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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2024

Saggi

Lavorare stanca: chi va e chi resta nelle cooperative sociali?

Luca Fazzi


Introduzione

Gli studi sulle motivazioni dei lavoratori costituiscono un pilastro fondante della teoria sull’impresa sociale. L’idea base da cui prende forma la discussione è che sono le persone con le loro motivazioni e la loro visione del mondo a rendere o meno competitive le imprese. Le imprese sociali nascono come un modo di rispondere ai bisogni che trova un importante punto di forza nel rapporto tra motivazioni e modello di impresa. Perseguendo finalità sociali senza scopo di lucro, ovvero con il vincolo di dovere utilizzare gli utili o la gran parte degli stessi per il perseguimento di scopi di interesse, le imprese sociali selezionano individui idealmente motivati che sono disponibili a compensare salari più bassi in cambio dell’impegno a realizzare obiettivi coerenti con i propri valori (Park e Word, 2012). In forza di tale maggiore disponibilità non solo aumenta l’efficienza e la competitività rispetto a altre forme di impresa pubblica o commerciale, ma le imprese sociali sono anche più capaci di affrontare crisi che richiedono elevati livelli di adattabilità rispetto ai cambiamenti ambientali e agli shock esterni (Mitroff e colleghi, 1987).

Una lunga serie di ricerche svolte nel corso degli ultimi venti anni a livello sia nazionale sia internazionale ha confermato che nelle imprese sociali e nel Terzo settore le motivazioni intrinseche e la relativa soddisfazione sono più forti che nel settore profit e nel pubblico e che di fronte alle crisi esse mostrano una notevole capacità di resistenza (Miller-Stevens e colleghi, 2015). Nelle imprese sociali che assumono il modello cooperativo, inoltre il lavoratore tende a considerare il suo impegno riconosciuto e remunerato equamente tenendo conto di due fattori che sembrano influenzare le motivazioni e il comportamento dei lavoratori: l’equità distributiva e l’equità procedurale (Borzaga e Tortia, 2007). L’equità distributiva è relativa al fatto che il lavoratore considera il suo impegno riconosciuto e remunerato equamente tenendo conto delle risorse a disposizione dell’impresa. L’equità procedurale riguarda invece la percezione dei lavoratori di essere adeguatamente informati su ciò che da essi ci si aspetta, sulla coerenza delle remunerazioni con quelle dei colleghi e dei superiori tenendo conto del ruolo e dell’impegno richiesti, e sulla trasparenza rispetto alla possibilità di crescita professionale e di ruolo. Ricerche comparate tra i lavoratori delle cooperative sociali del pubblico e delle imprese commerciali hanno evidenziato in passato come le forme di equità percepite fossero entrambe particolarmente elevate nelle cooperative sociali e più basse tra i dipendenti pubblici e delle imprese convenzionali e che il più importante fattore nel determinare la soddisfazione e la fedeltà dei lavoratori fosse l’equità procedurale (Borzaga e Tortia, 2007; Fazzi, 2012).

Nonostante molte indicazioni - tra cui la reazione dimostrata dalla cooperazione sociale di fronte alla crisi economica del 2008 - confermino la capacità di resistenza e di fare leva sulla tenuta della forza lavoro della cooperazione sociale, negli ultimi anni stanno emergendo segnali di forte preoccupazione in merito alla tenuta di questo modello di impresa e dei suoi principali elementi teorici. Già prima della pandemia molte cooperative incontravano grandi difficoltà a reclutare nuovo personale. Il periodo del Covid ha esasperato questa crisi, in particolare per alcune professioni come gli operatori sociosanitari, gli infermieri e gli educatori professionali che sono stati cooptati in grandi numeri dalle strutture pubbliche. A causa della carenza di personale si sono avuti anche casi in cui le cooperative non sono più in grado di garantire gli standard per l’erogazione di servizi già affidati dalle pubbliche amministrazioni. A conferma della difficoltà di attrazione di giovani lavoratori da parte della cooperazione sociale, una recente indagine online svolta a livello nazionale sugli assistenti sociali occupati nel Terzo settore su un campione di 4500 professionisti indica come la collocazione nelle cooperative sia reputata dalla maggior parte degli occupati giovani come transitoria in attesa di un concorso nell’ente pubblico e che, tra i lavoratori che hanno abbandonato queste organizzazioni, il 10% lo abbia fatto per la percezione di un eccesso di sfruttamento e il 5% per la delusione rispetto alle aspettative ideali (Burgalassi, 2023). Alcune ricerche esplorative a livello locale indicano in modo ancora più esplicito una forte crescita di insoddisfazione da parte dei lavoratori delle cooperative sociali e in particolare dei giovani, che esprimono livelli di affiliazione molto bassi nei confronti delle imprese in cui sono occupati (Giullari e Lucciarini, 2024).

I rischi della capacità attrattiva e di tenuta di lavoratori motivati da parte delle cooperative sociali sono evidentemente dirompenti. Da un lato, se si riduce l’attrattività, il problema delle imprese sociali è di dovere reclutare personale progressivamente meno qualificato e con meno dedizione lavorativa, molto più esposto al turnover e quindi poco adatto per fare investimenti di media lunga durata come potrebbero essere banalmente quelli formativi (Parry e colleghi, 2005). Inoltre, personale meno motivato e più insoddisfatto fa decrescere la qualità dei servizi e può ledere in modo pericoloso l’immagine del settore (Nickson e colleghi, 2008).

A dispetto della crescita economica e occupazionale dell’ultimo trentennio, che ha fatto della cooperazione un pilastro portante del welfare locale a livello nazionale (Fazzi, 2022), nel rapporto in passato più lineare tra motivazioni e forme di impresa cooperativa sembra che qualcosa si rischi di inceppare, o non funzioni più come nei decenni precedenti. Si tratta di effetti transitori della crisi pandemica che hanno stressato la capacità di resistenza di molte cooperative, o di altri effetti esogeni come l’incremento dell’inflazione con il conseguente indebolimento del potere di acquisto dei salari dei lavoratori? Oppure c’è anche dell’altro - e in tal caso, che cosa?

La ricerca: obiettivi e metodo

Per rispondere a questi interrogativi è stata realizzata tra novembre 2023 e aprile 2024 una ricerca basata su interviste semi-strutturate a un campione di 78 lavoratori di front-line (non amministrativi) delle cooperative sociali nelle regioni del sud, centro e nord Italia. Le aree selezionate a livello regionale sono Benevento, Napoli, Foggia, Frosinone, Grosseto, Padova, Treviso, Lecco, Mantova, Trento e Bolzano. Il campione è stato costruito con il metodo a valanga, che si utilizza quando le risposte da ottenere riguardano temi delicati che potrebbero, attraverso altri metodi più intrusivi, essere distorte e generare risultati fallaci (Cardano, 2011). Sono stati ingaggiati e formati come intervistatori i lavoratori di alcune cooperative sociali con lo scopo di avere dei mediatori in grado di instaurare relazioni tra pari e fiduciarie con gli intervistati. Utilizzando le reti relazionali con altri lavoratori di cooperative sociali del territorio di questi ultimi, il campione è stato di seguito allargato ricomprendendo i lavoratori di 74 cooperative sociali. L’indicazione fornita agli intervistati è stata di contattare e segnalare colleghi sia occupati sia non più occupati nelle cooperative sociali e con un’esperienza di lavoro in diversi settori di attività, tipologia di cooperative (a, b e ad oggetto plurimo) e grandezza di fatturato delle stesse. Gli intervistati selezionati e che hanno accettato di essere intervistati sono divisi in due gruppi: 38 lavoratori che hanno abbandonato negli ultimi 24 mesi le cooperative e 40 che continuano a essere occupati al loro interno. Gli intervistati sono lavoratori sia soci che dipendenti che svolgono compiti operativi in rapporto con l’utenza; le caratteristiche del campione sono riportate nella tabella 1.

