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ISSN 2282-1694
Tempo di lettura: 
Argomento:  Interviste
data:  18 settembre 2021

Ripartire dalle persone, ripensare gli interventi

Andrea Tittarelli

Andrea Tittarelli intervista Vincenzo Di Maria, service designer. Non ci sono servizi standard, non ci sono persone uguali alle altre: si tratta di dare vita, anche grazie a supporti visuali, a processi partecipati, che portano a organizzazioni originali degli interventi. Una lezione importante, in primo luogo, per le imprese sociali.


Dopo padre Enzo Fortunato ed Ermete Realacci, ecco una nuova intervista di Andrea Tittarelli, in un percorso alla ricerca di figure che viaggiano sui confini dell’imprenditorialità sociale, incrociandone i percorsi sul terreno della ricerca del bene comune, contribuendo alla sua comprensione con uno sguardo insieme vicino ed esterno. Oggi incontriamo Vincenzo Di Maria.


In questo nuovo appuntamento con “colonne del bene comune” abbiamo il piacere di confrontarci con Vincenzo Di Maria, service designer, formatore e facilitatore con esperienza internazionale. Laureato in Disegno Industriale all’ISIA di Roma, con seguente conseguimento del titolo di Master alla Central Saint Martins, University of the Arts di Londra, è Partner di commonground srl, uno studio di service design con base a Bologna attivo nella formazione professionale e nella consulenza per l’innovazione. Dal 2019 ricopre il ruolo di Professore a contratto in design dei servizi presso il Corso di Laurea Magistrale in Advanced Design dell’Alma Mater Studiorum, Università di Bologna. Membro del Comitato Consultivo ed ex Presidente di Architecta, Società Italiana per l’Architettura dell’Informazione, ha lavorato come ricercatore presso Design Against Crime Research Centre.

Vincenzo, ricordi il tuo primo approccio al disegno? Quand’è che con carta e matite alla mano è successo qualcosa?

Ho sempre disegnato per comunicare, da piccolo i fogli non mi bastavano e passavo alle pareti di casa. I miei non erano proprio contenti, ma forse è anche un po’ colpa loro: entrambi architetti, me le hanno messe in mano loro le matite colorate. Io non ho mai avuto velleità artistiche, ma saper disegnare mi è tornato spesso utile: le immagini sono potenti, comunicano molto di più di un paragrafo di testo, e visualizzare aiuta a spiegare concetti intraducibili. Ma si può essere ottimi designer anche senza queste capacità: oggi abbiamo a disposizione software e tecnologie che disegnano per noi, la cosa davvero importante è saper comunicare con tutti gli strumenti a disposizione per spiegare la complessità, avere empatia e creatività.

Come si è evoluto il design dal periodo della tua formazione accademica ad oggi? In quale stato lo hai conosciuto e dove si è diretto?

Ho studiato disegno industriale in Italia e poi in Inghilterra, ho imparato a progettare mobili, lampade, telecomandi e automobili, o per dirla con una battuta: dal cucchiaino all’aeroplano. Poi ho iniziato a interessarmi al design di servizi, esperienze, sistemi, ambienti più complessi dove oggetti fisici, piattaforme digitali e informazioni devono essere orchestrate per funzionare bene insieme. Pensiamo a un ospedale, un supermercato o a un aeroporto, per esempio, ci sono tante persone e tante variabili comportamentali. Negli ultimi decenni è cambiato molto il modo di progettare: prima c’era la figura dell’intellettuale geniale capace da solo di creare soluzioni iconiche, oggi un designer è anche un facilitatore di processi partecipati, l’esperto che sintetizza la complessità in modo graduale e collaborativo. Una volta contava la firma sul prodotto, oggi è più importante che il risultato funzioni. Parlare oggi di Human Centred Design, ovvero la progettazione a misura di umani, significa fare buon design per e con le persone.

Design e servizi alla persona - una delle frontiere filosofiche che aleggiano nel campo dei diritti a tutela della diversità potrebbe essere riassunta con lo slogan “nulla su di noi senza di noi”: cosa ne pensi?

