prassi ad una immagine realistica di quanto sta accadendo. La tenuta economica, almeno negli anni pre-Covid, gli ultimi su cui esistano rilevazioni estese, continua ad esserci, fatta salva la compressione degli utili che interessa tutto il mondo dell’impresa sociale, frutto della competizione esasperata. L’ordine di grandezza del sistema WISE appare analogo a quello di 15-20 anni fa, che può essere visto come un successo – l’avere superato indenni i ripetuti cicli di crisi – ma, come si è visto, ha comportato il passare dall’essere l’esperienza guida in Europa all’essere un Paese con un medio sviluppo del sistema WISE. Ma è su altri aspetti che è evidente la fatica delle WISE italiane: nella necessità di ricercare lo “svantaggiato meno svantaggiato” per mantenere il passo della competizione, nella percentuale del 30% che in alcuni casi è sempre più stentata, nella diminuzione o annullamento delle ore di lavoro riconosciute a operatori dell’inserimento lavorativo, responsabili sociali o altre figure simili non inserite (anche solo per una parte del tempo lavoro) nel processo produttivo, ma dedicate alla cura dei percorsi di inserimento lavorativo, nella caduta delle quota di ricollocazioni a fine percorso, anche nelle tradizioni cooperative dove questo avveniva maggiormente (e nella conseguente pressione sui servizi perché “rinnovino la certificazione” anche a chi è ex – ma molto ex – svantaggiato per non perdere la quota del 30%), nella persistenza, anche alcuni anni dopo la costituzione, di un numero rilevante di unità di dimensioni molto limitate, nell’uso sempre più diffuso di tirocini di lavoratori svantaggiati laddove in anni precedenti si sarebbe proceduto ad assunzioni. Tutti segnali che, soprattutto considerati congiuntamente, ci dicono di strategie di sopravvivenza un po’ affannate, di un mondo costretto a sopravvivere nella sostanziale assenza di riconoscimento del lavoro sociale svolto. Tutti temi, questi, proposti alcuni anni fa nel “Manifesto per il rilancio dell’inserimento lavorativo”, sottoscritto da un centinaio di imprese sociali italiane, ma da molti altri nel mondo dell’impresa sociale italiana guardato con sospetto, nella più classica delle Sindromi di Stoccolma: rivendicando cioè con forza la narrativa delle prassi eccellenti (vere) a significare che le WISE sono creature eccezionali in grado di fare ciò che nessun altro soggetto fa (parzialmente vero) e che quindi non c’è nessun problema (falso).

Nel frattempo, come evidenziato in questo editoriale scritto con Carlo Borzaga nel numero 2/2022 di Impresa Sociale, i treni della politica passavano uno dopo l’altro: l’Italia investiva cifre consistenti nelle politiche attive del lavoro rivolte a fasce deboli – da Garanzia Giovani alle misure connesse al Reddito di Cittadinanza, sino al PNRR – senza riconoscere alcun ruolo significativo alle WISE che pure da 50 anni sono in prima linea nell’inserimento lavorativo di ogni tipo di persona svantaggiata, riconosciuta e non dalle normative vigenti. E in tutte queste circostanze, non solo la politica, ma lo stesso mondo delle WISE italiane ha ritenuto in qualche modo normale essere considerato (quando va bene) alla stregua delle agenzie di somministrazione (chissà perché così spesso citate!) come attore di tali politiche.