 

Tab. 1 Caratteristiche campione

 

Occupati in cooperative sociali (40)

Che hanno abbandonato cooperative sociali (38)

Età

< 30 7

30-45 24

>45 9

< 30 8

30 - 45 20

>45 10

Genere

Maschio 12

Femmine 28

Maschio 11

Femmine 27

Istruzione

Laurea/specializzazione post laurea 20

Diploma 14

Altro 6

Laurea/specializzazione post-laurea 16

Diploma 11

Altro 10

Non specificato 1

Professione

Educatori 18

Psicologi 4

Infermieri 2

Oss 3

Assistenti sociali 3

Altro 10

Educatori 12

Psicologi 5

Infermieri 1

Oss 2

Assistenti sociali 5

Altro 13

Settore di impiego prevalente

Disabili/salute mentale 8

Minori 14

Anziani 4

Migranti 4

Emarginazione adulta 4

Altro 6

Disabili/salute mentale 8

Minori 10

Anziani 5

Migranti 3

Emarginazione adulta 5

Altro 7

Tipologia cooperativa

A 29

B 8

Miste 3

A 30

B 6

Miste 2

Regione/area

Nord 21

Centro 12

Sud 7

Nord 20

Centro 10

Sud 8

Numero occupati in cooperativa

< 50 16

50-100 13

100-500 9

>500 2

< 50 17

50-100 14

100-500 6

>500 1

Totale

40

38

 

I temi approfonditi dalle interviste hanno riguardato:

 

  1. le motivazioni dei lavoratori occupati e in uscita dalla cooperazione sociale
  2. le rappresentazioni della cooperazione sociale, delle sue finalità e del suo futuro
  • l’esperienza lavorativa
  1. i fattori di gratificazione e insoddisfazione
  2. il contesto organizzativo e i modelli di produzione dei servizi.

 

La traccia utilizzata per i due sottogruppi, i lavoratori occupati e non più occupati, è riportata nella tabella 1.

 

Tab. 2 Traccia intervista

Non più occupati

Ancora occupati

Profili assistenti sociali, educatori, operatori sociosanitari (età, titolo studio, genere, stato famiglia, ecc.)

Profili assistenti sociali, educatori, Operatori sociosanitari

Motivi della scelta di lavorare in cooperativa

Motivi della scelta di lavorare in coop /cosa è per te una cooperativa sociale

Esperienza lavorativa precedente e motivi / aspettative della scelta di lavorare in cooperativa, dove è andato a lavorare

Esperienza lavorativa precedente e motivi / aspettative della scelta di lavorare in cooperativa, dove lavora ora

Cosa faceva in cooperativa, mansioni, ruoli, pratiche, contratto, da quanto tempo lavorava in cooperativa

Cosa fa in cooperativa, mansioni, ruoli, pratiche, contratto, da quanto tempo lavora in cooperativa

Caratteristiche e storia della cooperativa, dimensione grande o piccola, di cosa si occupava, in che regime di rapporti con il pubblico

Caratteristiche e storia della cooperativa, dimensione grande o piccola, di cosa si occupa, in che regime di rapporti con il pubblico

Motivi di gratificazione e soddisfazione (clima, relazioni, remunerazione, vicinanza a casa, conciliazione tempi di vita e di lavoro, part time, ecc.)

Motivi di gratificazione e soddisfazione (clima, relazioni, remunerazione, vicinanza a casa, conciliazione tempi di vita e di lavoro, part time, ecc.)

Motivi che han portato a andare via (sia organizzativi lavorativi che personali famigliari)

Motivi che portano a rimanere

Come vede la cooperazione oggi e come la vedeva quando è entrato

Come vede la cooperazione oggi e come la vedeva quando è entrato

Come pensa sia vista oggi la cooperazione sociale da fuori

Come pensa sia vista oggi la cooperazione sociale da fuori

Cosa fa oggi

 

Come pensa il suo futuro personale e lavorativo

Come pensa il suo futuro personale e lavorativo

 

Le ipotesi che la ricerca si è proposta di verificare sono le seguenti:

  1. esiste ancora una tensione verso le mission sociali da parte dei lavoratori delle cooperative sociali?
  2. esistono ancora imprese che incorporano mission capaci di selezionare persone idealmente motivate?
  3. i lavoratori reputano ancora equa la remunerazione e il riconoscimento rispetto all’impegno profuso tenendo conto delle risorse disponibili
  4. i lavoratori reputano ancora essere presenti nelle cooperative sociali una informazione adeguata, la coerenza delle remunerazioni con quelle dei colleghi e dei superiori in considerazione al ruolo e all’impegno loro richiesti e percepiscono fattibile una crescita professionale e di ruolo?

1. I lavoratori delle cooperative sociali sono ancora mossi da motivazioni ideali?

La prima macro-questione approfondita con le interviste ha riguardato il sistema di valori e aspettative degli intervistati rispetto al lavoro e all’impegno lavorativo. L’ipotesi da verificare è se effettivamente ancora entrano e sono presenti nelle cooperative sociali ancora individui idealmente motivati più disponibili a impegnarsi per motivi intrinseci e disposti a accettare salari più bassi in cambio della possibilità di perseguire i propri valori. I risultati delle interviste evidenziano l’emergere di una situazione in cui convivono motivazioni, attese e bisogni molto differenziati.

Tra gli intervistati si rilevano ancora motivazioni ideali nei confronti del lavoro e dell’impegno lavorativo, ma con declinazioni plurali. L’impegno per i diritti della giustizia, la solidarietà, la lotta alle diseguaglianze tipici della stagione pionieristica della cooperazione sociale appare molto sfumato ed è legato maggiormente alla storia di lavoratori che da più tempo sono occupati nelle cooperative sociali. L’idealità più diffusa riguarda l’interesse a affrontare specifiche questioni, legate anche a esperienze personali. Per esempio una intervistata con una sorella disabile fisica ha scelto di impegnarsi nel sociale con l’obiettivo di migliorare la partecipazione attiva dei disabili, oppure un laureato in scienze agrarie che è tornato dopo l’esperienza universitaria nella sua terra di origine con l’intento di creare condizioni di lavoro più legali e sostenibili in agricoltura. La richiesta di messa a terra dell’idealità è prevalente tra gli under 35 e mostra il rischio di fare esplodere una tensione latente, nei casi in cui i principi astratti dichiarati dalle cooperative fatichino a trovare un riscontro tangibile sul piano operativo.  

