Oggi spesso tra gli elementi che affaticano le coprogettazioni vi è l'appesantimento della fase rendicontativa; ciò si fonda su timori (il fatto che l'ETS realizzi un "lucro") che, ad un'analisi approfondita, risultano poco fondati e, in ultima analisi, ispirati ad una diffidenza persistente sull'amministrazione condivisa.
Se alcuni anni fa l’avversione all’amministrazione condivisa era esplicita e motivata dalla pretesa primazia del principio di concorrenza e di conseguenza del Codice dei contratti pubblici su ogni altra istanza, ancorché di rango costituzionale, oggi i termini del dibattito sono mutati. Oggi – dopo la sentenza della Corte costituzionale 131/2020, dopo diversi e successivi atti che hanno sancito l’equiordinazione tra Codice dei Contratti e Codice del Terzo settore – nessuno mette in dubbio la legittimità dell’amministrazione condivisa. Ma questo non significa che le diffidenze si siano dissolte (e sarebbe strano che un cambiamento culturale di questa portata avvenisse in poco tempo, a fronte di decenni di abitudine a procedimenti competitivi), semplicemente si sono riposizionate.
Se l’amministrazione condivisa non può essere delegittimata apertamente, è però possibile introdurre tali e tante complicazioni nel suo utilizzo, da far passare la voglia anche al più convinto sostenitore della sussidiarietà (vedi, tra i tanti, questo articolo). E gli effetti si vedono: se anni fa si diffondevano gli appalti mascherati da coprogettazioni (per “moda” si coprogetta, ma in realtà l’oggetto e il modus operandi è chiaramente quello di un appalto) ora appaiono coprogettazioni mascherate da appalti: si lavora insieme tra ente pubblico e Terzo settore come se si stesse coprogettando, poi si fa un appalto – il più possibile “indirizzato”, si intende - per scampare le tante complicazioni imposte alle coprogettazioni soprattutto in sede rendicontativa e in generale relativamente ai rapporti economici. Un segno dei tempi.
Andiamo al problema. Anche se si fa meno frequente una teorizzazione, frutto di talune espressioni della giustizia amministrativa, che relegavano l’amministrazione condivisa nel mero ambito delle relazioni non economiche – si veda su questo l’analisi di Santuari sul tema della gratuità – è invece del tutto diffusa le tendenza a prevedere la necessità, in sede rendicontativa, di imponenti castelli documentali che affaticano l’amministrazione condivisa (se ne è parlato anche in questo articolo). Tale previsione deriva dal voler evitare che, in qualsiasi forma esplicita o implicita, gli enti di Terzo settore possano realizzare dei “margini” dalle attività coprogettate.
Questo può trovare diverse espressioni: ad esempio evitare forfettizzazioni, percentualizzazioni, o escludere l’uno o l’altro dei costi – ammortamenti, spese generali, costi indiretti, oneri finanziari, ecc. –che il partner di Terzo settore deve affrontare.E per evitare tutto ciò, viene costruito un impianto di documenti, dichiarazioni, scontrini, verbali, fogli firma, distinte di bonifico e quant’altro che in alcuni casi rappresenta un costo assolutamente non marginale delle attività, un onere per nulla secondario che si scarica sia sugli ETS, sia sulla pubblica amministrazione.
Si argomenterà di seguito come tutto ciò 1) sia frutto di convinzioni approssimative rispetto alla natura degli Enti di Terzo settore 2) che ignorano aspetti basilari della realtà fattuale, 3) si esprimono con accanimento insolito, 4) arrecando danno significativo alla cittadinanza.