Una parte essenziale del nostro mestiere, specialmente se si progettano servizi per le persone, è la ricerca: capire come la pensano le persone per cui si sta progettando, cosa vogliono, cosa sognano, è un punto di partenza fondamentale in ogni progetto ben fatto. Ma per comprendere i bisogni di un clochard, un migrante o un anziano allettato non è sufficiente mettersi nei loro panni: occorre coinvolgere le persone, avere l’umiltà e la pazienza di ascoltare, la sensibilità per lasciare che le idee evolvano per funzionare davvero nei diversi contesti sociali e culturali. Il design è diventato più democratico, e il processo creativo è più articolato. Faccio un esempio: quando viene assegnato a una cooperativa il compito di gestire i rifiuti in un piccolo comune, si dà loro la responsabilità far funzionare un servizio per i cittadini che per loro natura saranno tutti diversi e avranno abitudini e bisogni tra i più disparati. Dalla raccolta differenziata alla raccolta porta a porta, cosa funzionerà meglio in quel comune? Come reagiranno le persone? Come gestire le attività commerciali, le isole ecologiche e i rifiuti speciali? Cosa farà la cooperativa per progettare in modo flessibile e adattarsi alle circostanze? Non esistono servizi copia-incolla, così come non esistono persone uguali.

Dopo quella del fundraising, del social media marketing, della corporate social responsability... quella del service design potrebbe rappresentare una disciplina di frontiera utile allo sviluppo dell’impresa sociale?

Io credo che il service design sia un termine nuovo per descrivere qualcosa che in realtà facciamo da secoli, cioè cercare da un lato di migliorare le esperienze dei clienti o degli utenti (in alcuni casi per fidelizzarli, ma anche perché vogliamo che si trovino bene con il nostro servizio), dall’altro ottimizzare i costi e rendere tutto più efficiente. É così per il maniscalco di 100 anni fa, come per il gommista oggi, e a maggior ragione è così nel sociale, in cui rispetto ad altre imprese ci sono spesso più problemi e imprevisti da gestire, e meno soldi. Per esempio, l’impresa sociale che si occupa di servizi di assistenza agli anziani e babysitting, dovrà avere un nome e un’identità riconoscibile, un sito web per essere trovati e vari canali digitali per comunicare con i propri clienti, un numero verde per garantire l’assistenza, delle uniformi da dare ai propri dipendenti, forse del materiale informativo o promozionale stampato su carta, un modo di prenotare gli interventi e un sistema di pagamento sfaccettato. Tutto deve essere progettato per funzionare in armonia senza pesare sull’azienda e per garantire il massimo della qualità e sicurezza ai clienti finali (o parenti che pagano per loro e che lasciano i loro cari in mano al servizio). Nel gergo tecnico parliamo di esperienze senza cuciture quando lo stesso servizio si manifesta ai propri clienti o utenti tramite una serie di punti di contatto. Credo che le imprese sociali in Italia siano capaci di apprezzare la complessità di questi approcci, se ne parla da anni. Nel 2014 insieme a un gruppo di colleghi partecipammo al XII Workshop sull’impresa Sociale organizzato da Iris Network a Riva del Garda proprio per parlare di come riprogettare i servizi per aumentare l’impatto (con l’hashtag #servicedesign4socent). Già allora c’era grande interesse e curiosità da parte delle cooperative, fu uno scambio utile e rimasero anche delle risorse ancora disponibili online. Semmai il problema è da un lato la comprensione del valore di questo approccio da parte delle imprese sociali e dall’altro il costo delle prestazioni professionali di questo tipo, spesso oltre il budget disponibile. Progettare i propri servizi è un investimento sul futuro, ma ci sono anche modi di iniziare a piccoli passi e nutrire la cultura aziendale in modo graduale. Ne parlo in un libro che ho scritto lo scorso anno: “Start Small, il service design per le piccole aziende”.

Raccontaci una delle tue esperienze di consulenza che ritieni eleggibile a buona prassi nel campo dell’impresa sociale.