E, nel frattempo, chi lavora nelle WISE appare un po’ disorientato. Sente tutta la contraddizione di trovarsi a guerreggiare a colpi di ribassi con altri imprenditori sociali – non era per questo che aveva iniziato a fare il cooperatore sociale, tanti anni fa -, legge sulle riviste di settore delle meravigliose eccellenze – sempre le stesse 20 - 30 esperienze in tutta Italia, sempre così inarrivabili – ma questo invece che spronarlo lo fa sentire ancor più inadeguato, si ritrova a selezionare i lavoratori svantaggiati con sempre più occhio alla compatibilità economica, litiga con il dirigente un comune che non vuole saperne di affidamenti riservati e con un altro che invece vuole farli, attendendosi che grazie a ciò la cooperativa pratichi il 40% di ribasso, visto che “le cooperative sociali di inserimento lavorativo pagano meno contributi”, quando chiede aiuto a qualcuno gli viene riproposta la teoria del “doppio prodotto” e gli viene consigliato di lanciarsi nel rapporto con le imprese for profit, che da parte loro sono ben contente di considerarlo come fornitore a basso costo, anch’esse confidando che possa praticare prezzi concorrenziali con i subfornitori dei Paesi dell’Est Europa visto che (di nuovo) “le cooperative sociali di inserimento lavorativo pagano meno contributi”. Alla fine di ciò si adatta – come il Gaetano / Troisi di “Ricomincio da tre” che ad un certo punto conferma di essere un emigrante – lui stesso proporsi ai clienti pubblici e privati affermando di essere competitivo grazie al fatto di non dover pagare i contributi per le persone svantaggiate.

Nel caso questo imprenditore sociale avesse tempo e modo di leggere queste righe – difficile, perché lavora un numero improponibile di ore facendo il giardiniere, il progettista, il gestore di risorse umane e molte altre cose e arriva a casa stravolto – consideri, se lo ritiene, queste semplici considerazioni:

  • la fiscalizzazione degli oneri sociali non serve per diminuire il prezzo ai clienti pubblici e privati, ma a indennizzare (minimamente) l’immane lavoro sociale svolto dalle WISE italiane;
  • tale misura è nell’ordine di circa un quinto rispetto al livello di aiuto che le WISE ricevono nei contesti territoriali più sviluppati;
  • se la tua cooperativa stenta è per questo e non per incapacità; ciò non esime nessuno dal provare a migliorarsi grazie all’esempio delle eccellenze, ma deve portare tutti noi a intraprendere una significativa azione politica per mutare la situazione;
  • se le WISE italiane giocheranno al ribasso e non riusciranno a sviluppare in modo diffuso, oltre alla sostenibilità economica, una qualità dell’inserimento lavorativo elevata, perderanno la loro ragion d’essere e saranno considerate alla stregua di qualsiasi soggetto che più o meno occasionalmente occupa fasce deboli.

Di qui bisogna ripartire.

Conclusioni. Dieci punti per rilanciare le WISE e l’integrazione lavorativa

A fronte di quanto detto, cosa può fare il nostro Paese? Come sostenere il grande patrimonio costituito dalle nostre WISE per rilanciare un sistema imprenditoriale solido e un inserimento lavorativo di qualità?

Un primo insieme di risposte riguarda aspetti culturali e relativi alla narrazione e autorappresentazione del fenomeno; fanno parte di questo ambito:

  • una maggiore attenzione e parsimonia nella scelta di rappresentare il fenomeno attraverso le eccellenze; è vero che dalle buone prassi vi è molto da imparare (e va fatto), ma bisogna evitare che questo porti a pensare che tutte le WISE sono simili alle eccellenze (ci porta a non vedere le questioni aperte) o che possano esserlo con poco sforzo (ha un effetto in ultima analisi scoraggiante sui non eccellenti). Al contrario, va promossa una visione e una narrazione che abbiano al centro una strategia di rilancio e consolidamento del fenomeno dell’inserimento lavorativo nel suo complesso;
  • l’elaborazione di una visione equilibrata del fenomeno delle WISE italiane, evitando due rischi narrativi contrapposti: l’uno, di dare spazio a letture catastrofistiche e depressive che vedono le WISE italiane sull’orlo del tracollo, dimenticando che si tratta di un insieme di migliaia di imprese capaci di superare in questi quindici anni crisi economiche devastanti e di costruire un modello di sviluppo inclusivo di cui beneficiano decine di migliaia di persone, rappresentando quindi un patrimonio prezioso per il nostro Paese; l’altro, quello di ritenere rischiosa e svalutante ogni analisi – come quella qui proposta – che metta in luce aree di criticità, spinti dalla parola d’ordine che “tutto va per il meglio” e che le WISE siano comunque in grado di assicurare con forze proprie il “doppio prodotto” imprenditoriale e sociale;
  • una collocazione equilibrata delle tante strategie in questi anni oggetto di discussione in tema di rafforzamento delle WISE, dalla scelta di puntare maggiormente sul mercato privato alle prospettive di inserimento lavorativo ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. 276/2003, dalle joint venture con imprese for profit alle relazioni con la finanza di impatto, e via dicendo. Queste e molte altre strategie non sono oggetto di discussione di merito nel presente contributo e possono senz’altro contenere elementi positivi per talune WISE e pertanto, laddove si ritengano utili, è ragionevole citarle entro piani di sviluppo di WISE, iniziative formative o culturali, ecc.; la deriva che va però evitata è quella di ritenere che tali ricette possano (laddove auspicabili) consentire alle WISE di estrarre in modo stabile dalle attività produttive una quota di risorse tale da consentire contemporaneamente la remunerazione delle funzioni di inserimento lavorativo e la sostenibilità economica di medio periodo.