Le aspettative sul lavoro e l’impegno lavorativo per la maggior parte degli intervistati, più che di sole considerazioni ideali, sono tuttavia intrise anche di ragioni private e strumentali di cui fanno parte valutazioni relative ai salari, alla gestione del tempo e all’interesse professionale specifico. “Il lavoro - dice per esempio un educatore - dovrebbe conciliare la passione con la possibilità di avere del tempo per sé. Non sono d’accordo quando non si pone un confine tra le due cose. Per alcuni magari può anche andare bene cercare soddisfazioni solo nel lavoro. Personalmente lo reputo una parte importante, ma che non esaurisce la vita”. Le aspettative sul lavoro inoltre sono collegate spesso alla retribuzione. Una altra educatrice, per esempio, ha deciso di lasciare il lavoro in cooperativa non perché non le piacesse, ma per motivi economici. “Lavoro in un agenza pubblicitaria, prendo commissioni sulle vendite per cui più vendo più guadagno. In cooperativa facevo 36 ore e la paga è sempre quella, eguale se lavori bene o male, mi verrebbe da dire, adesso mi posso giostrare anche meglio il tempo”. Anche se questo tipo di atteggiamenti appare abbastanza trasversale tra tutte le fasce di età, è tra i giovani che risulta preminente. Come sottolinea un educatore neolaureato che ha cambiato già due posti di lavoro nelle cooperative sociali: “c’è parecchia ideologia nella cooperazione che non fa più tanta presa, la gente deve fare i conti con problemi molto concreti, e se le cooperative non li sanno riconoscere, si crea subito uno stacco. (…) La mia generazione penso non sia interessata troppo alle grandi promesse, siamo tutti abbastanza disincantati (…) ai miei coetanei interessa potere fare un lavoro che interessa, il resto, secondo me, viene dopo.”

Il ruolo dell’età e dei processi di socializzazione della cultura e dei valori sono da alcuni anni indicati essere un fattore molto importante per indagare le motivazioni dei lavoratori delle imprese sociali e del Terzo settore (Ertas, 2016). Una chiave di lettura di queste posizioni può essere quella proposta dalla sociologia dei valori. Fino a alcuni decenni fa, la convinzione che andava per la maggiore tra gli studiosi era che i valori di una società richiedevano per essere modificati o di eventi estremi o di tempi molto lunghi, stimati tra i 50 e i 100 anni (Hofstede, 2001). Diverse ricerche evidenziano tuttavia come i tempi del cambiamento stiano diventando molto più brevi e siano stati accelerati in modo vorticoso dopo la pandemia (Inglehart, 2018; Lampert e colleghi, 2021).

I sistemi valoriali che fungevano da guida al comportamento cooperativistico trenta o quaranta anni fa, intrisi della cultura collettivista ed emancipativa dell’epoca, non possono dunque più essere dati per scontati e certamente l’immagine dell’uomo cooperatore come espressione di un’antropologia umana specifica e atemporale non è di aiuto per comprendere i cambiamenti in atto, e anzi rischia di essere distorsiva e dannosa. Molte interviste evidenziano piuttosto la necessità di fare un salto in avanti per capire quali sono le motivazioni delle generazioni attualmente attive rispetto al lavoro, che può essere ancora in parte un mezzo di trasformazione degli assetti sociali e dei principi di cittadinanza dominanti, ma tende a diventare soprattutto uno strumento di emancipazione e realizzazione individuale. Anche tra i lavoratori delle cooperative sociali sono presenti, dunque, indicatori tipici dell’affermazione di una concezione del lavoro meno intrisa di idealità e più pragmaticamente orientata a conciliare bisogni e aspettative personali e ad allineare la dimensione della vita lavorativa con le necessità individuali, non solo valoriali ma anche materiali e pratiche, come per esempio la flessibilità.

Oltre a queste motivazioni molto tangibili, il lavoro assume per un terzo gruppo di intervistati una funzione di assolvimento di bisogni di prima necessità, come un’adeguata remunerazione. Per esempio, il settore dell’assistenza agli anziani prevede uno standard formativo relativamente basso. In diverse regioni è sufficiente frequentare un corso per operatori sociosanitari di pochi mesi per accedere al mercato del lavoro e per diverse persone - soprattutto stranieri, ma anche chi vuole rientrare nel mercato del lavoro dopo una lunga maternità o per motivi economici - la prospettiva di un reddito certo per quanto basso costituisce un incentivo importante nella definizione del proprio percorso professionale. La dimensione ideale come punto di attrazione per la scelta occupazionale per questo gruppo è quasi del tutto assente, diversi non sanno definire cosa sia una cooperativa sociale nonostante lavorino all’interno di tali imprese anche da più anni, e lavorare con le persone invece che in una fabbrica fa una differenza relativa.

L’ipotesi che in cooperativa entrino persone idealmente motivate appare dunque, nell’attuale fase storica, solo in parte suffragata dalle evidenze empiriche. Non è che questo non accada più, ma certamente i motivi che spingono le persone a lavorare e a scegliere un’occupazione sono molto variegati e un modello di gestione delle risorse umane incentrato sul presupposto delle motivazioni ideali come antefatto della richiesta di essere assunti e di restare nelle cooperative sociali ha bisogno di essere aggiornato.

2. Le cooperative sociali sono ancora capaci di mobilitare lavoratori idealmente motivati attraverso un agire idealmente orientato?

Le idealità dei lavoratori si incontrano, nella teoria, con la natura e le finalità delle cooperative sociali che rinforzano e esaltano le motivazioni intrinseche della forza lavoro in forza della componente ideale della loro azione. La domanda che ci si deve fare è quanto questa dimensione ideale sia ancora percepita come tratto distintivo delle cooperative sociali e sia quindi un fattore che promuove la autoselezione e la fidelizzazione dei lavoratori socialmente orientati. È innegabile che dopo quaranta anni dalla sua nascita, la cooperazione sociale sia profondamente cambiata. Le prime cooperative sociali avevano una natura chiaramente trasformativa e l’idealità della loro azione appariva tangibile e empiricamente fondata. Mancando quasi per intero il sistema dei servizi territoriali e in una stagione storica di apertura verso i diritti sociali le cooperative rappresentavano un motore di cambiamento sociale ampiamente riconosciuto (Borzaga e Ianes, 2006). Qualche intervistato ricorda ancora la tensione ideale intorno all’apertura sul suo territorio dei primi laboratori protetti per disabili che volevano sancire la fine dell’istituzionalizzazione e l’avvio di percorsi di emancipazione e riconoscimento di diritti sociali per le persone più fragili. La dimensione ideale e trasformativa non è scomparsa, e ci sono ancora diverse cooperative sociali percepite dagli intervistati come attrici del cambiamento sociale, per esempio attraverso l’avvio di servizi diurni per malati di Alzheimer voluti dall’associazionismo per dare respiro alle famiglie, oppure nei casi di gestione di beni confiscati alla criminalità organizzata in aree socialmente depauperate. Un riconoscimento diretto o indiretto della natura ideale della cooperazione sociale è manifestato da circa il 35% degli occupati e da poco meno del 25% di chi ha abbandonato il lavoro in cooperativa.