Va chiarito innanzitutto che non è in alcun modo corretto equiparare un eventuale segno positivo alla voce che chiude il conto economico – il “risultato netto” – di un’impresa sociale con la voce equivalente realizzata da un soggetto for profit. Per un’impresa for profit si tratta di risorse che vengono “privatizzate” (entrano, o sotto forma di dividendo o sotto forma di incremento del valore azionario, nel possesso dei soci), per un’impresa sociale sono “socializzate”: si tratta, in sostanza, della quota di risorse che ogni anno l’impresa – sottraendole al godimento dei soci – conferisce ad un fondo intergenerazionale necessario a sostenere gli investimenti necessari alla realizzazione della finalità di interesse generale dell’ente. Parlare, mutuando l’espressione dall’economia capitalistica, di “utile” è una semplificazione scorretta. È invece bene essere consapevoli che un’impresa sociale destina una parte del valore aggiunto realizzato alla copertura di oneri correnti, una parte allo sviluppo nel medio periodo di iniziative di interesse generale. [Forse potrebbe valere la pena ricordare a taluni distratti “lettori” che il d. lgs. n. 112/2017 “facoltivizza” la distribuzione di utili, rendendo la scelta delle I.S. ancora più evidente in questo senso.]
È già questo dovrebbe smontare l’orrore del lucro che pervade l’impianto rendicontativo. Piuttosto, ben più ragionevole – e ben più aderente all’interesse della cittadinanza – sarebbe, in ottica partenariale, contemperare l’autonomia dell’impresa sociale nel definire i propri percorsi di sviluppo con l’assetto dell’amministrazione condivisa. Esemplificando: se una coprogettazione riguarda un immobile recuperato in cui vengono svolte attività diverse, il problema dell’amministratore pubblico coscienzioso non dovrebbe essere l’assenza di margine, ma l’aver titolo nel contribuire a definire, insieme all’impresa sociale, gli sviluppi di interesse generale attuabili grazie a tale margine (“potremo di qui a cinque anni attrezzare una sala prove musicale per i ragazzi del territorio”).
Onestamente, vi è da dire che anche l’impresa sociale ci mette del suo, quando avversa le coprogettazioni e chiede il ritorno agli appalti dicendo “siamo imprese, dobbiamo poter fare utili! (e nelle coprogettazioni non si possono fare)” anziché “siamo imprese sociali, mettendo da parte delle risorse possiamo investire in attività di interesse generale sulla base di un progetto condiviso”.
Ciò premesso, va ricordato che molti dei discorsi relativi al supposto “lucro” delle imprese sociali sono resi vacui dalla realtà dei fatti. Se si considerano le cooperative sociali – un sottoinsieme delle imprese sociali, ma che occupa il 97% dei lavoratori delle imprese sociali formalmente costituite nel loro complesso (vedi qui i dati) e che quindi ne rappresenta la quasi totalità da un punto di vista economico - i margini (purtroppo) non esistono (vedi Marocchi e Bernardoni e Picciotti). E questo è il vero problema. La cooperazione sociale ha un utile medio dello 0.65% (!). Tracce, come si legge nelle etichette relativamente a certe sostanze nelle bottiglie di acqua minerale. Se non fosse per il 2% di cooperative con una redditività maggiore, la percentuale aggregata di cui sopra sarebbe 0% (zero). Quasi i due terzi delle cooperative sociali hanno margini inferiori ai 5 mila euro annui.
Questo esito, frutto di vent’anni di mercatizzazione selvaggia, di appalti poveri e ora di coprogettazioni con cofinanziamento obbligatorio, è problematico. Non solo per l’impresa sociale, ma per chiunque abbia a cuore il bene comune delle nostre comunità. L’Ente pubblico che, stanti questi dati, si compiaccia per i risparmi conseguiti è lungimirante come chi fa legna segando il ramo di un albero sul quale è seduto: sta solo impoverendo la capacità del proprio territorio di offrire risposte ai problemi sociali (vedi l’articolo Welfare a tasche vuote). E questo per tanti motivi, alcuni più evidenti, altri meno. Certo, l’assenza di margini deprime le capacità di investimento e quindi di realizzare interventi innovativi nel medio periodo. Ma significa anche fatica degli operatori, frequente rotazione del personale, demotivazione di chi si sente mal pagato, poco coordinato, inserito in contesti destrutturati. E poi, come notava Carazzone già alcuni anni fa, significa organizzazioni con strutture ridotte all’osso, che sono costrette a mortificare la ricerca, lo sviluppo, la formazione, la comunicazione, ecc.
