Una riflessione a partire dalla recente norma che amplia alle società benefit la possibilità di essere coinvolte nell'ambito delle convenzioni artt. 12 bis e 14, da leggere nell'ambito dei vincoli di trasparenza, misurazione e rendicontazione dell’impatto che caratterizzano questo tipo di imprese.
L'autore ringrazia Claudia Ravera per i preziosi spunti di riflessione e il confronto
In epoca recente, e soprattutto grazie alla capacità dei principi costituzionali di permeare non soltanto i provvedimenti normativi, nazionali e regionali, ma anche la concreta azione dei soggetti della società civile, i processi di de-statalizzazione o depubblicizzazione, che hanno interessato, in particolare, il comparto dei servizi alla persona, hanno, da un lato, ridato slancio all’azione autonoma dei soggetti non profit e, conseguentemente, hanno aperto una nuova stagione collaborativa tra questi ultimi e le pubbliche amministrazioni e, dall’altro, hanno fatto emergere, con maggiore forza, la responsabilità sociale delle imprese for profit.
Gli interventi e le azioni degli enti non profit sono stati, in larga parte, supportati dalla Riforma del terzo settore (2016/2017), dalle leggi e provvedimenti regionali, nonché da una rinnovata consapevolezza della funzione del principio di sussidiarietà, quale parametro di riferimento per l’azione pubblica. Tra l’altro, la riforma (che quest’anno tagli il traguardo dei suoi primi dieci anni di applicazione) ha, in parte, contribuito allo “scoloramento” del vincolo alla non distribuzione degli utili, che storicamente ha definito l’azione degli enti non profit. Invero, la Riforma ribadisce la rilevanza delle finalità di interesse generale delle attività svolte, nei confronti della quale i profili gestionali ed organizzativi degli enti risultano cedevoli. In altri termini, avuto riguardo alle finalità di carattere collettivo che le singole organizzazioni sono chiamate a realizzare, la circostanza che esse non prevedano quale elemento definitorio la non distribuzione degli utili maturati non rappresenterebbe un impedimento.
Siamo dunque di fronte ad un cambio di paradigma giuridico rispetto a quanto siamo stati fino ad oggi abituati? Il vincolo alla non distribuzione degli utili è stato soppiantato da altri requisiti formali, utili e funzionali ad individuare una nuova fattispecie giuridico-organizzativa? Le finalità sociali e solidaristiche sono per se sufficienti ad individuare una nuova categoria di organizzazioni “a vocazione SDGs”? In una dimensione di “vocazione sociale” delle singole realtà organizzative ed imprenditoriali, il vincolo alla non distribuzione dei profitti è ancora in grado di assolvere alla funzione reputazionale e di sviluppo delle organizzazioni che ne sono definite?
In un simile contesto, la legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016, art. 1, commi da 376 a 382) ha introdotto nel nostro ordinamento una particolare modalità di “fare impresa”, segnatamente, la “Società Benefit”. L’intenzione del legislatore emerge con chiarezza nella Relazione al disegno di legge: “Superando l’approccio «classico» del fare impresa, le società con finalità di beneficio comune introducono un salto di qualità nel modo di intendere l’impresa, tale da poter parlare di vero e proprio cambio di paradigma economico ed imprenditoriale. Dal punto di vista storico, infatti, la disciplina delle società e il processo decisionale delle stesse sono strutturati sul modello del perseguimento, nel lungo termine, della creazione di valore per i soci. Nella gestione ordinaria di una società tradizionale, le decisioni prese dagli amministratori sono generalmente impostate per massimizzare l’utile per i soci e dalle loro decisioni operative discendono precise responsabilità. Un impegno della società, e quindi degli amministratori, a perseguire uno scopo aggiuntivo rispetto a quello del profitto non è stato finora contemplato e disciplinato nel nostro ordinamento e, pertanto, lo scopo di beneficio comune potrebbe risultare allo stato attuale incompatibile e incorrere in difficoltà nel caso di registrazione presso le camere di commercio. L’intento della proposta è, pertanto, proprio quello di consentire la diffusione nel nostro ordinamento di società che nell’esercizio della loro attività economica abbiano anche l’obiettivo di migliorare l’ambiente naturale e sociale nel quale operano, riducendo o annullando le esternalità negative o meglio utilizzando pratiche, processi di produzione e beni in grado di produrre esternalità positive, e che si prefiggano di destinare una parte delle proprie risorse gestionali ed economiche al perseguimento della crescita del benessere di persone e comunità, alla conservazione e al recupero di beni del patrimonio artistico e archeologico presenti nel luogo ove operano o sul territorio nazionale, alla diffusione e al sostegno delle attività culturali e sociali, nonché di enti ed associazioni con finalità rivolte alla collettività e al benessere sociale. Gli amministratori di una società che persegue anche lo scopo del beneficio comune gestiscono l’azienda con lo stesso impegno e la stessa autorità di un’azienda tradizionale ma, mentre in un’azienda tradizionale i soci valutano esclusivamente le performance economico-finanziarie, qui valutano anche le performance qualitative e il raggiungimento degli obiettivi di beneficio comune dichiarati” mirava appunto a introdurre disposizioni per la diffusione di società che perseguono il duplice scopo di lucro e di beneficio comune”.