È innegabile, tuttavia, che parlare ancora di un codice genetico della cooperazione sociale per descrivere il processo evolutivo in atto appartiene eventualmente al discorso retorico, ma non trova appigli solidi nella realtà. Il codice genetico è un sistema attraverso il quale si conserva e trasmette l’informazione genetica. In tutti gli organismi viventi, il codice genetico è costantemente sotto pressione da agenti sia interni che esterni, come reazioni dell’ossigeno, radiazioni atmosferiche, sostanze chimiche e ambientali. Questi fattori possono portare a modificazioni del DNA che, se persistono nel tempo, generano difetti di replicazione delle cellule, o all’arresto della trascrizione dell’RNA, l’acido nucleico implicato nella regolazione dei geni e nella sintesi proteica, o arrivano a fungere da modelli mutageni del genoma. In Italia, già da una decina di anni sono stati pubblicati risultati di ricerche che evidenziavano fratture importanti del DNA prevalente nel periodo pionieristico della cooperazione sociale con la comparsa diffusa, a fianco delle cooperative sociali più tradizionali, di imprese che hanno esplicitamente dismesso gli obiettivi di cambiamento sociale per operare come normali erogatori di servizi attraverso modelli organizzativi e di governance che di cooperativistico mantengono poco più che la forma (Borzaga e Fazzi, 2014).

L’analisi delle interviste raccolte un decennio dopo la realizzazione di queste indagini mostra l’affermazione di un processo evolutivo delle cooperative sociali che allarga ulteriormente le differenze all’interno della cooperazione sociale. Oltre a cooperative sociali che si comportano come normali imprese profit, risultano emergenti sulla scena anche cooperative sociali che sono un mero braccio strumentale di imprese profit, costituite con l’obiettivo esplicito di accedere a risorse altrimenti non recuperabili con altri modelli di impresa (per esempio nell’accoglienza migranti o nella formazione con i fondi comunitari). Tra gli intervistati, uno racconta, per esempio, di avere lavorato in un centro migranti gestito da una cooperativa sociale fondata per accedere ai fondi dell’accoglienza da parte di una grande ditta idraulica e un altro in una cooperativa sociale che svolge attività di pompe funebri fondata da una impresa di lapidi per risparmiare l’Iva. Nel grande perimetro della cooperazione sociale operano quindi nuovi soggetti che sono “ibridi alla rovescia” rispetto a quelli teorizzati dalla recente letteratura sull’evoluzione della cooperazione sociale (Venturi e Zandonai, 2014).

Mentre l’idea virtuosa di ibridi organizzativi ipotizza che le cooperative sociali evolvano e si dotino di strumenti di gestione e commercializzazione da impresa profit finalizzati al raggiungimento di finalità sociali percepite come rilevanti dalle comunità, le forme di ibridi che diversi intervistati hanno direttamente conosciuto nascono con il fine di produrre reddito che premia, in modo diretto o indiretto, i proprietari e le logiche profit delle imprese. Il risultato di questa ulteriore evoluzione della cooperazione sociale è l’aumento della percezione dei lavoratori di trovarsi di fronte a un fenomeno che sempre meno si distingue dal normale mercato del lavoro mosso da obiettivi commerciali. Tra gli intervistati occupati, quasi il 15% è convinto che non ci sia differenza tra lavorare in una cooperativa sociale o in un’impresa che opera con logiche di profitto e la percentuale supera il 25% tra chi ha lasciato la cooperazione.

Insieme all’ascesa del modello degli “ibridi alla rovescia”, i processi evolutivi in atto tendono a evidenziare anche una maggiore pressione verso il restringimento delle diversità soprattutto nei confronti delle cooperative sociali dipendenti dal finanziamento pubblico, che sono caratterizzate da un processo di impoverimento progressivo della qualità dei servizi. Nelle cooperative che svolgono servizi educativi come i doposcuola o il sostegno scolastico, per esempio, la maggior parte degli appalti richiede la programmazione, ma finanzia in pratica esclusivamente le ore di lavoro erogate a diretto contatto con i minori. Questo rischia di comportare conseguenze pesanti sui lavoratori come racconta un intervistata trentenne che, dopo la laurea in scienze dell’educazione, ha trovato occupazione in una cooperativa di servizi di educativa domiciliare: “devo dire sinceramente che mi sono sentita persa; la coordinatrice era una educatrice che ci teneva molto al suo lavoro, ma io ero assunta per sedici ore in settimana e siccome facevo anche un altro lavoro per mantenermi non avevo materialmente tempo, nemmeno a volerlo fare gratis, da dedicare alle riunioni di coordinamento. Alla fine, il lavoro iniziava e terminava in quelle due ore che andavo a casa di qualche minore per aiutarlo a fare i compiti.” Un'altra intervistata, laureata in filosofia e che ha svolto successivamente un master in housing sociale, aveva trovato lavoro in una cooperativa sociale impegnata in un progetto all’apparenza innovativo di condomini sociali in una zona di edifici di edilizia popolare. Inizialmente, la scelta di entrare in cooperativa era stata motivata da un certo entusiasmo e dalla percezione della possibilità di applicare in pratica le conoscenze acquisite durante il percorso di specializzazione post-laurea. Le risorse a disposizione della cooperativa per lo svolgimento del progetto erano legate a un finanziamento ad hoc di un anno di una fondazione terminato il quale era stato stipulato un contratto con un ente provinciale di edilizia agevolate. “Il mio ruolo principale nella cooperativa è stato quello di fiduciaria, con la prospettiva di lavorare nell'ambito dell'animazione di comunità e della mediazione sociale. Tuttavia, ho avvertito presto un certo disincanto rispetto alle aspettative iniziali, poiché il mio lavoro si è rivelato più incentrato sul controllo e la vigilanza piuttosto che sull'aiuto e la promozione della comunità perché, mancavano risorse per attivare processi più ambiziosi.” Mentre i lavoratori occupati da più tempo tendono ad adattarsi a questi cambiamenti, magari perché tengono alla cooperativa di cui sono soci, o per una più pragmatica difficoltà di trovare un’altra occupazione per i più anziani (chi vuoi che assuma un educatore di cinquanta anni, oggi?), per gli under trentacinque l’impatto con la cooperazione sociale, soprattutto se le motivazioni lavorative sono alte, rischia di essere in questo contesto frustrante e ragione di ricerca di altre soluzioni occupazionali.

Per i lavoratori meno motivati la difficoltà di individuare elementi ideali in molto cooperative sociali esercita meno influenza. “Sono qui per fare il mio lavoro e basta, a fine mese mi paghino” racconta per esempio una OSS che ha deciso di lavorare in cooperativa per il semplice motivo che “cercavano qualcuno con urgenza e io avevo appena finito il corso per operatori”. Questa intervistata, una quarantenne peruviana arrivata in Italia da sette anni, è l’esempio di una generazione di lavoratori delle cooperative sociali che sembra non porsi alcun interrogativo sulla forma giuridica e la natura vocazionale o meno dell’ente in cui lavora. Anche il fatto di essere socio incide solo in modo relativo sulla valutazione complessiva della cooperazione perché, soprattutto per chi è entrato più di recente nella cooperazione, l’esperienza di essere soci è spesso “un proforma”, non collegato a uno status o a delle prerogative specifiche.

