Sviluppiamo una metafora: dal "Terzo paesaggio" di Clément - i luoghi non antropizzati o de-antropizzati - alla cooperazione come protagonista di un lavoro comunitario capace di crescere negli interstizi degli spazi istituzionali, accogliendo le marginalità sociali e territoriali altrove ignorate.
L’articolo è frutto della dibattito sul “terzo fragile” provocato dal position paper del Convegno 2021 di AreeFragili (AreeFragili aps, Università di Padova, Università di Trieste) il cui evento si svolgerà il 19-20 marzo 2021.
Devo a una conversazione siciliana con Giulia Piccione, invitato da Sara Curcio Raiti (presidente della Cooperativa Mediblei), l’incontro con il Terzo Paesaggio di Gilles Clément. Il riferimento esplicito del suo Manifesto (Clément G., Manifesto del Terzo Paesaggio, Quodlibet, 2015) è alla dimensione politica e sociale, ma quella naturalistica alla quale si attiene con disciplina è metafora di grande efficacia. Facciamone una lettura parallela.
Clément afferma poi successivamente l’essenzialità della biodiversità assicurata dal terzo paesaggio per la vita di tutto il resto. L’analogia ai sistemi socioeconomici deve considerare anche questa argomentazione: come per i paesaggi naturali della rappresentazione di Clément, sostenibilità e sviluppo sociale sono assicurati dalla tendenza entropica di generare e consentire spazi terzi e (dis)ordinati di welfare. Ogni organizzazione, ogni movimento sociale, ogni istituzione pubblica, ogni impresa deve riconoscerli, al proprio interno o attorno, considerandoli parti essenziali della loro stessa vita. Ognuno di noi, nelle nostre responsabilità ordinate, deve considerare la necessità di scoprirli, sorprendersene e farne opportunità di apprendimento.
Possiamo attribuire le ultime scoperte del movimento cooperativo (la cooperazione sociale e quella comunitaria) all’applicazione di questa prescrizione? E’ possibile – o forse addirittura necessario – indicare questo terzo paesaggio socio-economico come luogo necessario a tutto lo sviluppo cooperativo? Possiamo individuare nel metodo e nei caratteri della cooperazione le condizioni necessarie per fruire della generatività di questo luogo?
Il movimento cooperativo deve essere contemporaneo e (cor)rispondente alle fragilità e alle marginalità del suo tempo. Potremmo affermare che la credibilità e lo sviluppo della cooperazione chiedono di scalare la fragilità e, quindi, che le imprese cooperative sono sempre frutto del terzo paesaggio dove questa si rifugia e genera nuove forme di vita. Senza la capacità di vedere, riconoscere e abitare questo spazio il fenomeno cooperativo perde la sua spinta: è un’attitudine che il cooperatore deve assicurare a se stesso, alla sua impresa e al progetto sociale che partecipa. Di fronte a ogni oggetto di lavoro, quindi, deve allargare e affinare lo sguardo, guardare ai suoi bordi, cercarne la dimensione informale, apprezzarne funzioni e utilità inattese, affidarsi alla sua trasformatività, assecondarne gli spazi non ordinati e ibridi.
Le imprese cooperative – anche in parte, già oggi, quelle sociali e comunitarie – sono progressivamente uscite dal terzo paesaggio che le ha generate per processi di istituzionalizzazione innovativa oppure, al contrario, per altri di contenimento e neutralizzazione della loro diversità. Occorre mantenere la capacità di riconoscere questi processi e di leggerne gli esiti: saranno sempre conservativi (riduzione a ciò che è noto), progressivi (innovazione e ampliamento) oppure inerziali (permanenza dispersiva in uno spazio di sperimentazione).
Le cooperative sociali e comunitarie sono nate per un’intenzione consapevole rispetto alle forme del loro tempo e alla storia che le ha precedute. Non è casuale. L’evoluzione delle forme mutualistiche che la radice cooperativa ha prodotto in poco più di un secolo documenta lo specifico ruolo generativo che questo movimento ha esercitato dal suo nascere. Non v’è altro spazio istituzionale ordinato (“di luce”, per stare al testo di Clément) che documenta, in un ciclo così lungo, la stessa produttività. La storia della cooperazione ci rivela originariamente (e anche originalmente), fino alle esperienze comunitarie degli ultimi anni, una dimensione terza efficace perché consapevole, intenzionale e – aggiungiamo ora – attesa. Imparare un metodo dal racconto porta a considerare la prescrittività di questa attesa e delle politiche che esige.
La cooperazione di comunità è solo l’ultimo frutto di questa attitudine alla terzietà generativa (“fra l’ombra e la luce”) del movimento cooperativo. Potremmo citare prima di questa, una dopo l’altra, la cooperazione di lavoro, di consumo, del credito, agricola e fondiaria, di abitazione e sociale. La cooperazione ha consentito ognuna di loro prima ancora di poterle riconoscere in schemi statutari, formulari e linguaggi. Una storia, un racconto e una conoscenza (un capitale culturale) le hanno ispirate e ne sono state il contesto istituzionale di incubazione. Istituzioni ordinate (primariamente le associazioni cooperative) hanno riconosciuto e alimentato il singolare valore del loro (dis)ordine. Come propone il Manifesto di Clément, infatti, il terzo paesaggio, senza smentire la sua libera natura, deve essere alimentato, ascoltato e riprodotto per vedere ordinate in nuovi modelli istituzionali – progressivamente e come forma stabile ed estesa di protezione – le forme di vita che custodisce e genera.
