La teoria economica sembra costruire la propria rappresentazione del mercato del lavoro sulla base del concetto di produttività. Nello scambio tra forza lavoro e salario le due parti del mercato si accordano su un salario che è uguale alla produttività del lavoro, cosicché il salario è il costo che l’imprenditore paga per ottenere la disponibilità di forza lavoro; si deve, però, tener conto che esso è, al tempo stesso, il contraccambio che il lavoratore riceve per la rinuncia, faticosa e penosa, al proprio tempo libero. Il discorso richiederebbe, già da subito, lunghi e approfonditi chiarimenti, ma non è questa la sede per farli; se non per osservare che il mancato scambio tra forza lavoro e salario può essere certo la conseguenza di una produttività del lavoro troppo bassa rispetto alla pretesa salariale del lavoratore, ma anche dovuta ad una offerta di salario, da parte del datore di lavoro, considerata inadeguata dal lavoratore perché non sufficiente a coprire il costo della rinuncia al tempo libero o ad altre opportunità di vita.
In questo scritto si proverà ad avviare una riflessione tratta dal modo in cui gli economisti con le loro categorie possono aiutare a comprendere le recenti vicende del mercato (dei mercati) del lavoro delle professioni sociali, ben sapendo che ogni proposizione contenuta in queste pagine andrebbe vagliata con indagini empiriche approfondite. Come ci ha insegnato Carlo Borzaga, sono necessarie meno chiacchiere e più analisi teoriche ed empiriche; più approfondite analisi di dati e di elementi fattuali e meno narrazioni basate su sensazioni ci consentirebbero di capir meglio dove stiamo andando. Ed è un vero peccato che non si sia mai riusciti, pur avendoci provato molte volte, ad aggiornare la(le) banca dati che costruimmo a cavallo del nuovo millennio con progetti di ricerca nazionali (la seconda con il bollino Istat, Banca dati ICSI - Indagine sulle Cooperative Sociali Italiane, 2007), coordinati per l’appunto dal prof. Borzaga; quelle indagini consentirono di dire tante cose importanti ed interessanti sul lavoro sociale e sul lavoro nelle cooperative sociali (si veda, ad esempio, il libro a cura di Borzaga del 2000 e quello a cura di Borzaga e Musella del 2003; si vedano anche gli altri lavori citati nella bibliografia: essi sono solo una piccola parte di quelli pubblicati nel primo decennio del millennio a partire dalle banche dati menzionate) mettendo a fuoco il ruolo dei salari e delle compensazioni non monetarie e di altri elementi; da essi emergeva un quadro di un lavoro sociale con luci, molto maggiori rispetto ad oggi, e ombre, ma di dimensioni assai limitate; quelle riflessioni, però, sono inevitabilmente riferite a quel momento storico, a quei lavoratori per i quali sono passati del tutto inutilmente, o quasi, più di venti anni; ad un tempo, insomma, che è ormai superato perché il Paese non ha saputo dare valore alla risorsa “lavoro sociale” così come si presentava all’inizio del nuovo millennio. La situazione attuale, infatti, è completamente diversa e il lavoro sociale è dentro dinamiche di difficile soluzione in un Italia che ne avrebbe un grande bisogno.
Nel prosieguo di questo lavoro proveremo a discutere alcune questioni dal punto di vista dell’economia politica. Nella sezione 2 si riportano i principali risultati delle indagine realizzate nei decenni scorsi sul mercato del lavoro sociale e si prova a fare il punto rispetto alla situazione attuale. Si inquadra, inoltre, il problema di cui si discute in questo breve scritto: il mismatching tra domanda e offerta di lavoro. La sezione 3 contiene considerazioni teoriche sulla produttività del lavoro e del lavoro sociale. Si introducono anche le spiegazioni dei differenziali salariali proposte da Adam Smith, ne La ricchezza delle nazioni, che vengono presentate anche come spiegazioni del perché i lavoratori potrebbero non accettare offerte salariali considerate inadeguate. Nella sezione 4 si presentano brevi approfondimenti dei cinque fattori richiamati nella trattazione di Smith. Infine, seguono nella sezione 5 alcune riflessioni conclusive.