Alla domanda se lavorare in cooperativa rispetto agli altri posti in cui era stata occupata in precedenza presenti elementi di tipicità, l’intervistata risponde quindi in modo piuttosto scontato nel seguente modo. “Prima ho lavorato come badante per tre anni in due famiglie, in una mi sono trovata bene nell’altra malissimo, dovevo dormire sul divano e mi facevano fare tantissime ore in nero. Qui faccio le stesse cose, prendo lo stesso stipendio e la notte posso andare a casa a dormire”.

In conclusione, gli intervistati rappresentano la cooperazione sociale come un sistema differenziato e contraddittorio, in cui convivono esperienze molto diverse. Nonostante sia ancora presente una parte di intervistati che apprezza gli obiettivi ideali e il modo di operare delle cooperative, la percezione di un movente ideale risulta piuttosto limitata e tende a essere prevalente una concezione di uno spazio di lavoro più o meno interessante, ma non particolarmente diverso da quello che si può ritrovare in altre forme di impresa pubblica o commerciale.

3. I lavoratori sono soddisfatti dei salari e del riconoscimento dell’impegno profuso?

Il tema della remunerazione e del riconoscimento rispetto all’impegno profuso costituisce un ulteriore elemento di criticità per una parte consistente degli intervistati, sia occupati che non più occupati all’interno delle cooperative sociali. La remunerazione si riferisce al salario, mentre il riconoscimento riguarda l’apprezzamento più ampio che colleghi, superiori e organizzazione rivolgono ai lavoratori per l’impegno profuso (Solari, 2004). Il 50% degli intervistati occupati reputa il proprio salario basso, o molto basso e quasi il 30% sente insufficientemente riconosciuto il proprio lavoro da parte dell’organizzazione, mentre tra chi non lavora più in cooperativa le percentuali aumentano rispettivamente al 65% e al 45%. La pratica del doppio lavoro è una strategia adottata da circa il 15% degli intervistati per integrare il proprio reddito, sia per quanto riguarda chi aveva un contratto part time sia full time. Per gli intervistati occupati o che sono stati occupati a part time (a meno che non si tratti di una scelta legata alla conciliazione del tempo di vita e del tempo di lavoro), svolgere un secondo lavoro per avere un reddito accettabile è più che comprensibile. “Ho un contratto di ventiquattro ore e non mi basta, anche se non voglio un lavoro a tempo troppo pieno - racconta per esempio una educatrice – così do anche lezioni private (…); evito naturalmente di propormi alle stesse famiglie dove vado a fare i compiti con i figli per la cooperativa, anche se mi han detto di alcune colleghe di altre cooperative che lo fanno”. L’esigenza di integrare il reddito riguarda tuttavia anche lavoratori a tempo pieno. Una psicologa assunta in una cooperativa di servizi per l’infanzia racconta di svolgere regolarmente attività in libera professione come psicologa evolutiva la sera “perché ho studiato per fare questo e per starci dentro con i soldi. Le paghe in cooperativa son quelle che sono”.

Il salario basso è un problema serio, ma visto in modo relativamente diverso se gli intervistati imputano i bassi salari alle politiche di risparmio del settore pubblico e quindi a un elemento esterno alle cooperative sociali. “Penso siamo tutti sotto pagati rispetto a quello che ci chiedono di fare” sottolinea un operaio di una cooperativa di inserimento lavorativo che si occupa di pulitura del verde. Sono in particolare gli intervistati più motivati a lavorare in cooperativa - perché vedono in essa uno strumento per perseguire finalità che sentono proprie e importanti - a distinguere il problema dei salari dal riconoscimento dell’impegno profuso dall’organizzazione. “La cooperativa fa di tutto per riconoscere il lavoro, devo dire su questo non c’è nessun dubbio (…); il punto è che gli appalti sono sempre più al ribasso e non ci sono più margini.”

Di fronte alla percezione diffusa di un disinvestimento delle politiche pubbliche nei confronti dei servizi sociali, le reazioni delle cooperative sono quasi sempre una sorta di “serrate le file” e la richiesta non infrequente rivolta ai lavoratori è di un sovraccarico di impegno rispetto a quello remunerato. In circa il 20% dei casi gli intervistati denunciano un riconoscimento delle ore remunerate inferiore alle ore lavorate. Questo maggiore impegno non costituisce, come delineato nella teoria, un problema insormontabile (“si fa perchè c'è da fare”) per i lavoratori più motivati e dipende anche dall’entità delle richieste di impegno orario rivolte ai lavoratori. Se manca la percezione di un impegno autentico della cooperativa verso obiettivi ideali e se sono basse le motivazioni ideali e il senso di appartenenza dei lavoratori alla cooperativa, i bassi salari e le richieste di maggiore impegno tendono a essere percepite invece come inique e possono diventare un valido motivo per abbandonare il posto di lavoro e per aumentare la insoddisfazione. A titolo esemplificativo, si può riportare la considerazione di un laureato in lingue assunto per lavorare come educatore con i minori non accompagnati “Il mio contratto era ridicolo dovevo lavorare 26 ore in settimana per circa 7 euro lordi, ma in realtà ne facevo 42 se non di più, senza essere retribuito. Per la cooperativa siamo solo dei numeri: seguono 300 ragazzi nelle comunità e non gli interessa se il personale ha una formazione specifica, quello che conta è solo guadagnare il più possibile”. In casi come questo la critica dei lavoratori rispetto ai salari è rivolta non solo alle politiche, ma anche alle stesse decisioni interne da parte del management e degli amministratori delle cooperative.

Per quanto riguarda il riconoscimento del lavoro svolto, la fonte principale di gratificazione è data dal feedback degli utenti. Il rapporto con gli utenti è un classico fattore di gratificazione negli studi sul social work (Joseph, 2017). La grande parte degli intervistati, sia occupati sia non più occupati, evidenzia come una parte rilevante di soddisfazione lavorativa derivi dai feedback ricevuti dai beneficiari dei servizi. Come racconta una assistente domiciliare di una cooperativa lombarda “sono ancora qui, nonostante le difficoltà, perché trovo un senso del mio lavoro quando vedo che gli anziani che magari vivono da soli e non hanno nessuno ti regalano un sorriso.

