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ISSN 2282-1694
Tempo di lettura:  6 minuti
Argomento: 
data:  06 maggio 2020

Verso un piano di azione europeo per l’economia sociale

Luigi Martignetti

Prima dell'emergenza Covid si era iniziato a ragionare di un Piano di azione europeo per l'economia sociale; si tratta ora di avviare una riflessione per capire quali obiettivi si vogliono perseguire, elaborando una conseguente strategia verso le istituzioni comunitarie.


La consapevolezza della necessità un nuovo modello economico

La lettera di missione del 1 dicembre 2019, proposta dalla Presidente Von der Leyen al futuro Commissario Nicolas Schmit, include lo sviluppo di un “piano di azione per l’economia sociale per accrescere l’innovazione sociale”. Tale decisione fu salutata in generale positivamente dal mondo dell’economia sociale, seppur con qualche dubbio circa la “condizionalità” secondo cui si sostiene l’economia sociale per uno scopo preciso - accrescere l’innovazione sociale - mettendo in qualche modo in ombra gli altri motivi per i quali sia importante promuovere il sistema.

La storia politica del Commissario Schmit, precedentemente ministro del lavoro e degli affari sociali del Granducato di Lussemburgo, testimonia, come vedremo in seguito, una consapevolezza più ampia degli obiettivi dell’economia sociale ed un approccio più comprensivo.

Tra il 1 dicembre 2019 ed il 24 Aprile 2020, però, evidentemente molto è cambiato, e molto dovrà cambiare ancora nei prossimi mesi, per rispondere alla crisi generata dalla pandemia Covid-19.

In primo luogo, la crisi sanitaria e la crisi economica sembrano per il momento aver generato una nuova coscienza degli effetti drammatici delle diseguaglianze sociali ed economiche, richiamando al bisogno di lottare contro tali diseguaglianze per costruire un modello sociale (ed economico) resiliente, basato sui valori della cooperazione, della solidarietà e della responsabilità, come richiamato dallo stesso Commissario Schmit.

L’economia sociale quindi sembra essere uscita dalla bolla dell’innovazione sociale, per essere considerata nella sua interezza di sistema di creazione di valore sociale ed economico; sistema rimasto, peraltro, sempre attivo nella riduzione dei danni generati dalla pandemia. Senza sopravvalutare la capacità delle autorità locali di lavorare in partenariato con gli attori sociali, resta la rilevanza dell’azione di contrasto posta in essere sia dalle imprese ed organizzazioni del Terzo settore in ambito socio-sanitario, che non hanno mai sospeso le attività, sia da quelle attive in altri settori industriali, che si sono attivate per mantenere il più possibile i livelli occupazionali – o meramente di retribuzione – soprattutto delle persone più vulnerabili dal punto di vista sociale ed occupazionale.

Gli strumenti straordinari. Saranno accessibili alle imprese sociali?

Come la Commissione ha ribadito, gli attori dell’economia sociale devono poter accedere agli interventi straordinari attivati a livello Europeo. Vale la pena elencarli, secondo lo schema della Commissione stessa:

  • Flessibilità nell’applicazione delle norme sugli aiuti di Stato
  • Uso flessibile dei residui dei Fondi Strutturali e di Investimento
  • Allargamento della portata del Fondo Europeo di Solidarietà
  • Incentivi alle banche per la fornitura di liquidità, attraverso il Fondo Europeo per gli Investimenti
  • Lo strumento temporaneo di mitigazione della disoccupazione (SURE)

Per la maggior parte, però, questi strumenti non sono gestiti direttamente dalla Commissione, ma dagli Stati membri, che devono sapere come usarli (per esempio le norme sugli aiuti di stato, o sull’uso dei Fondi Strutturali) o come attivarli (il Fondo Europeo di Solidarietà, gli strumenti FEI), ed avere la volontà di utilizzarli per sostenere l’economia sociale. Gli strumenti Europei di emergenza rischiano quindi di risultare semplicemente inservibili per una buona parte degli attori dell’economia sociale.

Cosa vorremmo leggere nel nuovo piano di azione?