Le condizioni dei contesti nativi di tanta cooperazione sociale e comunitaria ci portano al tema dei territori fragili. L’inedita e spiazzante mutualità proposta da queste forme cooperative compare in aree rarefatte nelle quali quell’intuizione è stata contemporaneamente necessaria e possibile. Ci dobbiamo riferire ai territori rurali o urbani che la programmazione definisce a declino, in ritardo di sviluppo o soggetti a degrado (a fallimento dello Stato e del mercato), non ad altri. La scarsità o la crisi sono i caratteri naturali dei contesti generativi: possiamo riconoscere questa condizione in corrispondenza della nascita stessa dell’idea cooperativa e di ogni sua nuova soglia evolutiva. Ciò che in quei territori è stato introdotto e sperimentato ha consentito apprendimento per tutti: non solo localmente ed estemporaneamente ma per tutto il territorio e tutta la storia, rivelando conformazioni possibili e maggiormente efficaci - ovunque e sempre - per lo sviluppo umano.
Le narrazioni degli spazi/tempi terzi ai quali facciamo riferimento ci segnalano un innesco, una resistenza e uno sviluppo abilitati da condizioni (dis)ordinarie (fuori da norme, procedure e vincoli ordinari) prive di riserve, in tutte le fasi necessarie alla sua affermazione, dall’intuizione progettuale alla sua realizzazione. Molto si dice, infatti, dell’informalità che queste esperienze si sono assicurate e il loro successo è attribuito di frequente alla singolare irripetibilità del loro contesto: un piccolo e distante paese di montagna o un quartiere off metropolitano. Una lettura miope e conservativa. E’ infatti possibile – e necessario - estrarre il valore generale di questa condizione e considerarne la replicabilità. Molti dei programmi straordinari della pubblica amministrazione che si presentano come opportunità terze di sperimentazione - o aspirano ad esserlo - sono smentiti - o resi innocui - dalla loro costrizione in procedure ordinarie. La Strategia Nazionale delle Aree Interne e la Programmazione Leader+ possono essere al proposito casi emblematici di studio: aree e programmazioni straordinarie condizionate e frequentemente neutralizzate da procedure ordinarie. Nel campo dei sistemi socioassistenziali abbiamo assistito, per queste stesse ragioni, alla progressiva normalizzazione delle più innovative aspirazioni alimentate dagli anni 2000 con legge n. 328/2000. La stessa critica dovremmo proporla ogni volta che un dirigente cooperativo non riconosce il valore di un’esperienza informale inedita perché non sostenibile o non abbastanza rilevante nel contesto gestionale a lui presente oppure – ugualmente – quando un funzionario cooperativo usa statuti e business plan precedenti come primi strumenti di valutazione di ciò che lo interpella.
Altro carattere da considerare fra gli spazi terzi generativi di mutualità sociale e comunitaria, con tutta la rappresentazione e l’evocatività che propone, è certamente quello della prossimità. La pandemia, rendendo tutto il mondo spazio e tempo della fragilità, ha indotto l’uso frequente di questo termine al posto del più abituale “comunità”. Si è raccontato a lungo – nel corso del 2020 e ancora oggi - di azioni, associazioni, imprese, istituzioni, persone prossime. Propongo di sopravvalutare questa intuizione.
Il lessico e la narrazione delle comunità sono inesorabilmente densi di identità e storie associabili a filtri di appartenenza e limite. Da tempo ritengo questa valenza e questa associazione estremamente insidiose. Che ci riferisca di posture reazionarie, nazionaliste, mafiose o semplicemente involute poco importa (conscio della diversa urgenza di questi riferimenti): basta riferirle tutte a posizioni e azioni non disinteressate e tendenzialmente celebrative, spesso produttive di cittadinanze selettive e istituzioni di separazione. [1]
Il lessico e la narrazione delle prossimità sono densi di relazioni, si concretano in azioni inedite, sono sconfinanti e direttamente associabili a pratiche di accoglienza. Alle istituzioni che vi si riferiscono più che rappresentanza storica si chiede rappresentazione partecipata e se ne coglie un’attesa plastica e politicamente controintuitiva: è l’istituzione che aderisce ai cittadini e i cittadini che informano e applicano cittadinanze, non viceversa.
Le cooperative sociali e di comunità autenticamente abitanti, ancora prima che la pandemia svelasse come universali questo rischio e questa urgenza, sono state, per i loro territori, istituzioni prossime più che comunitarie: di accoglienza disinteressata più che di appartenenza qualificata.
Le aree fragili – ovunque - hanno urgenza di allestimento istituzionale. Non di ripristino ma di ridisegno. Non di istituzioni comunitarie di consacrazione - per la delimitazione di appartenenze - ma di istituzioni prossime di accoglienza che favoriscano la loro adozione e il loro stare al mondo.
Anche fra le cooperative: quali comunità sono e rappresentano oggi le loro basi sociali? Quali ci attendiamo che rappresentino perché il dentro e il fuori, il prima e il dopo siano termini di integrazione e sviluppo invece che distintivi e separativi?[2]
Manifesto (ognuna delle frasi che seguono può essere volta in forma interrogativa.)
[1] Sul passaggio da comunità a prossimità due letture contemporanee rilevanti sono state per me la Lettera enciclica di Papa Francesco “Fratelli tutti”(10,2020) e Morin E., “La fraternità, perché?”, Aveeditrice, 2020.
[2] Teneggi G., voce “Cooperazione”, in Donzelli C.,Cersosimo D., “Manifesto per Riabitare l’Italia”, Donzelli, 2020
[3] Clément G., ibidem, pag.61
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