La soddisfazione derivante dall’impegno nella relazione con gli utenti dipende non solo dal rapporto interpersonale tra lavoratore e utente, ma anche dal modo con cui i servizi sono organizzati e erogati e i lavoratori messi in condizione di operare. Se ci sono ancora molti lavoratori che trovano motivo di realizzazione nella dimensione relazionale dei propri compiti, per altri il rapporto con gli utenti rischia di essere motivo di frustrazione. Questo accade in particolare per i lavoratori meno formati che devono affrontare problematiche complesse come la gestione di malati di Alzheimer o di disabili adulti molto aggressivi senza una preparazione adeguata, oppure per chi percepisce di non potere svolgere bene il suo lavoro a causa delle tempistiche contingentate, o dell’organizzazione inappropriata del lavoro di cui il management delle cooperative è responsabile. “Sono stato nella (cooperativa) tre mesi. Loro gestivano diversi centri per disabili gravi sapevo che cercavano persone e mi son presentato. Ho lavorato in un centro per gravissimi quando entravo in camera di uno dovevamo tenere dei cuscini sul corpo perché ci tirava addosso di tutto. (…) Io ho un’esperienza con gli anziani in una fondazione delle suore [ordine] non ho ricevuto nessuna formazione, zero, per fortuna un collega mi ha sempre aiutato. (…) So che non è successo solo con me (e) che la gente continua ad andare via (…). Mi son sentito mandato in trincea senza nemmeno un elmetto”. In un altro caso una laureata in sociologia alla Sapienza aveva trovato occupazione in un centro di accoglienza per migranti e sintetizza così la sua esperienza: “le cooperative non sono tutte così, adesso lavoro in una cooperativa completamente diversa, ma la prima è stata un disastro. Non c’era organizzazione, i migranti venivano trattati malissimo, solo quando arrivava qualcuno della prefettura o il sindaco si doveva correre per fare sembrare tutto a posto, ma era un caos totale. (…) Mi son detta: se questa è l’accoglienza stiamo sbagliando tutto. (…) Mi sono licenziata dopo un anno, ci son rimasta - lo dico apertamente - solo perché a [città sede del servizio] c’era il mio ragazzo. Quando ci siamo lasciati due giorni dopo mi son messa a cercare un altro lavoro.”

In generale, è da evidenziare come i maggiori problemi si riscontrino tra i lavoratori che operano all’interno di servizi fortemente proceduralizzati, con scarso tempo da dedicare alle persone, e che generano più stress lavorativo; tale conformazione dei servizi è spesso causata dalla pressione verso la “industrializzazione” del sociale che si manifesta in modo maggiormente evidente in alcuni settori come l’assistenza agli anziani o l’accoglienza dei migranti.

Per quanto riguarda il riconoscimento da parte delle cooperative dell’impegno profuso dal lavoratore, dichiara di essere o di essere stato soddisfatto circa la metà degli occupati e il 35% dei non più occupati. La possibilità di essere relativamente autonomi nel proprio lavoro è considerata da diversi intervistati come un importante riconoscimento implicito di professionalità e questo conferma i risultati di ricerche sia recenti sia più datate, che sottolineano come nelle cooperative sociali e nel Terzo settore più in generale il lavoro di front line sia meno vincolato da aspetti gerarchici e procedurali rigidi più tipici delle pubbliche amministrazioni (Fazzi, 2013; Burgalassi e Tilli, 2023; Lucciarini e colleghi, 2024). Non sempre l’autonomia è però motivo di soddisfazione, in particolare se i lavoratori di sentono lasciati da soli ad affrontare problemi di cui l’organizzazione non si prende carico. Un’operatrice sociosanitaria impiegata in una Rsa, per esempio, racconta della fatica delle sue giornate lavorative, senza una supervisione o una possibilità di confronto con i colleghi: “siamo in troppo pochi per stare dietro a tutto, così si corre tutto il giorno e non c’è tempo per fermarsi (…) una sera, quando ho finito il turno mi sono chiusa in bagno e mi sono messa a piangere, mi dicevo sto impazzendo, sto impazzendo. L’unico ad ascoltarmi è stato mio marito quando sono tornata a casa e per fortuna avevo lui”.

Inoltre, un fattore di mancato riconoscimento è attribuito, secondo diversi intervistati, alla sensazione che per i superiori e anche qualche collega sia “sempre tutto dovuto.” Un’educatrice, occupata ora nella scuola pubblica, si riferisce con queste esatte parole in particolare al periodo del Covid, quando la sua cooperativa aveva chiesto durante il lockdown al personale di fornire un servizio di accompagnamento e monitoraggio attraverso la Dad. “Già c’erano stati problemi con gli stipendi, come se la gente potesse aspettare il mese successivo per pagare l’affitto. La cosa per me più grave però è stata che mi sono veramente sbattuta con l’online per seguire i ragazzi e ho ricevuto in cambio solo critiche dalla coordinatrice che pretendeva si sapesse lavorare in questo modo senza nessun supporto da parte della cooperativa. Mi chiedeva di fare i salti mortali, ma per che cosa? Per mille euro al mese?”

Un ulteriore elemento da considerare per valutare la percezione dell’impegno profuso è il valore attribuito al lavoro, non tanto dalla cooperativa, dai dirigenti e dai colleghi, ma dalla società in generale. Da questo profilo emerge in modo piuttosto nitido il rischio di un aggravamento della crisi identitaria dei lavoratori delle cooperative sociali causato da dinamiche sociali e culturali esterne al mondo della cooperazione, che contribuiscono a definire i criteri di merito sociale da attribuire alle diverse professioni. Mentre alcuni intervistati che hanno vissuto la cooperazione negli anni ‘80 e ’90 del Novecento ricordano con orgoglio di essere stati protagonisti di una stagione di cambiamento che trovava un forte riconoscimento istituzionale e sociale, diversi intervistati più giovani vivono in prima persona lo sconcerto di sentirsi chiedere quale lavoro stanno svolgendo mentre accompagnano un minore o un disabile per strada o, addirittura, se si può definire un lavoro accompagnare sotto il profilo educativo il percorso di inserimento sociale di persone fragili. Il problema che questi lavoratori sperimentano è che in un’epoca dove la materialità è diventata ovunque imperante e il valore delle professioni si misura sempre più nella capacità di produzione di beni tangibili, pensare che lavorare sull’immaterialità delle relazioni umane sia un merito sociale non è più dato per scontato e può anzi essere un elemento che, se non elaborato e affrontato, diventa motivo di forte frustrazione.

4. Esiste ancora una percezione di equità procedurale tra i lavoratori delle cooperative sociali?

L’ultimo aspetto analizzato dalle interviste è relativo all’area della equità procedurale, ovvero alla percezione sulla coerenza delle remunerazioni interne alla cooperativa in relazione a ruoli e impegni richiesti e alla possibilità di crescita professionale e di ruolo e al modo con cui viene gestita. Le remunerazioni sono considerate eque rispetto a quelle dei colleghi e anche in larga parte con quelle dei superiori. Le differenze di salario con i colleghi sono percepite essere un problema solo da parte di un esiguo numero di assistenti sociali che sono assunti dalle cooperative, ma operano all’interno dei comuni a fianco di dipendenti pubblici che, a parità di funzioni e ruolo, guadagnano di più. “Facciamo le stesse identiche cose, anzi mi prendo io i casi più rognosi - racconta un assistente sociale che lavora nel servizio tutela di un comune laziale come dipendente di una cooperativa - non è giusto che solo perché sono assunto da una cooperativa sia pagato di meno.” L’attesa per i lavoratori che si trovano in questa posizione è inevitabilmente di cambiare alla prima occasione datore di lavoro per passare a quello che offre remunerazioni più alte.