Prima di avviare ragionamenti teorici sull’andamento del mercato del lavoro in generale e di quello dei lavori sociali in particolare, conviene spendere qualche parola ancora sull’evoluzione che ha subito nel tempo il mercato del lavoro sociale. Si potrebbero così sintetizzare le situazioni di fine secolo scorso e quella attuale. Intorno all’anno zero del nuovo millennio emergeva un quadro di lavoratori nel sociale pagati abbastanza poco, ma comunque sufficientemente soddisfatti sempre che il salario superasse una certa soglia e le prospettive di stabilità dell’occupazione fossero sufficiente buone; una soddisfazione che sembrava più alta – anche a fronte di guadagni un po' più bassi di quelli del settore pubblico – per chi lavorava nelle organizzazioni del terzo settore; questa maggiore soddisfazione poteva essere spiegata da rapporti abbastanza buoni con utenti e superiori e da differenze salariali, interne al settore, contenute e, in genere, percepite come “giuste” perché connesse a diversi livelli di competenza e abilità.
Sempre in estrema sintesi, dalla seconda indagine sulle cooperative sociali come da quella precedente sui lavoratori del sociale (cfr. il testo a cura di Borzaga citato in precedenza) emerse un quadro abbastanza chiaro: i lavoratori del sociale erano disposti a lavorare come o di più dei loro colleghi occupati in organizzazioni pubbliche o forprofit anche se venivano pagati meno. Essi ritenevano importanti la retribuzione e la stabilità, ma anche e soprattutto aspetti relazionali e sociali. Inoltre, i lavoratori, in particolare quelli del Sud e Isole, e le donne più dei maschi, valutavano positivamente l’esperienza fatta nella cooperativa, giudicandola complessivamente utile nel migliorare i loro atteggiamenti verso il lavoro. Questo soprattutto perché gran parte degli incentivi non economici offerti dall’organizzazione venivano riconosciuti e sentiti dai lavoratori: per molti di loro il rapporto con la cooperativa andava al di là del puro contratto di lavoro. Un circolo virtuoso così innescato rendeva i lavoratori ancora più motivati e con atteggiamenti di maggiore apertura ed attenzione verso il sociale. Forse, ci spingiamo a dire oggi, la sensazione dei lavoratori (in età in media abbastanza giovane) era di un lavoro utile, tendenzialmente apprezzato dalle istituzioni del pubblico (erano i primi anni di applicazione della l. 328/2000) e, quindi anche con prospettive di crescita ed evoluzione positiva.
Oggi, in presenza di un età media dei lavoratori del sociale indubbiamente aumentata, la percezione è di un settore che è stato parzialmente abbandonato dalle politiche pubbliche (si pensi alla permanenza di ritardi di pagamento delle PA scandalosi) e dove bassi salari, precarietà e incertezza sono cresciuti insieme all’età (e alle esigenze di vita) dei lavoratori. Il tutto in un contesto generale (come abbiamo provato a mettere in evidenza con Carlo Borzaga su queste pagine) nel quale anche in altri settori aumentano le dimissioni volontarie, il quiet quitting e i salari in generale restano, nel nostro Paese più che altrove, particolarmente bassi. Fenomeni questi nei quali gli elementi relativi ai cambiamenti economici e tecnologici si intrecciano con evoluzione dei costumi, dei valori e della cultura del lavoro.
