Sulle professioni d’aiuto, sociali e sanitarie, l’Italia attraversa da alcuni anni un problema. Questo articolo esamina le dimensioni e le caratteristiche delle criticità che attraversano il mercato delle professioni sociali e sociosanitarie, le radici di queste criticità, che gli anni del Covid hanno acuito e reso esplicite, e cerca di individuare delle vie di superamento delle criticità presenti, nella consapevolezza della necessità di interventi sia sul piano delle politiche della formazione professionale, del lavoro e delle relazioni tra enti pubblici e terzo settore, sia sul piano dell’organizzazione delle imprese.
Servono oltre tremila nuovi assistenti sociali, per tenere il passo con i nuovi livelli essenziali che hanno stabilito la presenza di un assistente ogni cinquemila abitanti (UPB, 2023[1]), e non ci sono. L’educativa scolastica attraversa una forte crisi, lo stesso vale per l’assistenza domiciliare e per le comunità per persone con disabilità e minori, dove turni e dinamiche interne costituiscono elementi disincentivanti rispetto a più tranquilli e sicuri ambiti di lavoro. Basti pensare che le Mad (“Messe a disposizione”) - che consentono la stipula di contratti temporanei di supplenza nella scuola pubblica, anche in assenza di titoli di abilitazione all’insegnamento e, nei casi più fortunati, per periodi di tempo che vanno da ottobre a giugno - risultano ormai più attrattive dei contratti stessi degli educatori professionali, molti dei quali precari e mal retribuiti. Secondo dati dell’Osservatorio Isnet, sette imprese sociali su dieci dichiarano difficoltà a reperire personale sotto i 30 anni.
E la risposta istituzionale fatica a formulare logiche di lungo periodo. È il caso di Regione Lombardia e della deroga[2] sui titoli di studio per far fronte alla carenza di figure professionali nelle unità di offerta sociale della Regione. L’allargamento del novero dei titoli necessari per lavorare come educatore rischia però di contribuire a dequalificare il settore: nelle comunità per minori, per esempio, qualora non sia possibile trovare operatori con una laurea L19 o L7SNT2 (Ceron, 2022), diventa oggi possibile assumere operatori in possesso di un qualsiasi diploma professionale, basta che abbiano una comprovata esperienza lavorativa di almeno tre anni, finendo per accrescere piuttosto che affrontare il problema degli stipendi al minimo.
Se guardiamo alla sanità, il quadro non è meno drammatico: il PNRR prefigura servizi per cui ci vorrebbero decine di migliaia di infermieri in più, che siamo lontanissimi da poter formare (Gerotto, Turati, 2022). Diversi concorsi per infermieri di comunità sono andati deserti, anche per l’incertezza che aleggia intorno alle reali mansioni di questa figura. I medici di famiglia attraversano da anni un’emorragia in termini di pensionamenti che solo in minima parte viene rimpiazzata da nuovi ingressi (di recente a fronte di oltre 200 posti divenuti vacanti nella Città metropolitana di Milano solo 44 sono stati coperti), facendo così aumentare il numero di italiani senza un medico di base, oggi più di un milione. Il Senato ha appena approvato l’abolizione del numero chiuso a Medicina, una soluzione controversa per l’impatto che potrà avere sui corsi universitari, e non solo. Le capienze formative delle università e delle scuole professionali sono infatti insufficienti rispetto alle dimensioni che si renderanno necessarie.
Viene sollecitata la medicina di gruppo, le aggregazioni funzionali tra medici, idea molto interessante, ma con mille vincoli e alla fine altrettanti disincentivi. Le RSA sono in affanno a ricercare operatori sociosanitari (Oss), anche per via di flussi migratori bloccati, a fronte di una professione fortemente etnicizzata. È noto, inoltre, come in epoca pre-Covid i corsi per Oss registravano lunghe liste di attesa, liste che si sono prosciugate negli ultimi anni. L’assenza di una dinamica migratoria di respiro[3], peraltro, sta progressivamente congelando il mercato privato di cura, quello delle assistenti familiari, un mercato a invecchiamento spinto dove il turn over è ridotto all’osso, con ricadute pesanti sulle lavoratrici del settore ma anche sulle caratteristiche dell’offerta. Per esempio, si è ampiamente ridotta la disponibilità delle assistenti familiari alla co-residenza con l’anziano non autosufficiente (Pasquinelli, Pozzoli, 2021).