In poco più del 15% dei casi gli intervistati contestano invece un differenziale salariale palesemente non equo con i superiori e i colleghi. Questo accade principalmente nelle cooperative emanazione di enti profit o nelle cooperative di grandi dimensioni, che hanno strutture di management molto verticali e dove il personale operativo territoriale alle volte non conosce nemmeno il nome del direttore. Nei restanti casi prevale l’idea che “più o meno stiamo tutti sulla stessa barca”, e tanti convivono con una condizione di bassa remunerazione.

La piramide gerarchica all’interno delle cooperative sociale si manifesta in modo problematico per altri aspetti. In molte cooperative le leadership sono piuttosto consolidate e la possibilità di ascesa di carriera risultano limitate. Per molti intervistati occupati in ruoli esecutivi come gli OSS o gli operai delle cooperative di inserimento lavorativo, la prospettiva di carriera in sé non costituisce un problema e la questione da dirimere è eventualmente la possibilità di aumento del salario. Per alcuni laureati l’appiattimento forzato in posizioni subordinate può essere invece più frustrante. “Sono laureata magistrale in psicologia, ho fatto la specializzazione e un master in migrazioni - racconta una laureata in scienze dell’educazione trentacinquenne - faccio l’educatrice da sei anni, perché era l’unica possibilità che ho trovato. Se mi chiedi se mi aspetto qualcosa di più ti rispondo di sì, anche se il lavoro mi piace.” Soprattutto per chi ha trovato un posto in cooperativa come seconda opzione (quello degli psicologi che svolgono funzioni di educatore è un caso emblematico) il desiderio di non rimanere ingabbiati in un ruolo alla lunga solo parzialmente gratificante rispetto alle proprie aspettative di realizzazione può diventare un importante disincentivo a continuare a lavorare nella stessa organizzazione. Riescono a sopperire almeno in parte alla situazione di tappo alla carriera patita da diversi intervistati le cooperative più dinamiche e attive sul fronte della progettazione. Ci sono per esempio alcuni casi di cooperative, anche di piccole dimensioni, con una notevole capacità di partecipare a bandi di fondazioni o di recuperare finanziamenti per attività sperimentali e questo permette, non solo di innovare e acquisire nuove risorse economiche, ma anche di valorizzare il personale più motivato. Una intervistata assunta inizialmente come educatrice, per esempio, negli ultimi tre anni è stata la project leader di due importanti progetti, uno sull’agricoltura sociale e uno sulla peer-to-peer evaluation con i minori. “Per me che cerco sempre nuove motivazioni è stata una opportunità incredibile, e sono molto grata che mi hanno dato fiducia.”

Un altro elemento che le interviste mettono in risalto è l’importanza degli incentivi in termini di apprezzamento che colleghi e superiori forniscono ai lavoratori per proporre idee e la disponibilità a accoglierle e ascoltarle. I lavoratori delle cooperative sono spesso portatori dei cosiddetti “punti di vista periferici”, ovvero della conoscenza che le organizzazioni sviluppano nel contatto con la pratica (Lave e Wenger, 1991). Nello svolgimento dei loro compiti e nei processi di socializzazione operativi, molti lavoratori individuano soluzioni a problemi, anche banali, oppure sviluppano nuove idee per esempio attraverso il contatto con gli utenti o la comunità. Più che la partecipazione alle decisioni assembleari, rispetto alle quali l’interesse è abbastanza ai minimi termini, in particolare tra i giovani, diversi intervistati evidenziano l’importanza di essere ascoltati e presi sul serio sul piano delle micro decisioni che sono, come evidenzia un educatore che lavora con i disabili, la cartina al tornasole per valutare la credibilità di un’organizzazione e la sua capacità di valorizzare i lavoratori. Crescere significa anche potersi confrontare, discutere le proprie idee, valutare con altri se sono adeguate o meno. Anche rispetto a questo tema il quadro si presenta molto sfaccettato. In molte cooperative sociali manca il tempo per promuovere questi tipi di confronto e ascolto, la frenesia lavorativa, i tempi da rispettare, le urgenze da risolvere diventano costantemente l’elemento prioritario verso cui indirizzare l’attenzione. In questo modo, le idee e le proposte dei lavoratori di linea risultano magari auspicabili, ma manca il tempo e l’interesse per ascoltarle. Come sintetizza una laureata quarantenne in psicologia che lavora ancora in una cooperativa di un gruppo cooperativo di una grande città veneta: “della mia generazione eravamo sette o otto tutti entrati in cooperativa con grandissime speranze. Avevamo tutti voglia di fare di proporre cose. Secondo te siamo mai stati ascoltati? Sono rimasta solo io, e chiediti il perché”.

5. Conclusioni: cosa fa ancora la differenza?

“Lavorare stanca” è una frase tratta da un’intervista a una psicologa che, dopo avere lavorato come socia fondatrice dodici anni in cooperativa a tempo piano e avere terminato due percorsi di specializzazione, ha deciso di trasferirsi con il suo compagno nelle Marche e aprire un B&B. La stanchezza del lavoro è un tema che andrebbe posto a centro della attuale riflessione sui lavoratori delle cooperative sociali e sul futuro di questa tipologia di imprese. Per quanto sia stato sempre descritto come motivante, appassionante e coinvolgente, è sempre più chiaro che anche il lavoro nelle cooperative sociali può stancare.

Ci si è domandati all’inizio dell’articolo se c’è ancora qualcosa che fa o può fare la differenza nel lavorare nella cooperazione sociale e che può ancora oggi rappresentare una leva per lo sviluppo del movimento cooperativo. Rispondere in modo univoco a questo interrogativo non è facile, sia perché l’indagine ha carattere esplorativo, sia per l’eterogeneità e la complessità assunta dal fenomeno della cooperazione sociale oggi. Considerati questi aspetti, che meritano sicuramente ulteriori approfondimenti, si possono trarre tuttavia in base alle informazioni raccolte alcune conclusioni.

1. La dimensione ideale dei lavoratori e delle cooperative può svolgere ancora un ruolo, anche se relativo e più limitato rispetto al passato, ma richiede una maggiore attenzione e pragmatismo nei confronti dell’allineamento tra valori e pratiche reali