Il problema che oggi si riscontra è, nello specifico, un forte squilibrio nel mercato del lavoro sociale. Il mismatching tra domanda e offerta di lavoro non è certamente un fenomeno nuovo e non riguarda solamente il settore in esame, ma per quanto riguarda le professioni sociali si è certamente accentuato nel tempo e con una accelerazione improvvisa nell’attuale fase post-pandemica[1]. Ci sono, come è noto, due modi per misurare lo scompenso tra la domanda e l’offerta di lavoro. Da una parte, c’è il tasso di disoccupazione, che indica quante persone vorrebbero lavorare e sono attivamente alla ricerca di un impiego, ma non riescono a trovarlo. Dall’altra parte, i posti di lavoro esistenti, ma non occupati (le cd. vacancies) – lo scompenso visto dunque dal lato di una domanda di lavoro che resta insoddisfatta. Nel caso in esame, il disallineamento tra la domanda e l’offerta sembra generare una situazione nella quale il cd. lato corto del mercato è quello della offerta. Il tasso dei posti vacanti (job vacancy rate) è il principale indicatore economico della “domanda di lavoro non soddisfatta”. Una quota posti vacanti molto alta in un settore, potrebbe non essere dipendente da una carenza di offerta di lavoro temporanea in quel settore, ma essere generata da un problema strutturale e richiedere molto tempo per aggiustamenti per i quali sono necessari interventi, appunto, strutturali. Oppure potrebbe esserci un problema di mismatch tra le competenze dei lavoratori e quelle richieste dai datori di lavoro (skill gap); anche in questo caso gli aggiustamenti richiedono tempo. Oppure potrebbe indicare una situazione in cui le competenze esistono, sono state formate, ma per qualche ragione non incontrano il mercato (skill shortage), per via ad esempio, come si è detto, dei salari troppo bassi, delle cattive condizioni di lavoro, dell’abuso di contratti precari, di breve durata, di forme di lavoro irregolari o sommerse, carenti prospettive di progressioni di carriera. O ancora all’origine del mismatching potrebbe esserci una discrepanza con le aspettativa del lavoratore e ciò che il posto di lavoro offre anche al di là del salario e delle prospettive economiche.
Si tratta di un quadro che andrebbe studiato con attenzione sia per quanto riguarda il settore dei lavoro sociali, sia il più generale mercato del lavoro, perché le risposte alle domande che abbiamo proposto poco sopra (e a quelle che formuleremo nelle conclusioni) richiedono sia approfondimenti teorici che indagini empiriche volte a sondare in profondita le preferenze dei lavoratori e le caratteristiche dei posti di lavoro offerti.
Veniamo ora a qualche considerazione più teorica. Le osservazioni da manuale di primo anno di economia politica proposte nel primo periodo dell’Introduzione sono, ovviamente, solo l’inizio di un lungo discorso su come la teoria economica, almeno da Adam Smith in poi, ha visto le questioni del lavoro e del mercato del lavoro. Ad esempio, è più che mai evidente che quando l’economia era organizzata sulla produzione dei beni materiali, quindi una economia agricola o manifatturiera, era assai più agevole misurare la produttività e esprimere valutazioni sulla corrispondenza tra salario offerto dalle imprese e contributo del lavoratore al prodotto complessivo: se grazie, per dirla in modo banale, grazie al lavoro di un individuo si riusciva ad ottenere 100 unità in più di prodotto che generavano un utile pari a 0,5 euro, per l’impresa andava bene pagare un salario che fosse inferiore o, al massimo, uguale a 50 euro. Ovviamente anche al tempo di un sistema economico che produceva solo (o, meglio, era tutto incentrato su) beni agricoli e manufatti non era poi sempre facile calcolare la produttività del lavoratore in contesti nei quali la divisione del lavoro (pure teorizzata da Smith come la principale causa ne La ricchezza delle nazioni) costringeva a dover tener conto del lavoro di squadra, nonché della diversità dei ruoli, o delle mansioni, di chi concorreva a produrre output complessi (si pensi ad un automobile) nei quali il concorso di ciascuno alla realizzazione dello stesso output andava valutato con un qualche parametro che rendesse conto del diverso contributo di ciascuno; ed era questa diversa importanza del contributo di ciascuno dei partecipanti al team a spiegare i diversi livelli di salario da corrispondere ai diversi lavoratori partecipanti al processo produttivo.
