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Fondata da CGM / Edita e realizzata da Iris Network
ISSN 2282-1694
Tempo di lettura:  4 minuti
data:  25 giugno 2021

Il più grande crowdfunding d'Italia

Gianfranco Marocchi

E' paradossale l'enfasi di media e decisori sulla "finanza ad impatto", che porta una quota di capitali pari a circa l'1.5% di quelli che la sola impresa sociale in forma cooperativa genera e reinveste autonomamente, a costi nulli, per un tempo più lungo e sotto una governance democratica. Ma nessuno pare notarlo.


Proviamo a raccontarlo come lo si racconta oggi. In Italia c’è una grande esperienza che potremmo definire di “equity-crowdfunding”: vi sono infatti circa 450 mila persone che, oltre ad essere quotidianamente impegnate con il proprio lavoro o la propria azione volontaria nel realizzare progetti ad alto impatto sociale (solo per fare pochi esempi, l’integrazione delle persone con disabilità, il contrasto alla povertà educativa, l’agricoltura sociale, l’housing sociale, la società multiculturale, il lavoro per chi ne era escluso, ecc.), conferiscono mediamente a tali iniziative – oltre al capitale sociale conferito una tantum - ciascuno un po’ più di 200 euro all’anno: che detti così sembrano pochi, ma moltiplicati appunto per 450 mila fanno circa 100 milioni in più all’anno, ogni anno. Questi 200 euro sono conferiti oggi e per sempre; sono meno che in anni passati ma, si sa, la crisi si sente, e comunque anche 100 milioni all’anno non sono proprio un’inezia. E, visto che la cosa va avanti da molto tempo, hanno in questo modo accumulato in circa quindicimila fondi di investimento ad alto impatto sociale quasi 3 miliardi, in media circa 200.000 euro a fondo, disponibili senza costi aggiuntivi e con pazienza illimitata. Certamente, ciascuno conferisce le risorse all’iniziativa in cui è impegnato, che ha quindi maggiormente a cuore e su cui esercita un controllo attraverso meccanismi democratici, ma esiste un sistema ingegnoso per cui circa 3 milioni all’anno – ora che le risorse sono minori, un tempo assai di più – finiscono in un “fondo dei fondi” che – raccogliendo tra l’altro risorse anche da altri soggetti - agisce in senso perequativo degli scompensi territoriali o per sostenere progetti particolarmente innovativi.

In questo racconto, il lettore non avrà faticato a riconoscere i meccanismi di accumulazione patrimoniale delle cooperative sociali italiane, dove grazie al lavoro dei soci e alla scelta di non distribuire utili si accumula nel corso del tempo il patrimonio, con appunto i numeri sopra richiamati; potrebbe essere una notizia da prima pagina, mentre appare singolarmente sullo sfondo dell’interesse dei principali media che si occupano dei temi della finanza ad impatto sociale.

Un recente speciale di Vita, oltre ad occuparsi della “finanza ad impatto” in senso lato – fondi che investono ad esempio in ambito ambitale, sanitario, per creare infrastrutture, ecc. tutte attività peraltro in cui la finanza ha sempre investito anche quando di impatto ancora non si parlava – ha il merito di descrivere (Vita, numero di giugno 2021, pag. 31) in modo dettagliato l’ecosistema “strictly impact” italiano: operatori finanziari che investono specificamente in ambito sociale: si tratta oggi di 52.8 milioni di euro investiti, con un rendimento medio del superiore al 5%.

Senza dubbio anche un singolo euro investito in imprese sociali è di per sé un’iniziativa lodevole e nella misura in cui un fondo è utilizzato significa che vi sono imprenditori che l’hanno ritenuto utile ed è quindi cosa buona; questo però non ci esime dalla necessità di andare oltre l’ideologia della finanza e proporre qualche comparazione:

  • entità: i soggetti di finanza ad impatto investono nell’impresa sociale circa 50 milioni di euro, non più dell’1.5% del patrimonio investito dalle sole cooperative sociali (un sottoinsieme dell’impresa sociale) grazie a risorse proprie (3 miliardi circa);
  • remunerazione: il capitale apportato dai soggetti di finanza ad impatto costa all’impresa sociale il 5% o più; quello proprio delle cooperative e delle imprese sociali non costa nulla;
  • pazienza”: il capitale apportato dai soggetti di finanza ad impatto è generalmente abbastanza paziente ed è disponibile ad attendere la restituzione per alcuni anni; il capitale proprio delle imprese ha “pazienza infinita” e spesso diventa addirittura intergenerazionale, andando a beneficiare soggetti diversi e più giovani di quelli che l’hanno costituito;
  • controllo: il capitale apportato da soggetti di finanza di impatto è controllato da soggetti esterni all’impresa sociale, cui spetta il non facile compito di equilibrare le attese degli investitori e delle imprese sociali; il capitale delle imprese sociali è controllato in modo democratico dai soci.