Anche nel comparto sociosanitario le risposte istituzionali sono di corto respiro: ha fatto notizia il caso dei “Super-Oss” lombardi e veneti: operatori sociosanitari con formazione da completare in assistenza sanitaria per sopperire alla mancanza di infermieri. La Regione Piemonte ha ulteriormente rilanciato l’allargamento dei titoli professionali nel contesto dei servizi residenziali, autorizzando le RSA ad assumere badanti al posto che Oss; in una sorta di circolo vizioso che appare senza fine.
Le ragioni di tutto questo, venutosi a maturare soprattutto dopo la pandemia, sono diverse – ogni profilo ha la sua storia. Le soluzioni ad oggi trovate sembrano avere il fiato corto, legate più spesso all’emergenza e più difficilmente a una prospettiva di più lungo periodo, capace di rilanciare l’attrattività delle professioni sociali e sanitarie dentro ad inquadramenti incentivanti. I temi e le criticità sono tante. Ma possiamo trovare alcuni fili rossi. Vediamo quali.
Il fenomeno delle grandi dimissioni, la cosiddetta Great Resignation (Battiloro, 2023), esprime, tra le generazioni più giovani in particolare, un cambio di paradigma nei confronti del lavoro. In una survey condotta da Unison l’anno scorso su tremila operatori sociali inglesi, è risultato che quasi tre quarti (72%) hanno dichiarato un sensibile aumento del carico di lavoro durante gli anni della pandemia, provocando un aumento dello stress e una diminuzione della motivazione, mentre il 53% prevede di lasciare questo settore, aprendo un enorme problema di turnover (Hall, 2023).
Come afferma Riccardo Maggiolo (2024), le persone ai vertici delle imprese “usano abbondantemente parole come gavetta, passione, talento, merito. Tutte espressioni che ai giovani suonano mediamente vuote o persino offensive. Che senso ha fare la gavetta se il futuro mio e di tutti è così incerto?” Domande come: che posto ha il lavoro nella mia vita? A che cosa mi serve il lavoro? ricorrono oggi e trovano risposte sempre meno scontate di una volta. La generazione che si affaccia oggi sul mondo del lavoro queste domande se le pone, soprattutto in un contesto in cui il lavoro sociale si configura sempre più come “lavoro povero”.
Non è l’unico, ma è certamente cruciale il tema dell’inquadramento professionale e dei livelli remunerativi. Sono note le basse retribuzioni delle professioni sociali: un assistente sociale con una decina d’anni di anzianità guadagna in media 28/30.000 euro lordi l’anno. Nel Regno Unito un senior social worker porta a casa fino a 47.000 sterline lorde (quasi 55.000 euro), mentre chi è alle prime armi parte con un salario medio di circa 30,000 sterline. Gli infermieri in Italia sono i peggio pagati in Europa, per non parlare degli educatori, e potremmo andare avanti a lungo a fare confronti. Ma c’è anche una propensione, nelle professioni sanitarie in specie, a preferire la libera professione all’inquadramento da dipendente, più attrattiva e remunerativa. Diversa la dinamica nelle professioni sociali, ultimamente attratte da soluzioni meno precarie e più remunerative all’interno della pubblica amministrazione, complici anche gli appalti al ribasso ancora ampiamente diffusi nel settore.