Si badi bene che la questioni dei differenziali salariali, anche in ragione di quanto detto poco sopra, è strettamente connessa alla spiegazione del perché non sempre il salario riesce a mettere in equilibrio domanda e offerta di lavoro: i differenziali salariali determinano, almeno nelle economie di mercato, gerarchie sociali che inducono aspettative di remunerazione ben precise per chi cede la propria forza lavoro e, quindi, è ovvio che anche i livelli del salario influenzano in modo esplicito la scelta di accettare o meno una proposta di lavoro.
Il tentativo degli economisti di dare un fondamento economico ai differenziali salariali tra i diversi lavoratori e tra le diverse attività che essi svolgono, quindi, ben prima che compaiano i beni immateriali (i servizi e i servizi di cura), si sposta verso elementi che integrano o spiegano il concetto di produttività del lavoro. Ancora una volta chiarendo che non è possibile proporre in questa sede una disanima articolata delle diverse questioni e della trattazione che esse hanno avuto nella teoria economica, ci limitiamo a riportare quanto Carlo Dell’Aringa, autorevole economista del lavoro italiano scomparso qualche anno fa, metteva in evidenza nella voce della Treccani (Dell’Aringa C., https://www.treccani.it/enciclopedia/economia-e-politica-del-lavoro_(Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/): è lo stesso Adam Smith, padre dell’economia politica, nella Ricchezza delle nazioni, ci dice Dell’Aringa, ad individuare cinque possibili spiegazioni dei differenziali salariali, in parte collegabili alla produttività del lavoro, in parte alla penosità dello stesso, in parte ad altri fattori, più avanti ripresi in questo contributo: la piacevolezza o meno del lavoro svolto, la relativa facilità e il costo richiesto per impararlo, la stabilità o meno del posto, la fiducia che si deve avere in coloro che sono chiamati a svolgerlo, la probabilità di avere più o meno successo in quel particolare tipo di occupazione.
Prima di commentare queste diverse voci, però, val la pena osservare che a Smith si deve anche l’idea, che non è peregrino riportare in questa sede, che i beni immateriali (e, quindi, anche i servizi di cura) sono il prodotto di un lavoro che deve essere considerato “improduttivo”. Il lavoro del servitore, come quello praticato da alcune classi rispettabili della società, non è produttivo; ad esempio, dice Smith, è improduttivo il lavoro del sovrano e dei funzionari statali e “nella stessa categoria dobbiamo classificare sia alcune delle professioni più serie e importanti che professioni più frivole: gli ecclesiastici , gli avvocati, i medici, gli uomini di lettere di ogni genere, gli attori, i comici i musicisti, i cantanti lirici, i ballerini, ecc.” Anche se non vengono esplicitamente menzionati gli insegnanti, gli educatori, gli assistenti sociali e gli altri operatori sociali, non vi è alcun dubbio che Smith avrebbe collocato lavoratrici e lavoratori che svolgono queste attività nello stesso gruppo dei lavoratori “improduttivi” precedentemente menzionati.