Ma, al di là di quanto sopra richiamato, si tratta di ragionare su quali direzioni provare ad imprimere alle politiche, affinché quanto auspicato in questo contributo possa realizzarsi; di capire come quindi è possibile tracciare un percorso che, partendo da un adeguato riconoscimento del ruolo delle WISE, porti a dispositivi che sostengano adeguatamente la loro capacità di inserire al lavoro persone svantaggiate; e si tratta di farlo nell’ambito del nostro sistema normativo, facendo leva sui punti in cui può presentare affinità con i contenuti qui proposti.

  1. La prima indicazione è la più scontata, ma è assolutamente prioritaria a partire dalla tradizione normativa del nostro Paese. Gli affidamenti riservati e le convenzioni ai sensi dell’art. 5 della legge 381/1991 hanno costituito un canale potente di crescita e consolidamento delle WISE nel corso dei decenni. Ancora oggi molte tra le WISE che giustamente consideriamo eccellenti possono contare su una parte non secondaria di fatturato proveniente da queste forme contrattuali; e comunque non sarebbe difficile individuare, in un confronto tra i diversi territori del Paese, una relazione tra applicazione consistente (anche in anni remoti) degli appalti riservati e lo sviluppo del sistema WISE territoriale. Dal momento che le normative italiane sono assolutamente adeguate sul tema, l’unico motivo per non utilizzarle è l’insipienza politica, in primo luogo delle amministrazioni locali. Dal punto di vista delle azioni di rappresentanza, questa “via italiana al sostegno delle WISE”, il cui effetto è, come si è visto, comparabile agli interventi sul conto economico in uso in altri Paesi, va considerata prioritaria. È invece non fondata (al di fuori di specifici casi di eccellenza) l’ipotesi che un atteggiamento maggiormente dinamico sul mercato (che è comunque di per sé assolutamente auspicabile e va pertanto incoraggiato) possa sostituire l’impatto di un ente pubblico che dimentica le opportunità date dagli affidamenti riservati.
  2. La seconda indicazione è quella di investire nel rilanciare le WISE all’interno degli strumenti di amministrazione condivisa di cui all’art. 55 del Codice del Terzo settore. Le WISE sono oggi (immotivatamente) del tutto marginali nelle esperienze di coprogrammazione e di coprogettazione, mentre le azioni di integrazione lavorativa dei soggetti deboli possono/debbono a tutti gli effetti essere oggetto di uno sforzo congiunto dei soggetti di interesse generale, pubblici e di terzo settore, che operano sul territorio. Il contesto di una coprogrammazione può ragionevolmente essere il luogo ove emerge con forza l’esigenza di rilancio degli affidamenti riservati.
  3. La terza indicazione riguarda le grandi politiche di integrazione lavorativa nel nostro Paese. Già si è sottolineato come – anche in questo caso per insipienza della politica – le WISE siano rimaste marginali nelle grandi politiche che l’Italia ha adottato a tutela delle persone escluse dal mercato del lavoro: Garanzia Giovani, azioni di inclusione connesse alle misure di contrasto alla povertà, PNRR. Anche su questo va concentrata l’azione politica delle WISE. Questo richiede, d’altra parte, una maturazione delle strategie delle WISE italiane, la cui cultura è ancora troppo legata a retaggi “riparativi”, che le portano a concepirsi come porti sicuri di ultima istanza rispetto a forme di disagio molto marcato, piuttosto che come soggetti attivi e propositivi rispetto alle grandi sfide inclusive del mercato del lavoro. Ciò che le WISE già oggi fanno è altamente positivo, ma viene collocato – e, a ben vedere, ristretto, recintato - in una narrazione lacrimosa cara ai media – il tossicodipendente redento, il detenuto pentito, il disabile produttivo – ma marginale rispetto al complesso dei fenomeni di esclusione lavorativa (che riguarda a pieno titolo, per riprendere i temi di cui sopra, anche i NEET, le famiglie in condizione di povertà, ecc.). La narrazione delle WISE italiane potrebbe essere: noi che abbiamo dimostrato la possibilità di fare impresa anche integrando persone con forme di svantaggio molto marcate, siamo, grazie a questa esperienza maturata, soggetto in grado di contribuire ai più ampi problemi di esclusione dal mondo del lavoro; ma questo, onestamente, non è stato un tema così percorso anche dalle stesse WISE italiane. Probabilmente anche l’annosa questione delle categorie di svantaggio potrebbe collocarsi più appropriatamente in questo diverso ragionamento, piuttosto che in un approccio teso ad individuare altre categorie altrettanto o più emarginate rispetto a quelle individuate nel 1991.