Alle dimissioni volontarie, alla scelta di intraprendere una strada diversa, più rispondente a interessi propri, o comunque meno legata a processi organizzativi imposti, si accompagna il cosiddetto “quiet quitting”, le dimissioni silenti, o non-dimissioni: si riduce la propria attività lavorativa al minimo indispensabile, lo stretto necessario. Niente straordinari, impegno al minimo, niente stress, burn out e così via. In fondo è il prendere le distanze dal tuo lavoro, senza lasciarlo perché ne hai bisogno. “Se ne sta parlando non soltanto per la popolarità del fenomeno sui social, ma anche per quello che dice di inclinazioni e sentimenti diffusi nel mondo del lavoro dopo la pandemia tra le persone più giovani” (AA. VV., 2022). Un fenomeno che fa il paio con le grandi dimissioni, praticate queste ultime forse da chi ha più competenze da spendere sul mercato.
La sintesi la propone Dario Colombo, dirigente della cooperativa sociale Il Melograno, presente a Milano e nel suo hinterland con più di 900 addetti: “si sta affermando un atteggiamento più “femminile” verso il lavoro, anche tra i maschi. Un atteggiamento che non lo considera più il fulcro su cui costruire il proprio progetto, ma funzionale a ciò che può dare, che può aiutare a fare. Si è molto più inclini di una volta alla rinuncia, a evitare sacrifici, più selettivi ed esigenti nelle richieste, forse nella convinzione che una via di fuga, una alternativa, un aiuto comunque lo si possa trovare”[4]. E lo si trova indebitandosi, oppure ricorrendo a sostegni estemporanei, o ancora aggrappandosi a escamotages che consentono di percepirsi sopra un certo standard di benessere. Benessere, intendiamoci, spesso fittizio, temporaneo, artefatto.
Un lavoro povero spinge verso una crisi vocazionale. Molti anni fa, scegliere il “sociale” come ambito anche lavorativo era frutto di una scelta di valore. Si arrivava a lavorarci per una combinazione di particolari esperienze, incontri, relazioni. L’inclinazione novecentesca verso il sociale era una vocazione spesso legata a contesti di vita precedenti le scelte professionali: di volontariato, servizio civile, adesione a luoghi di impegno, anche politico. Oggi non è più così, o lo è molto meno. Il welfare dei servizi è diventato un settore lavorativo tra gli altri, al pari di quello educativo o della sanità, per cui si è disposti a spendersi in base a calcoli di interesse, ma anche di convenienza. Un settore che è cresciuto molto negli ultimi trent’anni, ma che si è anche molto strutturato, se si vuole si è normalizzato: non c’è più nulla di straordinario nel lavorare in una cooperativa che si occupa di disabili o di tossicodipendenti. Il senso di avanguardia e di “missione” non ci sono più tra chi decide di impegnarvisi, o sono rimasti un residuo del passato.
Esiste dunque un problema oggettivo di remunerazioni basse e di precariato diffuso. Anche questi fattori spiegano la crisi di vocazione che ha investito le professioni sociali. È cresciuta una disaffezione diffusa, una crisi di credito verso questo settore che si esprime anche nel numero di iscrizioni ai corsi universitari e ai centri di formazione professionale, in calo. È emblematico il caso degli educatori socio-pedagogici, sempre meno disposti a sopportare i sacrifici del lavoro in una comunità alloggio o in un centro per minori, e sempre più inclini a un’assunzione, più sicura e meglio pagata, in un ente pubblico, o nella scuola.
Sul banco degli imputati vengono messi contratti di lavoro obsoleti e bassi livelli retributivi, alla base delle fughe verso la sanità, o dal terzo settore verso l’ente pubblico. Ma questa è solo una parte del problema. Perché anche con questi contratti e con queste retribuzioni rimangono margini entro cui la dirigenza imprenditoriale può compiere scelte importanti. Basti pensare al lavoro agile e alla settimana corta di quattro giorni lavorativi, forse ancora prematura nel sociale del nostro paese, ma su cui si stanno addensando attenzioni e sperimentazioni importanti, sulla scia di modelli già affermati all’estero (Battiloro, 2023).