Nella cornice sopra delineata, un emendamento contenuto nella legge di conversione del DL 159/2025 ha proposto di equiparare le società benefit alle cooperative sociali di tipo B in relazione alle politiche di inclusione lavorativa. La proposta in parola merita particolare attenzione, tra l’altro, perché appare collocabile in termini coerenti e sistemici nell’ambito del quadro di azione a livello europeo. Invero, l’art. 20 della Direttiva 24/2014/UE e l’art. 61 del Codice dei contratti pubblici (d. lgs. n. 36/2023) riconoscono la possibilità alle pubbliche amministrazioni di riservare il diritto di partecipazione alle procedure di appalto e a quelle di concessione o possono riservarne l'esecuzione a operatori economici e a cooperative sociali e loro consorzi il cui scopo principale sia l'integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate, o possono riservarne l'esecuzione nel contesto di programmi di lavoro protetti quando almeno il 30 per cento dei lavoratori sia composto da lavoratori con disabilità o da lavoratori svantaggiati.
A ciò si aggiunga che l’art.14 del d.lgs. n. 276/03 (Legge Biagi) prevede la possibilità per le imprese di affidare commesse di lavoro ad una cooperativa sociale, delegando quindi contestualmente alla cooperativa selezione, formazione e gestione del personale assunto, assolvendo così, in via indiretta, all’obbligo di assunzione previsto dalla legge n. 68/1999. Infatti, la cooperativa, per lo svolgimento dell’attività richiesta dal cliente, assume uno o più lavoratori disabili, che sono computati nella quota d’obbligo dell’azienda. I lavoratori disabili entrano in un progetto di inserimento lavorativo, con un tutor dedicato e all’interno di un ambiente lavorativo sensibile e preparato sulla formazione e gestione lavorativa delle fasce deboli.
In questa cornice, come può essere letta la proposta inserita nella legge di conversione del dl "Sicurezza sul lavoro"? La mia storia personale, l’area di ricerca scientifica, nonché le mie pubblicazioni esprimono l’importanza di tutelare l’esperienza e l’impegno delle cooperative sociali, in particolare, quelle che nella storia del nostro Paese si è fatta carico, ancor prima dell’intervento delle istituzioni pubbliche, di offrire spazi, progetti e interventi di inclusione socio-lavorativa per le persone più fragili. Tuttavia, anche alla luce di quanto sopra riportato, occorre richiamare alcuni elementi che caratterizzano le società benefit, affinché se ne possano cogliere i principali profili definitori. In primis, la scelta di adottare lo “status” di società benefit, alla stregua di quanto si registra nella scelta di adottare la forma della società cooperativa sociale, corrisponde all’esigenza (volontà) di produrre “benefici sociali” a favore di categorie di destinatari ovvero dei territori di riferimento. Questa scelta individua una “vocazione” inclusiva strutturale, che non può identificarsi né in un’opzione tattica né in una mera opportunità reputazionale (anche se, come in tutti i comparti della convivenza civile e nei settori economici, non mancano le scelte opportunistiche). In questo senso, non si dimentichi che lo status di “società benefit” sottende l’assunzione di obblighi di natura giuridica ed etica, che, integrando l’oggetto sociale, sono finalizzati alla creazione di impatto positivo in favore di persone, comunità e ambiente. Da ciò consegue che le società benefit sono definite da un set di vincoli, che alle medesime impongono trasparenza, misurazione e rendicontazione dell’impatto delle loro attività. In questa prospettiva, la legge istitutiva del 2015 ha inteso prevedere una specifica attività di reportistica in capo alle società benefit, che evidenzi in modo chiaro gli indicatori e gli strumenti che permettano di valutare e monitorare l’effettivo contributo della società benefit agli obiettivi dichiarati (inclusione, sostenibilità, equità). Ne consegue che la libertà di scelta gestionale (governance interna) non elimina l’obbligo — morale e giuridico — di dimostrare coerenza tra mission e attività.
Avuto particolare riguardo all’attività di inserimento lavorativo delle persone con disabilità e/o fragili in senso ampio, occorre distinguere tra inclusione come valore astratto, riconosciuto ma non quantificato e inclusione come risultato misurato, integrato nella governance e nei processi decisionali aziendali. Questo secondo approccio costituisce un efficace antidoto contro la percezione dell’inclusione come “variabile flessibile” o strumentale alla partecipazione alle procedure di gara, per riconoscerne la funzione centrale nella creazione di valore sociale.
In ultima analisi, pur mantenendo inalterate le differenze “ontologiche”, gestionali, giuridiche ed organizzative tra società benefit e cooperative sociali di tipo b), anche considerando le previsioni del d. lgs. n. 62/2024 (riforma disabilità), si potrebbe pensare allo sviluppo futuro di alleanze e collaborazioni tra diverse tipologie di soggetti giuridici, finalizzate a rafforzare la garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni, in specie, a favore delle fasce più vulnerabili della società.
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