Vi è, dunque, una convinzione, a nostro parere radicata ancora oggi nel pensiero di tanti economisti, più o meno resa esplicita nei loro scritti, che il lavoro sociale è poco (o per nulla) produttivo in senso economico. La persistenza di questa convinzione non è stata, se non minimamente, intaccata nel momento in cui si è diffusa nel pensiero dominante l’idea che Smith aveva torto perché una serie di attività produttive realizzate nel settore dei servizi sono da ritenersi “produttive” in quanto capaci di migliorare, di aumentare, in modo diretto o indiretto, la produttività del lavoro del settore agricolo e del settore manifatturiero. Per dirla in altro modo e con parole chiare e senza troppe mediazioni, è ancora assai diffusa la convinzione che il lavoro sociale sia poco produttivo dal punto di vista economico e che esso sia tanto meno produttivo quanto più è rivolto a persone che hanno probabilità bassa (o nulla) di rientrare, in un futuro più o meno prossimo, nei circuiti della produzione di merci; non vi è, dunque, ragione economica per remunerarlo più di tanto; possono solo, semmai, esistere motivazioni etiche per offrire salari un po’ più alti, ma certo tutto concorre a consideralo un lavoro da pagare poco. Abbiamo provato in altra sede (Musella, 2014, pp. 111-118) a criticare questa posizione e a mettere in evidenza le molte ragioni per le quali la qualità dei servizi di cura che una collettività offre alla sua comunità (ed anche, quindi, a persone anziane e a donne e uomini non autosufficienti) ha un insostituibile ruolo nella produzione di capitale umano e di capitale sociale e concorre a determinare, non solo il benessere di persone appartenenti a quella comunità, ma anche la capacità di un sistema economico di valorizzare al meglio le proprie risorse e di elevare, perciò, la produttività dei suoi fattori produttivi. Qui preme solo osservare che anche il dibattito sugli impatti delle azioni e dei progetti sociali dovrà essere utilizzato, al di là delle questioni di principio che sappiamo continueranno ad alimentare polemiche e discussioni, per sottolineare (e comunicare a istituzioni, ceto poliico e mondo dell’imprenditoria e della finanza) la produttività del lavoro sociale e il suo contributo a processi di sviluppo equilibrato e sostenibile, costruendo indicatori adeguati a tener conto delle diverse questioni che entrano in gioco quando si combatte la povertà dei bambini (e questo è più facile) o si offrono opportunità di vita migliore a persone fragili e non autosufficienti di ogni tipo.
La trattazione di Smith, secondo quanto riportato nella voce della Treccani a firma di Dell’Aringa, sembra ricondurre i differenziali salariali a fenomeni che hanno a che fare più con l’offerta di lavoro che con la domanda e, quindi, ci sembra di poter dire che tornano paricolarmente utili se si vogliono iniziare un discorso su tutte quelle situazioni nelle quali il cosiddetto “lato corto” del mercato è rappresentato non dalla domanda di lavoro, ma dall’offerta che i lavoratori presentano sul mercato. È necessario precisare due questioni. La prima concerne il valore di questi elementi anche con riguardo alla scelta lavoro - non lavoro: anche questa decisione va spiegata; e il ricorso alle cinque dimensioni richiamate da Smith può essere un buon punto di partenza. La seconda ha a che fare con la natura descrittiva o normativa delle cinque dimensioni: la nostra lettura del contributo di Smith ci porta a ritenere che egli, più che dare una spiegazione di ciò che avviene nell’economia concreta, indica i fattori che dovrebbero influenzare i differenziali salariali (e la scelta tra lavoro e non lavoro) in una economia di mecato ben funzionante.
Proviamo ora a commentare brevemente i cinque fattori menzionati poco sopra che richiamiamo qui per comodità:
Innanzitutto, vien fatto di osservare, l’ordine non è casuale ed è interessante notare che sotto la lettera a) viene indicato un fattore connesso non tanto alla produttività del lavoro (che qui non viene nemmeno menzionata esplicitamente), ma alla pensosità delle attività lavorative e, quindi, per dirla in altro modo, non tanto alla necessità che le imprese non paghino al lavoratore più di quanto ricevono da lui/lei, ma alla necessità che i lavoratori trovino giusto riconoscimento delle rinunce a cui sono costretti/e a causa del lavoro. Quanto nella concreta realtà, quanto pesi questo elemento è difficile dirlo: esso va, comunque, tenuto dentro ragionamenti che coinvolgono anche gli altri quattro punti. O, per dirla ancora con le categorie della domanda e dell’offerta, i differenziali salariali, ma quindi anche i livelli di occupazione effettiva dei lavoratori, sono spiegati con un fattore che influenza innanzitutto l’offerta di lavoro, intesa come la quantità di ore che si è disposti a cedere al datore di lavoro dato il salario.