Se il lavoro diventa meno centrale nella vita delle persone, perché si riesce a vivere riducendone il peso e ricorrendo a risorse e a fonti diverse, è una responsabilità organizzativa cruciale ripensarne le caratteristiche, la configurazione, i modelli organizzativi (Depedri, Bonazza, Lattari, 2024), prima che l’emorragia di personale metta in pericolo l’esistenza stessa dei servizi. Questo significa affrontare alcune dimensioni chiave. Ne indico tre in particolare.
Primo: la precarietà. Il lavoro che si offre ha ancora, spesso, le incertezze di un’epoca pre-Covid, con quel rosario di impieghi a tempo determinato, stage, tirocini, contratti a progetto. Proposte circoscritte, magari sottopagate, dicono in realtà ai giovani candidati: “noi ci fidiamo poco di te, diamoci del tempo, poi vedremo”. È giusto avere un tempo reciproco di verifica, sapendo però poi che cosa può accadere. Ma se quello che accade dopo rimane vago, e il tempo della verifica rimane indefinito, ci muoviamo sul piano inclinato della demotivazione, della svalutazione. Si è generata così una popolazione giovanile in costante sospensione, abituata a chiedersi quanto ne vale la pena, e che viene spinta a entrare e uscire dai lavori in cerca di condizioni continuamente migliori, reiterando una vita “per prova”, sempre in cerca della prossima occasione.
Secondo: i progressi di carriera. In molte imprese sociali un aspetto critico riguarda i pochi progressi di carriera possibili, la ripetizione che diventa fatica, frustrazione, burn-out. Ancora troppo spesso la gestione delle risorse umane è assimilata a una funzione amministrativa anziché al miglioramento della qualità dei servizi. Costruire dei passaggi professionali di progressione nei livelli di responsabilità, di ruolo, di retribuzione, è una grande sfida. Ma è qui che si gioca la possibilità di fidelizzare il lavoratore, il cosiddetto “cliente interno”, che tale non è considerato in molti casi e che invece lo dovrebbe essere perché risorsa su cui si gioca il valore aggiunto di ciò che viene prodotto.
Terzo: il clima organizzativo. Ogni servizio alla persona tende a riprodurre con l’esterno relazioni analoghe a quelle messe in atto al suo interno. Il clima organizzativo è un aspetto cruciale. Creare un buon clima richiede funzioni dedicate, e può fare la differenza nella qualità dei servizi offerti. Le organizzazioni come risorse per le persone, e non viceversa, seguono una logica del lavoro come opportunità di realizzazione e dunque di benessere per chi vi opera. Un ruolo attivo nei processi produttivi aiuta a creare un buon clima, così come l’aiuta una struttura per funzioni o per gruppi di progetto. Una struttura da cui un’intera generazione di imprenditori – anche sociali – è lontana, se ne è allontanata nel tempo, o non vi si è mai avvicinata.
La disaffezione verso il sociale non è solo il prodotto di vincoli esterni: contratti troppo rigidi e bassi salari. Certo, questi fattori rimangono cruciali. Ma è anche la conseguenza di scelte, o non-scelte, che hanno reso questo settore meno attrattivo. Considerare l’operatore come un cliente interno richiede ascolto, attenzione alle sue esigenze di tempo, di autonomia, e retributive. Un operatore non più mero esecutore, ma partner attivo di una relazione, portatore di competenze, ma anche di atteggiamenti, aspettative e disponibilità variabili. E un operatore soddisfatto, che si sente “a casa”, è portatore sano di un benessere professionale che può essere contagioso e assumere una dimensione collettiva.