Vale quindi la pena rivolgersi, con speranza, al futuro, ed al venturo piano di azione, pur sapendo come questo sia avvolto nella nebbia fitta del post-crisi e, soprattutto, nell’assenza di un accordo sul Quadro Finanziario Pluriennale dell’Unione. Il quadro finanziario non è approvato prima dell’inizio della crisi e sarà presumibilmente modificato nei sui aspetti fondamentali. La Commissione dovrà introdurre delle proposte ai primi di maggio e da lì si inizierà a poter tracciare il nuovo profilo dell’azione dell’Unione.

Nel frattempo, è utile chiedersi che cosa il sistema vorrebbe leggere in questo piano; per fare questo, è necessario sapere cosa esiste già, cosa è andato per il verso giusto e cosa non sembra aver funzionato finora, almeno per sommi capi.

Uno sguardo al passato: l’economia sociale nelle politiche comunitarie

Volendo procedere per salti, vale la pena ricordare quanto e da quando si chiedono azioni integrate in favore dell’Economia Sociale.

Prendiamo come base l’Opinione, ormai ventennale, del Comitato Economico e Sociale Europeo “Economia Sociale e Mercato Unico”, relatore Jan Olsson. In quella opinione si sottolineava, ad esempio, l’importanza che il ruolo dell’economia sociale per lo sviluppo locale e per la promozione fosse inserito nei programmi operativi dei Fondi Strutturali per il periodo 2000-2006 (!). Allo stesso modo, si chiedeva agli Stati membri ed alla Commissione di agire per migliorare l’accesso al finanziamento delle (micro)imprese di economia sociale, dopo aver constatato l’inadeguatezza del sistema finanziario (si badi bene: del sistema finanziario, non del sistema dell’impresa di economia sociale!). Infine, si richiedeva alla Commissione di definire modalità di accesso al sistema degli appalti pubblici basato su criteri “chiari, trasparenti e fondati sulle caratteristiche fondamentali dell’economia sociale”; è interessante notare come non si auspicasse un regime derogatorio, quanto piuttosto un regime specifico.

Ma la parte probabilmente più interessante dell’Opinione, per quanto ci riguarda, è la constatazione del fallimento – o meglio la mancata attuazione – di quello che potrebbe essere considerato l’antenato del piano di azione, di cui alla lettera di missione della Presidente Von der Leyen: il programma in favore dello sviluppo delle Cooperative, Mutue, Fondazioni ed Associazioni, programma dalle ambizioni in realtà assai moderate ma che non ottenne il parere unanime degli Stati Membri... da cui il ripiegamento sull’inserimento di azioni specifiche all’interno di altri programmi, come i già citati programmi operativi dei Fondi Strutturali, il Quinto Programma Quadro di ricerca e sviluppo, ed una serie di programmi pilota proposti dall’allora Commissaria Diamantopoulou.

Questa linea di intervento, volta a sviluppare una sorta di mainstream dell’economia sociale nelle politiche dell’Unione, è di fatto quella seguita ancora 11 anni dopo nella Social Business Initiative, la quale, sotto la forma della Comunicazione della Commissione, propone un “piano d’azione per sostenere l’imprenditoria sociale in Europa”. Questo piano si esprime attraverso 4 assi e 11 azioni, in parte realizzate. Tre Commissari partecipano all’operazione: Barnier, Tajani e Andor, tutti poi presenti all’evento “Social entrepreneurs: have your say!”, a Strasburgo il 16 e 17 gennaio 2014, da cui scaturisce la Dichiarazione di Strasburgo.

Per citare un esempio, il piano affronta il problema dell’accesso a strumenti finanziari appropriati, come già richiesto nell’opinione del Comitato nel 2000, e lo fa attraverso strumenti dalla consistenza limitata (programmi per il microcredito e per l’impresa sociale, che in seguito utilizzerà fondi della Politica di Coesione) oppure attraverso labelizzazioni di strumenti finanziari classici (EUSEF), di successo non eccelso.