Ho fatto diversi progetti con organizzazioni no profit come Oxfam, Action Aid e Slow Food, molta formazione su metodi e strumenti. Recentemente ho lavorato con l’associazione Salvaiciclisti e la cooperativa Dynamo di Bologna, città dove attualmente vivo e lavoro. Oltre alle attività della velostazione e della ciclofficina che tra noleggi, vendita e riparazione di biciclette rappresentano un terreno fertile per la progettazione dei servizi, abbiamo lavorato sulla governance inclusiva e nel rapporto complicato tra associazione e cooperativa, unite nel portare avanti iniziative di mobilità sostenibile e democratizzazione degli spazi pubblici ma con attività e impegno economico differente. In questo caso il design è stato utile a rinforzare la struttura organizzativa che dà vita al servizio stesso, lavorare sulla parte sommersa dell’iceberg.

E nella Pubblica Amministrazione? Principi come il co-thinking e il visual-thinking sarebbero utili nei processi di Policy Making? Se sì, a quale livello della macchina burocratica, come e per quale scopo contestualizzeresti professionalità e pratiche in tal senso?

Pensare in modo visuale e coinvolgere gli stakeholder sono due pilastri del service design, e sono approcci efficaci, specialmente nei contesti tradizionalisti di certe PA. Negli anni ho visto molti dipendenti pubblici, abituati a una routine lavorativa fatta di riunioni e a lunghi documenti, illuminarsi nel partecipare a un nostro workshop o a un progetto: scoprono la possibilità di lavorare in modo collaborativo e visuale, si sentono ascoltati, e ciò aumenta anche la loro proattività.  Un esempio di come il pensiero progettuale possa tornare utile alla progettazione partecipata di politiche pubbliche è una collaborazione con il Comune di Milano e Cariplo Factory fatta l’anno scorso. All’interno di un corso sulle Food Policy (politiche alimentari collegate a riduzione degli sprechi, mense aziendali, educazione al cibo sano) abbiamo inserito un’attività di co-design con i funzionari pubblici delle maggiori città lombarde con lo scopo di condividere visivamente una mappa delle buone pratiche adottate da ogni provincia e costruire un toolkit o set di strumenti e risorse utili alle città minori per avviare il processo di creazione di nuove Food Policy. Abbiamo cercato dei modelli replicabili che permetta i comuni con meno risorse di attivare politiche pubbliche sul proprio territorio. In questo caso il design è stato il linguaggio collante utile a creare un terreno comune tra i partecipanti che hanno potuto portare le loro esperienze e domande per tornare al lavoro con una serie di nuovi strumenti, risorse ed esempi. Più genericamente parlando, far entrare i designer nella stanza dei bottoni e farli sedere ai tavoli dove le politiche pubbliche prendono forma è un riconoscimento importante che va gestito con responsabilità e serietà. Il ministero per la trasformazione digitale ha creato un team di professionisti, tra cui diversi service designer, per tracciare la via e definire le linee guida per la corretta progettazione dei servizi di pubblica utilità, ma conosco pochi altri colleghi che lavorano direttamente nella PA. Ci sono progetti e think tank a livello europeo che approfondiscono questo tema, come il Design Policy Lab del Politecnico di Milano o pubblicazioni come Design for Policy di Christian Bason, che partendo dall’esperienza di MindLab a Copenhagen (che per anni è stato un laboratorio di co-design aperto ai cittadini) mappa le pratiche emergenti livello internazionale di approcci collaborativi alla scrittura di politiche pubbliche. Per me fare design è un atto politico, si prendono decisioni che impattano sulla vita delle persone. La progettazione non arriva alla fine di un processo ma contribuisce a prendere le decisioni. Come amava ripetere Steve Jobs: “Il design non è come le cose sembrano o appaiono. É come le cose funzionano.”

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Andrea Tittarelli

Università di Perugia

Imprenditore sociale con l'incarico di Presidente presso la cooperativa "La Semente" e manager del nonprofit nel ruolo di Direttore Generale in seno alla Federazione di Angsa (Associazione Nazionale Genitori di Soggetti Autistici). Insegna "Impresa sociale e service design" presso il Dipartimento di Scienza Politiche dell'Università degli Studi di Perugia.

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