Uscire dall’angolo, dal circolo vizioso aumento-dei-costi/disaffezione-del-personale è, per il welfare territoriale, e per le imprese sociali in modo particolare, la sfida di oggi. Per vincerla non si può rimanere da soli, occorre una strategia di alleanze, collaborazioni tra simili e tra diversi. Questo tocca anche il tema delle fusioni tra soggetti, perché “piccolo” non è più bello. Con l’idea che il “sociale” venga riconsiderato, rivalutato, ricollocato, smettendo di subire la posizione di un settore a sé stante: deve intrecciarsi con un’idea ampia di welfare, che include l’ambiente e la transizione ecologica, la salute, la cultura, l’abitare. C’è già una moltitudine di progetti che lavorano su queste connessioni: vanno moltiplicati, coltivati, consolidati. Perché così si alimenta anche un senso di identità professionale, di appartenenza ad un campo più ampio, interconnesso, che fa della diversità un valore (Nembri, 2024).
Questo significa uscire da un sociale autoreferenziale, considerato un “costo”, e ribaltare la prospettiva: diventa investimento perché può prevenire il disagio, può intercettare il bisogno prima che si trasformi in sofferenza conclamata. Le azioni che promuove riguardano la cura, la salute, l’educazione non solo dei più fragili ma di tutti. Un welfare per tutti.
Il combinato disposto delle dinamiche appena descritte – basse retribuzioni, precariato, disaffezione, limitata dinamica organizzativa – porta a una scarsa attrattività del settore sociale. Come uscirne? C’è una gamma di possibilità su cui possiamo puntare, dal lavorare affinché le professioni di aiuto diventino un volano di crescita e occupazione dignitosa (Marocchi, 2023; Notarnicola e Perobelli, 2022) all’adottare modelli di servizio e interventi diversi, che mettano al centro il lavoro con comunità locale, il suo benessere collettivo, non privatistico, grazie anche a nuovi ruoli e nuove figure professionali: il case manager, l’infermiere di territorio, il community maker, il fundraiser e così via.
Occorre pensare e programmare sviluppi di carriera veri, reali, che per molte professioni di aiuto sono di fatto inesistenti o quasi: pensiamo agli educatori, agli infermieri, agli assistenti sociali, agli Oss. Quello di abbassare l’asticella dei titoli di studio richiesti (così l’Oss diventa un “vice infermiere”, l’educatore professionale viene sostituito con chi ha un semplice diploma e così via) è un espediente al ribasso con il fiato corto e il rischio di dequalificare i servizi. Serve una profonda rimodulazione dei sistemi formativi, evidentemente non in grado di rispondere all’attuale domanda di lavoro.
Se l’obiettivo è quello di non dequalificare i servizi, alcune delle proposte avanzate dalle Regioni[5] per contrastare la carenza di personale rischiano invece di andare in questa direzione, con l’introduzione di figure professionali “sostitutive” che rappresentano soluzioni di ripiego, a buon mercato, che non fronteggiano la mancata o erronea programmazione dei fabbisogni di personale sul medio e lungo periodo. Per questo occorre rimettere al centro le professioni d’aiuto, agendo sui percorsi formativi – sia universitari che professionali – ma anche sul tema dei contratti, della retribuzione, della pianificazione dei fabbisogni di cura (e quindi di personale) e del coinvolgimento dei professionisti della cura nella pianificazione di politiche e interventi.
Manca un radicato approccio alle professioni sociali e sanitarie nella direzione della policy practice. Il termine policy practice – cha ha una lunga storia legata al contesto del servizio sociale (Gal, Weiss-Gal, 2013) – si riferisce all’utilizzo di tutte le competenze proprie del lavoro sociale al fine di un’azione diretta sulle politiche pubbliche, per influenzarle, proporne di nuove, cambiarle grazie alla pratica professionale. Con l’obiettivo primario del raggiungimento della giustizia sociale, o perlomeno di un progresso nella sua direzione. Per estensione, possiamo dire che tutte le professioni di aiuto, sociali e sanitarie, avrebbero bisogno di più policy practice, per rimediare alle storture dei contesti legislativi, organizzativi e professionali riguardanti la sfera del lavoro di cura.