  4. Ancora, vanno riprese, studiate, comunicate e sviluppate le politiche, talvolta emerse a titolo sperimentale in aree territoriali definite, tese a riconoscere e remunerare i costi dell’inserimento lavorativo, in varie forme, come ad esempio il rimborso di una quota del costo del lavoro di un operatore dell’inserimento lavorativo in corrispondenza di un certo numero di persone svantaggiate inserite. Questo può avvenire, oltre che con un rimborso diretto, con vari meccanismi complementari, potenzialmente già presenti negli istituti diffusi nel nostro Paese. Ad esempio, laddove sussiste un sistema di “dote” che il lavoratore svantaggiato può spendere per inserirsi, considerando l’inserimento in una WISE come un approdo possibile e il costo degli operatori dell’inserimento lavorativo tra quelli su cui la dote è spendibile.
  5. Il riconoscimento dell’inserimento lavorativo da parte dei sistemi di formazione professionale apre un ulteriore e complementare ambito di riflessione. Da una parte, i sistemi di certificazione delle competenze devono diventare capaci di comprendere che le WISE, pur avendo una forma di trasmissione dei saperi non convenzionale, di fatto abilitano i lavoratori svantaggiati, sia dal punto di vista delle soft skills, sia delle competenze professionali; il riconoscimento di questa circostanza può avere come conseguenze l’accesso, da parte delle WISE, a risorse stanziate per la formazione che possono contribuire a sostenere il lavoro di inserimento. D’altra parte, quanto sopra può portare a sviluppare una riflessione interna al mondo WISE che, senza perdere la propria specificità di favorire un apprendimento “in situazione”, potrebbe inserire, in forme compatibili con la propria natura (es. mezza giornata alla settimana) momenti più strutturati di rafforzamento delle competenze delle persone inserite; questo può essere fatto autonomamente, o definendo forme di collaborazione più strette con la formazione professionale.
  6. Anche il funzionamento dei Fondi interprofessionali potrebbe essere coinvolto in questa analisi. I fondi interprofessionali hanno come mission il rafforzamento delle competenze di lavoratori e lo fanno prevalentemente rendendo fruibili risorse provenienti dai lavoratori stessi. Ma se vi sono imprese che predispongono programmi specifici di sostegno a lavoratori particolarmente deboli, avrebbe senso in ottica perequativa che a ciò fossero destinate risorse aggiuntive. Esse potrebbero essere tratte, in via sperimentale, da un bando settoriale dedicato, per poi ragionare su meccanismi di finanziamento strutturali (es. quote di solidarietà tra fondi, quote aggiuntive allo 0.30% o altro).
  7. Sempre nell’ottica di strategie in cui gli interessati si sentano coinvolti, è ragionevole coinvolgere le persone svantaggiate stesse in un programma di rilancio come quello qui ipotizzato: infatti, nel momento in cui non prestano solo la propria opera lavorativa, ma sono destinatarie di un’azione che le qualifica e le valorizza, diventa ragionevole chiedere un co-investimento nella propria formazione, ad esempio investendovi ore ulteriori rispetto a quelle lavorative nell’ambito di iniziative come quelle che possono scaturire dai due punti precedenti.
  8. Anche la riflessione, che sta giungendo ad esiti di rilievo, circa i budget di salute fa parte di questi ragionamenti: si sta diffondendo nelle ASL e negli enti locali un approccio all’inclusione di persone svantaggiate (primariamente nel settore della salute mentale, ma non vi sono motivi per non generalizzare questo approccio anche ad altri ambiti) che vede l’integrazione della persona nei suoi aspetti multidimensionali, in ciò comprendendo l’integrazione lavorativa. Sono dunque da promuovere e diffondere pratiche in cui si destinino alle WISE risorse necessarie ad assicurare un inserimento lavorativo di qualità come parte di un progetto complessivo sulla persona, vincendo le possibili resistenze burocratiche.
  9. All’interno di un programma di rilancio complessivo come quello qui enunciato, avrebbe senso chiamare in causa i fondi mutualistici per lo sviluppo della cooperazione: tali fondi, alimentati dal 3% degli utili delle cooperative, hanno interesse a sostenere un’azione che qualifichi la cooperazione di inserimento lavorativo, recuperandone i tratti che le distinguono dalle altre imprese, tratti che, come si è visto, rischiano di essere oltremodo annacquati nell’attuale contesto. Insomma, potrebbe trattarsi di un contributo, interno al mondo delle WISE, per invertire il ciclo dell’impoverimento: così testimoniando l’impegno del mondo WISE su questo fronte, diventa più facile esercitare pressioni politiche su soggetti diversi.
  10. Anche la filantropia istituzionale è chiamata in causa. Forse oggi risulterebbe strano, per una fondazione, destinare risorse al rafforzamento della funzione sociale dell’inserimento lavorativo; ma, d’altra parte, laddove fosse chiarito il quadro politico qui descritto, è possibile chiamare in causa soggetti che in questi anni sono stati così importanti nella sperimentazione di azioni innovative; ed è evidente che politiche come quelle qui auspicate, prima di diventare strutturali e stabili grazie al complesso delle misure qui descritte, dovrebbero passare per fasi di sperimentazione e valutazione, cui le fondazioni potrebbero validamente contribuire.