D’altra parte, serve invece a supportare l’inserimento di una definizione di impresa sociale nella direttiva che modernizza le procedure di appalto pubblico, se è vero che all’articolo 77 della direttiva 2014/24 sono riportate le caratteristiche che un’organizzazione deve possedere per poter accedere alla contrattazione diretta:

  1. Missione di servizio pubblico
  2. Reinvestimento o parziale distribuzione dei profitti, secondo considerazioni partecipative
  3. Gestione partecipativa dell’impresa, che possa comprendere anche i beneficiari

Non sono esattamente i criteri che definiscono l’impresa di economia sociale, ma, a memoria, è il primo esempio di inserimento di criteri da impresa sociale in un testo cogente… ancorché in un articolo non obbligatorio. Non era invece una novità assoluta il riferimento alle imprese di inserimento (antecedentemente indicati come laboratori protetti) all’art. 20 della stessa direttiva.

Dopo la Social Business Initiative, e gli atti che ad essa fanno riferimento, assistiamo ad una crescita di interesse politico, per tanti versi inedita, che culmina nelle le Conclusioni del Consiglio del 7 dicembre 2015 su “La promozione dell’economia sociale, come strumento chiave di sviluppo economico e sociale dell’Europa”, sotto la Presidenza Lussemburghese (Ministro Nicolas Schmit).

Per molti versi queste conclusioni rappresentano un passo avanti molto importante, già a partire dal titolo, non essendo più collocate in un sotto-ambito, ma considerate come strumento di sviluppo economico e sociale, senza altri aggettivi.

A seguito di questo documento viene creato il Comitato di Monitoraggio della Dichiarazione di Lussemburgo, composto da rappresentanti di un numero (variabile) di Stati membri e, due anni dopo, è istituita una task force inter-servizi della Commissione Europea, allo scopo di implementare le politiche in favore dell’economia sociale.

E con questo arriviamo a ieri l’altro, vale a dire all’annuncio del piano di azione del 2019.

Quindi: cosa vogliamo che contenga un piano di azione?

Dando per scontato che un piano di azione serva, bisogna che ci si faccia alcune domande, e si tenti di darvi una risposta.

La più semplice sarebbe: cosa vogliamo trovare nel piano di azione? Ma è semplice solo in apparenza. Se la decliniamo, dobbiamo anche chiederci: su cosa vorremmo che il piano di azione influisse? E ancora, a quale livello dovrebbe incidere? Europeo? Nazionale? Sulle politiche? Sul quadro giuridico?

Ma non è ancora abbastanza: a monte bisognerà chiedersi che capacità (e volontà) ha il settore di interagire con le Istituzioni Europee. Un esempio: la preparazione della già citata direttiva appalti è stata preceduta da un libro verde sulla modernizzazione delle politiche di appalto, seguito da relativa consultazione pubblica. Questa consultazione, come spesso accade, non fu molto partecipata, in generale, ma ancora meno lo fu da parte delle organizzazioni di economia sociale. A questo si aggiunga il fatto che le risposte ad una consultazione puntuale che abbiano la forma della petizione di principio, di solito, non hanno un grande impatto nella formazione delle norme. Se il peso di queste consultazioni, in positivo, non è enorme, lo è invece in negativo: quando una richiesta di regime speciale viene proposta da 1 rispondente su 67, è relativamente facile per l’Istituzione rispondere che, alla luce della consultazione, l’istanza non appare rilevante.

Su quale ambito intervenire? Impianto giuridico o politiche?

Fatta questa premessa, si può tornare indietro di un paragrafo e cercare risposte alle domande sulle nostre aspettative per il piano di azione, partendo dall’ultima: vogliamo che il piano di azione abbia impatto sull’impianto giuridico? È un tema piuttosto complesso. Potremmo fare l’esempio di una richiesta tipica del sistema: una definizione Europea di economia sociale, sempre perseguita e mai raggiunta, e da ultima declinata sotto forma di Label, nella risoluzione di iniziativa parlamentare su “Statuto per le imprese sociali e solidali”. Se intendiamo perseguire un impatto sul piano giuridico, allora dobbiamo sapere che l’azione andrà svolta a livello di tutte e tre le Istituzioni Europee (Commissione, Parlamento e Consiglio) con una particolare attenzione al Consiglio, e quindi agli Stati Membri, che dovrebbero, poi, insieme al parlamento votare ed implementare la definizione giuridica. Si tratta evidentemente di un’azione complessa e radicale, in senso letterale; con questo non si intende dire che non sia auspicabile, ma che richiede un grande impegno e circostanze favorevoli per avere successo.