Sotto la lettera b) ritroviamo fattori che hanno a che fare con la accumulazione di capitale umano e con quanto è necessario “spendere”, non solo in termini economici, per raggiungere quel livello di conoscenze e competenze che consentono ad un lavoratore di inserirsi in modo proficuo nelle attività produttive. Qui vi è un evidente riferimento ai fattori che influenzano la produttività del lavoro, ma anche a fattori che hanno a che fare con la qualità della scuola e dei sistemi formativi, con la più o meno rapida obsolescenza delle conoscenze e con la tipologia di meccanismi che nei diversi contesti mettono in relazione e in comunicazione domanda e offerta di lavoro. Il discorso su competenze e conoscenze nei lavori sociali e sulla loro manutenzione e obsolescenza sarebbe lungo e lo rinviamo ad altra occasione.
La lettera c) ha a che fare con un concetto di grande attualità: la precarietà del posto di lavoro e le incertezze che il lavoratore vive a causa della esitenza o meno di un grado sufficientemente elevato di stabilità; sembra dire Smith che, a parità di altre condizioni, un lavoro più precario deve essere pagato meglio di altri e, noi diciamo, un lavoro più precario per essere accettato richiede un salario che compensi sufficientemente questa precarietà. Nella realtà spesso non è così perché non si verifica “la parità di altre condizioni”, di cui abbiamo detto poco sopra, per cui il tema della precarietà va inevitabilmente collegato alla questione delle alternative a disposizione del lavoratore. Si aprirebbe qui tutto il tema del reservation wage (salario di riserva) e delle determinanti di esso: a quale livello del salario una persona è disposta a rinunciare al proprio tempo libero (o ad altra occupazione, se disponibile) per mettere a disposizione di un datore di lavoro la propria forza lavoro? E quale influenza hanno su questo salario di riserva incertezza e precarietà?
La lettera d) si riferisce ad un argomento che può essere tradotto nella moderna teoria economica con le idee proposte dalle teorie dei salari di efficienza: se si vuole far coprire un posto di lavoro da persone di fiducia, bisogna essere disposti a pagare un salario più elevato che scoraggi comportamenti opportunistici. Ovviamente, ma anche questo sarebbe un lungo discorso, per un datore di lavoro avere persone di fiducia è tanto più importante quanto minore è la possibilità di controllare le attività dei lavoratori controllando gli output che questi producono. E, come nelle ricerche del primo decennio del nuovo millennio mettemmo in evidenza, per un verso il settore dei servizi non si presta ad un monitoraggio e controllo che guardi agli output, per un altro verso non è solo il salario che alimenta comportamenti collaborativi dei lavoratori, ma anche quegli incentivi intrinseci e relazionali che sottolineammo allora avevano gran peso nel settore delle non profit e delle cooperative sociali.
Alla lettera e) troviamo un elemento per certi versi criptico (la probabilità di avere più o meno successo nella specifica occupazione) che sembra riferirsi a fattori meno rilevanti nel lavoro sociale e più importanti in lavori a rischio di insuccesso o di fallimento. In realtà, a ben vedere, il lavoro sociale stesso ha, almeno in certi casi, una medio-alta probabilità di insuccesso soprattutto quando le attese del datore di lavoro (o del committente, o del finanziatore) sono legate ad un certo tipo di “risultato”; e oggi la diffusione della logica della valutazione di impatto sociale può orientare verso meccanismi perversi il sistema di cura proprio perché costruisce indicatori di risultato che non tengono conto della specificità delle situazioni e della unicità delle persone. È evidente che successo o fallimento possono avere effetti rilevanti sull’impegno e la motivazione dello stesso lavoratore, ma anche tradursi in modificazioni di quel salario di riserva di cui abbiamo detto poco sopra.
Sarebbe davvero bello e utile poter trarre conclusioni quanto meno parziali sulle questioni sollevate nelle pagine precedenti e provare a distinguere i fattori di crisi del lavoro sociale dagli elementi di contesto generale che condizionano il mercato del lavoro nel suo insieme oggi in Italia e - con qualche differenza, in qualche caso anche notevole - in Europa.
Tuttavia, lo abbiamo detto all’inizio di questo scritto, c’è stata poca attenzione negli studi di economia, e non solo, a raccogliere quei dati, quelle informazioni che sole possono aiutare una ricostruzione “scientifica” delle questioni consentendo di elaborare costrutti logici coerenti e di testarne la validità sulla base di dati e analisi empiriche specifiche.