Una prima indicazione riguarda la natura ideale di lavoratori e cooperative sociali. Diverse ricerche a livello internazionale indicano già da alcuni anni come le motivazioni dei lavoratori delle imprese sociali e del Terzo settore vengano influenzate da fattori come la cultura e il contesto. Nonostante questa considerazione, l’opinione più diffusa è ancora che le motivazioni ideali costituiscono comunque una base importante della scelta di lavorare in questo tipo di imprese (Prysmakova, 2021). I risultati della ricerca presentati in precedenza confermano che diverse dimensioni di idealità sono ancora presenti, sia tra i lavoratori, sia nelle cooperative sociali italiane. L’erosione della dimensione ideale appare tuttavia consistente e potenzialmente molto veloce. La fase del cosiddetto “innamoramento” che Francesco Alberoni (1979) indicava essere tipica dei periodi di statu nascenti di un movimento sociale si è profondamente trasformata. Oggi, molte cooperative gestiscono servizi più che essere attori di cambiamento sociale e i sentimenti di eccitazione interiore che muovevano l’adesione al cooperativismo da parte delle generazioni passate hanno lasciato spazio anche a molte altre considerazioni, spesso più pragmatiche e razionali, come la ricerca di un posto di lavoro compatibile con le esigenze di salario e gestione del tempo libero, la legittima aspirazione a trovare un lavoro remunerativo e gratificante in termini di crescita professionale e personale. Contemporaneamente viviamo oggi in un’epoca, se non di “passioni tristi” - per usare il fortunato titolo del libro di Benasayag e Schmit (2004) - senza dubbio di più marcato disincanto e di maggiori difficoltà a fare scattare il sentimento dell’innamoramento nei confronti di una causa ideale. Il combinato disposto di questi due fenomeni storici - da un lato la tendenza all’istituzionalizzazione e alla gestione da parte di molte cooperative sociali e, dall’altro, la diffusa perdita di motivazioni ideali verso il cambiamento da parte delle generazioni dei lavoratori contemporanei - rischia di ingenerare un corto circuito fatale nel mondo della cooperazione sociale. Per ridurre tale pericolo è fondamentale lavorare su un maggiore allineamento tra obiettivi ideali e azioni concrete, evitando derive meramente gestionali o produttivistiche da un lato e ponendo cura di rendere gli obiettivi dell’agire di impresa coerenti con gli obiettivi ideali dei lavoratori, oggi meno astratti e più pragmatici rispetto al passato.

2. Le sfide emergenti della gestione e valorizzazione delle risorse umane implicano nuove strategie imprenditoriali e un aggiornamento dei sistemi di gestione delle risorse umane

Un secondo tema che prende forma dalla ricerca riguarda i sistemi di incentivi da utilizzare per attrarre e fare restare i lavoratori nelle cooperative. La questione salariale esiste e assume forme dirimenti per la grande parte dei lavoratori, sia quelli ancora occupati e motivati a restare, sia quelli non più occupati e delusi dall’esperienza nella cooperazione sociale. Nell’attuale fase il bilanciamento tra incentivi intrinseci come l’autorealizzazione ed estrinseci come la remunerazione è, nella grande parte delle cooperative sociali, in crisi, sia perchè agli incentivi monetari e immateriali vengono dati significati diversi dal passato, sia per l’oggettiva difficoltà che si riscontra nel fornire remunerazioni soddisfacenti.

Fare finta che questo problema non esista è stata la strategia consolidata negli ultimi dieci anni e ora si raccolgono inevitabilmente i frutti avvelenati della precedente semina. Si poteva fare diversamente? Forse sì, e forse no. Certamente sul piano politico gli organismi di rappresentanza della cooperazione sociale hanno privilegiato spesso la negoziazione di misure di sostegno ausiliarie, ma non hanno affrontato direttamente il problema del costo dei servizi. Anche la scelta di aumentare i salari contenuta nel nuovo contratto nazionale dei lavoratori delle cooperative sociali si allontana poco da questa strategia, visto che è mancata completamente la triangolazione preventiva tra sindacati, cooperazione e enti pubblici e che, a due mesi dalla firma dell’accordo, la grandissima parte delle cooperative non ha visto riconosciuto alcun aumento e in alcune situazioni particolari si sta assistendo addirittura al ritorno alla gestione in house dei servizi da parte del settore pubblico per la assenza di fondi per finanziare il costo dei servizi affidati alle cooperative. Considerando che nelle cooperative sociali lavorano più di cinquecentomila addetti che erogano servizi di prima necessità per milioni di persone e che poche migliaia di tassisti o di balneari impongono agende e corsie preferenziali ai diversi governi a loro esclusivo beneficio, qualche interrogativo sulla liceità di rendere la strategia politica più conflittuale, per esempio attraverso un grande sciopero nazionale dei servizi, forse andrebbe posto.

A livello di singole cooperative, la difficoltà di affrontare il problema dei salari ha motivazioni diverse e più differenziate che rimandano, forse con un eccesso di sintesi, alla capacità imprenditoriale da un lato e di gestione delle risorse umane, dall’altro. La capacità imprenditoriale riguarda la capacità di produrre reddito, marginalità e utili, ed è largamente da attribuire alle competenze e alle strutture delle singole cooperative. Le imprese che hanno investito in strategia, formazione e/o strutturazione riescono a affrontare il problema dei salari in modo più propositivo attraverso politiche di ristorno o di adeguamento delle remunerazioni anche senza la pressione degli obblighi di adeguamento del contratto nazionale dei lavoratori della cooperazione sociale. Ovviamente, questo dipende dalle politiche aziendali e dai modelli di governance prevalenti (se una cooperativa è un ente strumentale di un'impresa profit, la logica del profitto tende a ricadere inevitabilmente sui salari dei lavoratori), ma in linea di massima si può dire che dove c’è capacità di fare crescere le imprese, c’è anche una politica salariale meno penalizzante.

I modelli di gestione delle risorse umane riguardano invece la capacità di cogliere le aspettative e fornire gli incentivi adatti ai lavoratori. In particolare, in questa fase in cui non si può più contare su un esercito di riserva con cui sostituire il turnover e le uscite come nei decenni di ascesa delle politiche e della cultura del welfare, riuscire a attrarre, valorizzare la forza lavoro è un imperativo vitale per la cooperazione sociale. L’importanza dei modelli di management delle risorse umane è da anni al centro di una riflessione sulle imprese sociali in molti paesi (Walk e colleghi, 2014). In molte cooperative sociali ancora si rileva una fatica a sviluppare sistemi di gestione delle risorse umane non ideologici e realmente professionali, che soddisfino i mix di aspettative e bisogni dei lavoratori. L’utilizzo dei sistemi di incentivi materiali e immateriali per i lavoratori è diventato molto complesso e può variare da settore a settore e tra le diverse figure professionali e questo implica la necessità di costruire modelli più raffinati e di dotarsi di strutture e figure professionali adeguate al compito.

3. I sistemi e i percorsi di crescita personale e professionale dei lavoratori vanno posti al centro delle politiche di sviluppo delle cooperative

A fare la differenza oggi nell’attrarre e tenere i lavoratori nelle cooperative sociali è infine la capacità di offrire ad essi percorsi, occasioni e incentivi di crescita, sia personale sia professionale. Una variabile molto importante per spiegare la minore o maggiore soddisfazione rispetto alla possibilità di crescita professionale e di ruolo è data dalle strategie e dai modelli organizzativi: se le strategie sono esclusivamente conservative e i modelli rigidi, la flessibilità e la possibilità di mobilità interna verticale sono più basse; se i modelli sono più flessibili - o per la differenziazione dei servizi o per la propensione a innovare -, le possibilità di crescita professionale e personale sono maggiori. Mentre per molte cooperative la sfida principale è di chiudere i bilanci in attivo o non in perdita, bisognerebbe porre maggiore attenzione a coniugare gli obiettivi economici, che devono essere naturalmente positivi, con la costruzione di azioni, ruoli e processi di lavoro che permettono ai lavoratori o alla maggioranza almeno di essi di sentirsi valorizzati in una prospettiva di sviluppo professionale e personale.

DOI:10.7425/IS.2024.02.09 

 

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