Insomma, la lotta senza quartiere che si conduce in sede rendicontativa, oltre a fondarsi su un presupposto scorretto (punto 1), si accanisce contro un bersaglio inesistente (punto 2), aggravando una situazione già problematica (non solo e non tanto per il Terzo settore, ma per i territori).
Le comuni definizioni di tortura definiscono tale una punizione o un trattamento che, oltre ad essere “crudele”, sia “insolito”, in altre parole discordante e peggiorativo rispetto al quanto una società usualmente fa (nel caso specifico, anche nei confronti del reo).
Contro le coprogettazioni vi è accanimento insolito, ufficialmente motivato dall’erigere ogni possibile barriera contro il rischio che si verifichi “lucro”.
Una chiara dimostrazione è la seguente. È noto come, in tema di rendicontazione, non si parte da zero. Da molti anni, si sono consolidate prassi rendicontative, ad esempio, rispetto ai fondi europei, certamente tutto fuorché lassiste, e anzi oggetto di critica per l’appesantimento burocratico che spesso comportano; ma, d’altra parte, spesso relative a importi economici di grande entità. E, non a caso, le linee guida approvate con D.M. 72/2021 citano (a dire la verità relativamente all’art. 56, ma non vi sono motivi logici per non ritenere che ciò sia riferibile in generale ai procedimenti rendicontativi del Titolo VII del Codice del Terzo settore e quindi agli art. 55, 56 e 57): «Con riferimento alla rendicontazione delle spese e dei costi sostenuti, si ritiene che possa essere considerata, quale prassi tuttora valida, la Circolare n. 2 del 2 febbraio 2009 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali», quella appunto relativa alla rendicontazione a costi reali di spese sostenute nell’ambito dei progetti cofinanziati dal Fondo sociale europeo.
Bene, si affronti una delle questioni più controverse nelle rendicontazioni, ossia quella dei costi indiretti e si legga a pagina 11 e 12 di tale circolare: «I costi sono “indiretti” quando non sono o non possono essere direttamente connessi all’operazione, in quanto sono riconducibili alle attività generali dell’organismo che attua l’operazione… Sono costi per i quali, non essendo possibile determinare con precisione l’ammontare attribuibile ad un’operazione specifica, verranno imputati all’operazione stessa attraverso metodo equo, corretto, proporzionale e documentabile, oppure su base forfetaria ad un tasso non superiore al 20% dei costi diretti».
Tutto chiaro, tutto ragionevole, tutto ampiamente sperimentato in vent’anni di progetti europei nelle cui rendicontazioni a costo reale il computo dei costi generali in termini di percentuale sui costi diretti è cosa del tutto comune; senza che a nessuno sia venuto in mente di affermare che ciò infici la natura di una rendicontazione effettivamente “a costi reali”.
Ma per quale motivo allora capita di leggere sentenze, avvisi pubblici, articoli di commento che si ostinano invece a vedere in un meccanismo di questo genere una scandalosa area grigia che l’ETS potrebbe utilizzare per realizzare il tanto vituperati “lucro”? Con la conseguenza che in alcuni casi si nega la possibilità che i costi generali possano essere rimborsati, se ne prevede il rimborso limitato e parziale o sono imposti meccanismi eccessivi e penalizzanti per la rendicontazione. È oltremodo paradossale che, dopo avere introdotto nella riforma del Terzo settore in modo inequivocabile anche gli ETS con natura imprenditoriale, persistano resistenze nel riconoscere che esse si avvalgono di fattori produttivi onerosi.