Serve una valorizzazione delle professioni sociali tout court: da un punto di vista salariale, perché il sistema tiene se tengono i lavoratori, le lavoratrici e le rispettive famiglie; da un punto di vista politico e della priorità che questo settore deve acquisire, diventando settore di investimento per la società, perché indispensabile. In un contesto in cui i bisogni sociali aumentano, non possiamo permetterci che il lavoro sociale non diventi una questione politica.
Serve infine una valorizzazione dal punto di vista relazionale: le situazioni che i professionisti si trovano ad affrontare – siano essi assistenti sociali, Oss o educatori – sono sempre più complesse, varie e sempre meno standardizzabili. Le possibilità di risposta rimangono però oggi spesso autoreferenziali e prestazionali, un elemento di svilimento per le professioni sociali, che devono trovare nuove vie per rilanciare il loro potenziale.
DOI 10.7425/IS.2024.02.02
Battiloro V. (2023), Lavoro e settimana ridotta. Il fenomeno delle dimissioni di massa, Welforum.it, 1 febbraio.
Ceron D. (2022), L’educatore professionale: realtà e prospettive, Prospettive Sociali e Sanitarie, 4.
C.N.C.A. (2023), La dignità del lavoro sociale, disponibile online all’indirizzo https://www.cnca.it/wp-content/uploads/2023/09/Impaginato2-Dignita-del-Lavoro-Sociale.pdf
Depedri S., Bonazza M., Lattari E. (2024), Lavorare in cooperativa oggi, Euricse Research Report, n. 035/24.
Gal J., Weiss-Gal I., (2013), Social Workers affecting Social Policy, Policy Press, Bristol.
Gerotto L., Turati G. (2022), Pnrr e fabbisogni di personale nella sanità italiana, in Prospettive Sociali e Sanitarie, 4.
Hall J. (2023), Social workers in England quitting in record numbers, The Guardian, 23 febbraio.
Maggiolo R. (2024), Screenager e aziende: se lavorare diventa una cosa da boomer, in Huffpost, 6 aprile.
Marocchi G. (2023), Verso un ripensamento del lavoro sociale, Welforum.it, 19 dicembre.
Mazzacane D. (2022), La carenza di medici: alcune osservazioni, in Prospettive Sociali e Sanitarie, 4.
Nembri A. (2024), Ridare dignità al lavoro sociale: un imperativo politico e civile, Vita, 26 gennaio.
Notarnicola E., Perobelli E. (2022), La crisi del personale nel settore sociosanitario. Ragioni e possibili vie di uscita, in Prospettive Sociali e Sanitarie, 4.
Pasquinelli S., Pozzoli F., (2021), Badanti dopo la pandemia. Vent'anni di lavoro privato di cura in Italia, Quaderno WP3 del progetto Time to care, disponibile online all’indirizzo: https://www.qualificare.info/upload/RAPPORTO%20BADANTI%202021.pdf
Pasquinelli S. (2023), Crisi del personale: il lavoro da ripensare, in Welforum.it, 14 marzo.
Pavani L. (2023) Mi dispiace, da domani non lavorerò più qui, in Welforum.it, 11 aprile.
[1] Focus-n.-5-assist_sociali.pdf (upbilancio.it)
[2] Delibera XI/6443 del 31-05-2022.
[3] Per il triennio 2023-2025 è previsto l’ingresso, ogni anno, di soli 9.500 lavoratori non comunitari per lavori nel settore dell’assistenza familiare e sociosanitaria.
[4] Intervista raccolta da chi scrive.
[5] Si veda il Documento programmatico fabbisogni di personale sanitario della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, pubblicato il 2 marzo 2022. Questo punta, da un lato, alla riduzione dei numeri chiusi e all’aumento delle capacità formative degli atenei mentre, dall’altro, prevede strumenti flessibili per reclutare il personale, permeabilità delle carriere, riorganizzazione delle mansioni e delle competenze, aumento delle ore di lavoro, o dei massimali dei pazienti seguiti, deroghe ai regimi di esclusività e così via.
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