Ovviamente tutto ciò non elimina la necessità che le WISE operino al meglio: si rafforzino come soggetti imprenditoriali, costituiscano reti tra loro e con soggetti esterni, investano, adottino tecnologie e soprattutto, secondo la loro tradizione, rafforzino sempre più il loro legame con la comunità. Ma quello che va considerato con attenzione, tanto dalle politiche, quanto dal mondo WISE, è che oggi l’introduzione dei dieci punti sopra richiamati – che si basano tutti su strumenti e prassi già esistenti nel nostro Paese, che vanno semplicemente diffusi e rafforzati – può far leva su un sistema WISE solido ed esteso: forse non (più) sviluppato come in altri Paesi, ma comunque di assoluta eccellenza e percorso da energie e risorse impensabili, che hanno consentito tra le altre cose di affrontare con resilienza i cicli di crisi economica che ci hanno accompagnato. Ma bisogna al tempo stesso essere consapevoli che l’inerzia – della politica, incapace di vedere il contributo delle WISE e delle WISE stesse, nel momento in cui si perdono in narrazioni e strategie poco pregnanti – ha al contrario come effetto l’erosione del grande patrimonio delle WISE italiane, l’innesco cicli di impoverimento, la diffusione situazioni di sconforto tra gli operatori come quelle prima richiamate, la decadenza delle condizioni di sostenibilità economica. E agire su un sistema dopo averlo degradato nel corso del tempo diventerebbe oltremodo difficile. Le proposte ci sono, è ora di mettersi in moto.

DOI: 10.7425/IS.2023.01.02

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