Non ci resta, quindi, altra scelta, per portarci avanti con un lavoro che speriamo si possa continuare un giorno, che quella di mettere a fuoco i problemi meglio ponendoci quelle domande che derivano in modo pressocchè immediato dal quadro precedente.
Partiamo da da due punti fermi richiamati anche nell’introduzione.
Ci chiediamo rispetto a questa questione: le motivazioni estrinseche dei lavoratori del sociale hanno spiazzato quelle intrinseche? La fiducia, le relazioni, il senso di appartennza contano meno (soprattutto se confrontiamo l’attualità con il passato) del denaro, del successo? Se sì, perche? Si tratta di una conseguenza delle crisi economiche, e non solamente di quelle, che si sono susseguite in questi anni? A rendere meno attraente lavorare in questo settore è la ridotta quantità di beni di comfort che si possono acquistare? Oppure sono cambiate le motivazioni dei lavoratori, il sistema valoriale che li guida nelle scelte? I lavoratori di oggi hanno perso interesse verso quelli che Tibor Scitovshy definì un tempo beni della creatività (impegno civile, beni relazionali, il senso di appartenenza, ...), beni non strumentali, gratuiti, a cui non è possibile associare un prezzo, ma che soddisfano il bisogno di sentirsi in pace con se stessi e di socialità? Ancora, in un mondo altamente time intensive, è cresciuto in modo rilevante il peso che si attribuisce al tempo libero, il suo costo-opportunità? Dobbiamo anche chiederci: siamo certi che non siano i cambiamenti in atto nel mondo del sociale (più burocrazia, standardizzazione, meno relazioni, meno coinvolgimento, crisi della fiducia…) a spiazzare gli incentivi non monetari a vantaggio di quelli monetari?
Perché i lavoratori del sociale dovrebbero essere meno produttivi? Sono più “sfaticati”? Meno competenti? Sono meno soddisfatti e più infelici? O è cambiata nel tempo la tipologia di lavoratori che il settore in esame è in grado di attrarre: lavoratori meno istruiti e con bassa specializzazione? E… se non fosse così! Se l’idea secondo cui a dominare il mercato del lavoro sociale è la ricerca delle migliori abilità individuali (merito più capacità), non trovasse completa aderenza? Se fosse cioè cambiata la tolleranza sociale dei lavoratori nei confronti della ingiustizia, della disuguaglianza salariale? Se le misure di modifica e di compensazione delle disuguaglianze prodotte fossero ritenute dai lavoratori di oggi non più accettabili? Che senso ha, ad esempio, continuare a seguire corsi di formazione su corsi di formazione, tirocini, corsi di aggiornamento ed altro, al fine di accumulare competenze e conoscenze se ciò conduce ad esiti non corrispondenti a quelli attesi, se altre sono le regole del mercato, se la disuguaglianza dentro e fuori dal mercato del lavoro dipende cioè da altri fattori e se la domanda di capitale umano resta molto sullo sfondo dei processi di selezione dei lavoratori?
Le cause della bassa produttività (se un problema di bassa produttività esiste) vanno ricercate dunque anche nel lato della domanda. In aggiunta a quanto già detto, potrebbe essere anche la bassa dotazione di capitale fisico, tecnologico o comunque di quegli assets ritenuti strategici, a rendere i lavoratori del sociale meno produttivi o semplicemente il mercato in esame meno attraente di un tempo.
Come si vede molte sono le domande a cui la ricerca dovrebbe prestare attenzione nel prossimo futuro se non si vuole affidare al caso (e/o ai miracoli dell’intelligenza artificiale, per chi ci crede) la sopravvivenza di sistemi di cura a misura dei bisogni delle persone, sistemi che siano in grado di essere di aiuto ad un economia e ad una società che aspira a parole a crescere in modo sostenibile anche sotto il profilo degli equilibri sociali.
DOI:10.7425/IS.2024.02.05
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