Tutto ciò lo si richiama non certo per svalutare le pur apprezzabili iniziative della “finanza di impatto”, ma per chiedersi come mai il mondo della comunicazione e i policy makers attribuiscano tanta enfasi ad un 1.5% delle dotazioni di capitale dell’impresa sociale - più costoso, meno paziente e più problematico dal punto di vista della governance - anziché al restante e più virtuoso 98.5%.

E la risposta ci porta purtroppo alla problematica sudditanza culturale che porta a innamorarsi dell’impresa sociale nella misura in cui assuma strumenti e linguaggi il più possibile omologabili a quelli del mondo profit, e più di recente con quello della finanza, dimenticando o facendo finta di dimenticare i danni che quest’ultima ha fatto negli anni recenti.

Mentre la crescente attenzione di imprese, investitori e cittadini a temi quali la sostenibilità, la non discriminazione, la salute, l’assenza di sfruttamento, ecc. in altre parole, il fatto che l’impresa e la finanza siano spinte ad essere “più sociali” è, quando autentico e non mero social washing, un dato assolutamente positivo – e, diciamo noi, da annoverare almeno in parte tra i successi cui l’impresa sociale non è estranea – non vi è motivo, se non una forzata “retorica della simmetria” per affermare che l’impresa sociale stia a sua volta diventando (o “debba” diventare) più simile al profit. Perché mai? Perché mai, nel momento in cui ci si rende conto che il sistema economico deve essere attento alle esigenze ambientali e sociali, dovrebbe derivarne il fatto che l’impresa sociale diventi a sua volta il più possibile simile al mondo for profit?

La risposta a questo interrogativo si basa su un pregiudizio culturale paternalistico, privo di supporti empirici e un po’ fastidioso ma purtroppo molto diffuso: dal momento che sono “sociali”, queste imprese sarebbero necessariamente deboli: patrimonialmente inconsistenti, con finanze dissestate, con poche capacità manageriali, caratterizzate da basse professionalità, organizzazione carente, poco digitalizzate, ecc.: tutti pregiudizi che le ricerche serie hanno smentito. Insomma, una riedizione del White Man’s Burden per cui la primitiva tribù delle imprese sociali andrebbe civilizzata dal più avanzato mondo del for profit, generosamente disponibile a condividere i propri strumenti operativi e culturali. Ovviamente non a titolo gratuito.

La strada che questa Rivista ha proposto e continua a proporre è diversa: difende la biodiversità imprenditoriale e, nel rispetto di tutti gli attori economici, ritiene che le imprese sociali debbano sviluppare un proprio specifico modello di crescita, anche nelle modalità di finanziamento delle attività e degli investimenti: non perché gli altri siano errati, ma perché è questo il modello che la caratterizza e la rende più adatta a rispondere a specifici bisogni sociali.

Quindi: benissimo che vi siano alcune decine di milioni di euro per investimenti in imprese sociali; e benissimo, soprattutto – tema che non va dimenticato – che vi sia, accanto ai soggetti di equity, una finanza eticamente orientata che sostiene le imprese sociali con ben altre cifre (Banca popolare Etica, ben prima che la finanza di impatto fosse inventata, impiegava circa un miliardo di euro a favore di imprese sociali); ma va in primo luogo rilanciata con forza la strada originale che ha portato le imprese sociali italiane a rafforzarsi con risorse proprie.

Si richiamano a tal proposito almeno due tipi di misure possibili, secondo quanto più volte sostenuto da questa Rivista: misure che moltiplichino il capitale investito dai soci e misure, come quelle già previste dal d.lgs. 112/2017 e ancora in attesa di attuazione, che prevedono la deducibilità fiscale del capitale investito in imprese sociali. Ma, accanto a queste e altre misure specifiche, va soprattutto diffusa una consapevolezza da parte dei soggetti che hanno a cuore l’interesse generale: che la crescita e il consolidamento dell’impresa sociale italiana si sono nutriti in primo luogo di avanzi di gestione pazientemente accumulati e reinvestiti e che quindi enti pubblici, fondazioni, imprese che fanno della responsabilità sociale un tratto distintivo hanno una via molto diretta per sostenere l’impresa sociale: non tirargli troppo il collo, nella consapevolezza che ogni euro accumulato da un’impresa sociale va a costituire una forma preziosa e unica di capitale intergenerazionale democraticamente controllato e reinvestito.

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Gianfranco Marocchi

Impresa Sociale

Nel gruppo di direzione di Impresa sociale, è anche vicedirettore di Welforum.it. Cooperatore sociale e ricercatore, si occupa di welfare, impresa sociale, collaborazione tra enti pubblici e Terzo settore.

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