Un accanimento insolito, appunto, attuato solo nel caso di coprogettazioni e non negli altri casi in cui si rimborsano i costi reali, immotivato, comprensibile solo in un’ottica tesa, per ragioni ideologiche, a rendere arduo il cammino dell’amministrazione condivisa, al fine di lasciare, come unica via percorribile, la tradizionale strada degli affidamenti in appalto.
Le buone notizie partono dal racconto di una pubblica amministrazione, che, in circostanze che qui si tralasciamo, ha in una specifica occasione adottato una forma assai semplificata di rendicontazione. Gli Enti di Terzo settore presenti al tavolo, oltre a non cedere a nessun comportamento opportunistico nell’esposizione dei propri costi, si sono fatti promotori di una loro proposta: diminuire, rispetto alle altre coprogettazioni, gli oneri a rimborso delle spese indirette perché “con queste modalità semplificate di rendicontazione queste spese risultano dimezzate” con destinazione delle corrispondenti risorse risparmiate ai minori e alle famiglie beneficiarie degli interventi.
L’espressione dei nostri vecchi – intrisa d’umorismo che a noi appare ingenuo – che una certa azione è consentita “ai maggiori di anni ottanta accompagnati dai genitori” ben raffigura quei casi perversi in cui meccanismi burocratici, apparentemente asettici e imparziali, sono in verità atti a limitare o impedire una facoltà legittima o un diritto, con l’aggravante di sottrarsi all’onere del confronto politico, (mal)celando il diniego con questioni apparentemente formali. Si tratta di un’operazione infedele (alla volontà popolare manifestatasi in atti normativi e alla Costituzione, come richiamata dalla Sentenza 131/2020) e irritante per quell’aspetto di codardia che contiene.
Oggi uno dei freni ad uno sviluppo virtuoso dell’amministrazione condivisa – insieme al tema imparentato, affrontato in altre sedi, del cosiddetto cofinanziamento - è proprio questo: aggravi immotivati, imposti per via burocratica, espressioni del “pensiero rachitico” ben descritto dal giudice costituzionale Antonini, che non vietano ufficialmente, ma rendono di fatto oltremodo arduo lavorare per l’interesse generale. Un problema mal centrato (punto 1), che porta ad intervenire su un tema dove gli interventi necessari semmai sarebbero di segno opposto (punto 2) con insolito accanimento (punto 3), deviando nel nulla delle carte energie e risorse che si sarebbero dovute destinare ai cittadini (punto 4).
È proprio tempo di un deciso salto di qualità: di abbandonare la cultura del sospetto, di comprendere la reale natura e i meccanismi di funzionamento del Terzo settore, di concentrarsi, Enti pubblici e Terzo settore insieme, sulle grandi sfide sociali; questo a partire dal riconoscimento sostanziale degli ETS come soggetti che, assicurando una parte importante degli interventi di interesse generale, costituiscono un capitale da sostenere e preservare, così che possano svolgere la loro funzione costituzionale.
È necessaria un’espressione chiara da parte delle istituzioni che rimuova in modo chiaro e definitivo un dibattito sulla gratuità che mai avrebbe nemmeno dovuto esser posto, dubbi sull’ammissibilità dell’una o dell’altra spesa, complicazioni burocratiche e rendicontative sproporzionate.
È tempo di mettere in soffitta il vasto armamentario di lacci e di freni che distrae risorse dalle loro finalità naturali e di essere consapevoli che l’interesse pubblico non tutela con vessazioni e scontrini, ma con alleanze capaci di rispondere ai bisogni dei cittadini.
In ultima analisi, è maturo il tempo per riconoscere che agli ETS non debbano essere riconosciute “riserve” ovvero deroghe, ma agli stessi deve essere riconosciuto uno status non soltanto formale ma anche sostanziale di soggetti giuridici di diritto privato che collaborano alla realizzazione di pezzi importanti del sistema di protezione sociale. Che, come tali, devono essere messi nelle condizioni migliori per realizzare un precetto costituzionale.
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