Il livello successivo, sempre andando a ritroso, è il livello delle politiche. Si tratta di un livello più “abituale”, per così dire. Alcuni degli esempi che abbiamo fatto nel “promemoria” hanno di fatto questa dimensione. Il fatto che sia abituale, non lo rende semplice. In primo luogo, in quanto l’economia sociale è un sistema piuttosto complesso, in cui non è affatto detto che gli interessi di tutte le parti siano convergenti. Questo potrebbe essere risolto scegliendo accuratamente il livello a cui si intende agire. Semplificando: più il livello è “politico”, più sarà facile trovare terreno comune; più il livello è operativo, meno sarà facile trovare azioni di policy comuni. Tra i due estremi, ovviamente, ci sono innumerevoli sfumature.

Alla complessità, per così dire, “interna al sistema”, si aggiunge una complessità esterna, che riguarda il conflitto che si è disposti ad affrontare. Infatti, non è improbabile che le proposte politiche del sistema di economia sociale siano conflittuali, non solo rispetto alle proposte di altre parti del sistema economico (e sociale), ma anche rispetto alla linea politica della Commissione, della maggioranza Parlamentare, dei governi nazionali. Bisogna tener presente in questo caso che il conflitto non è un modus operandi proprio alle Istituzioni Europee, o almeno lo è in misura molto minore di quanto non lo sia a livello nazionale. Un’azione di tipo conflittuale richiederà di conseguenza una buona dose di “decisione” e di pazienza.

Su quale livello? Comunitario o nazionale?

Su quale livello si vuole influire? Europeo? Nazionale? Entrambi? Come sappiamo, le competenze sono di natura esclusiva in alcune materie e concorrente in altre. Ma anche nelle materie di competenza esclusiva, sappiamo esistono tante e tali interazioni da rendere molto difficile tracciare una linea netta di demarcazione tra livello europeo e nazionale.

È inutile pretendere un’azione politica esclusivamente Europea in ambito sociale quanto è inutile reclamare un’azione politica esclusivamente nazionale in materia di norme sugli appalti. Allo stesso modo, è inutile sollecitare un intervento Europeo a livello di implementazione dei programmi operativi nazionali della politica di Coesione Europea, quanto è inutile chiedere un intervento nazionale per la ridefinizione delle priorità della politica di Coesione Europea.

Fino qui le domande relative ai livelli giuridici e politici.

Se passiamo, poi, ai settori socio-economici sui quali un piano di azione dovrebbe generare impatto, le cose, se possibile, si complicano ulteriormente. Anzitutto per il fatto che dovremmo, per prima cosa, sapere se le aree in questione attengano alla competenza dell’Unione o degli Stati: per esempio, in materia fiscale la competenza è concorrente.

In secondo luogo, si dovrà decidere con quale gradualità si intende avanzare proposte. Torna qui il discorso relativo alla gestione della conflittualità: quanto conflitto pensiamo di poter gestire, e quanto siamo disposti a gestire, con il rischio, ovviamente, di fallire? A complicare le cose, si aggiunge il rischio di conflitto non solo esterno, ma anche interno al sistema, come già anticipato, si può decidere di limitarsi a chiedere il possibile, secondo una prassi abbastanza consolidata, e non necessariamente di successo. Si può decidere di puntare al quasi impossibile (quasi perché se stiamo parlando di azioni concrete vuol dire che abbiamo già superato le fasi precedenti, e risolto la dicotomia possibile/impossibile della nostra scelta). Il quasi impossibile richiede ovviamente molta più fatica; d’altronde il possibile potrebbe non essere soddisfacente.

In conclusione

Non c’è una conclusione. Ci sono solo una serie di opzioni che portano in direzioni diverse, a volte divergenti, ma che a questo punto sembra necessario scegliere e, per quanto possibile, percorrere. Ma ancora prima è necessario avere coscienza delle direzioni e un minimo di capacità di prevedere dove porteranno, anche per essere in grado di reagire in tempo ai cambi di scenario, come quello che stiamo vivendo, senza perdere il senso della direzione intrapresa, o del reale.

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Luigi Martignetti

REVES

Segretario generale di Reves - Eurpean Network of Cities & Regions for the Social Economy.

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