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ISSN 2282-1694
impresa-sociale-2-2013-le-community-enterprises-in-gran-bretagna-imprese-sociali-come-modello-di-rigenerazione

Numero 2 / 2013

Saggi brevi

Le Community Enterprises in Gran Bretagna: imprese sociali come modello di rigenerazione

Sara Le Xuan, Luca Tricarico

Abstract

Nel dibattito italiano, sia accademico che giornalistico, le questioni che riguardano la riduzione della spesa pubblica, la dismissione del patrimonio pubblico, la rigenerazione urbana delle periferie, la partecipazione ed il coinvolgimento delle comunità nei processi di pianificazione, rappresentano temi di crescente rilevanza.

In risposta a queste problematiche, la Gran Bretagna - paese in cui da sempre la pianificazione del territorio ha una dimensione multidisciplinare - ha riconosciuto il ruolo di alcune imprese sociali definite community enterprises. Queste organizzazioni sono nate da processi spontanei e distinti, in uno stretto dualismo tra l’azione locale e gli indirizzi delle politiche nazionali, affermandosi come strumento di rigenerazione urbana sostenibile. L’efficacia d’azione delle community enterprises consiste nella promozione di processi di capacity bulding, che pongono al centro della rigenerazione le comunità con le proprie risorse, favorendone l’attitudine ad operare per il proprio welfare e proponendo formule redistributive di sviluppo urbano. La recente trasformazione culturale e politica nota come “from the Big State to Big Society” ha riconosciuto la capacità d’azione di queste imprese, ma ne ha allo stesso tempo messo in discussione il ruolo, individuando come maggior limite delle stesse la dipendenza dal sostegno pubblico quale elemento necessario a garantirne lo sviluppo e la loro azione sui territori.

In questo contributo[1] si propone una lettura dell’evoluzione delle politiche urbane del Regno Unito e un inquadramento generale delle diverse tipologie di community enterprises, con particolare riferimento ai Community Development Trust. Nello specifico è stato approfondito il caso del Westway Development Trust di Londra, il suo potenziale di sviluppo e i risultati raggiunti in termini di attività e capacità economiche.


The Italian scientific and academic debate is currently focused on problems such as cut of government spending, state asset transfer processes, deprived areas regeneration, community engagement.

As an attempt to give a unique answer to these matters, UK urban policies - characterized by a multidisciplinary approach - display the role of third sector organizations called community enterprises as sustainable “device” of urban regeneration. Community enterprises grown up with independent paths, linked to the evolution of local community engagement processes and national urban policies. These enterprises can be considered as a “device” promoting sustainable social environment, urban regeneration and local welfare through enhancement of community capabilities.

This contribution has been recognized by national government politics in the cultural and poltical framework of the transfer from “the Big State to the Big Society”. The results of this policy demonstrate the strong dependency of community enterprises from public sector as a limit urban regeneration processes. This study is based on an analysis of UK urban policies and the different typologies of community enterprises, focusing the research on Community Development Trust. A relevant example is the case study of Westway Development Trust (London), showing finfty years of asset and capacity development process.


Le community enterprises ed il legame con le politiche urbane

Lo studio delle community enterprises come nuovo strumento di rigenerazione urbana nasce da recenti ricerche di vari accademici inglesi (Bailey, 2012; Somerville, McElwee, 2011; Pearce, Kay, 2003) che analizzano alcune imprese sociali contraddistinte da ambiti di intervento legati ad una specifica comunità locale, in aree territorialmente definite. Queste imprese sono gestite in maniera indipendente e nonprofit, con obiettivi locali orientati al coinvolgimento delle comunità nei processi di rigenerazione. La loro azione si lega fortemente al concetto di sostenibilità, visto il contributo in termini di:

  • benessere diffuso (sicurezza, salute, istruzione), equamente distribuito tra le diverse componenti della comunità (sostenibilità sociale);
  • opportunità legate al reddito, al lavoro e allo sviluppo delle capacità della comunità (sostenibilità economica);
  • qualità ambientale, promuovendo il recupero di edifici e aree dismesse (sostenibilità ambientale);
  • mediazione nelle situazioni di conflitto, attraverso il rafforzamento delle reti tra comunità locale, autorità ed altri attori privati (sostenibilità istituzionale).

Il termine community deriva dalla stretta relazione tra queste imprese e una popolazione definita: le attività svolte sono infatti indirizzate al soddisfacimento di una domanda locale tramite una gestione d’impresa operata dai membri stessi della comunità. Il termine enterprises indica la loro natura commerciale: i profitti delle attività sono reinvestiti nell’organizzazione stessa, senza dimenticare gli “scopi sociali” e gli obiettivi legati ad un’area geograficamente delimitata e identificabile con una “comunità locale” (Pierson, 2000; Kay, 2005). Le iniziative promosse da queste imprese vanno dall’ampliamento delle risorse e dei servizi offerti, al supporto a imprese locali, fino alla promozione di piani di rigenerazione urbana. Le funzioni sono diverse: gestione di servizi pubblici, incubazione di imprese locali tramite il recupero del patrimonio pubblico dismesso etc. Dato lo stretto legame con obiettivi territoriali locali, le fasi di sviluppo delle community enterprises dipendono dai diversi contesti in cui si generano; si sono sviluppate in seguito a vari percorsi di interazione con attori locali e nazionali, in forte dipendenza dall’evoluzione delle politiche urbane dei governi inglesi.

Il legame tra community enterprises e rigenerazione urbana si è consolidato grazie ad alcune azioni delle politiche urbane degli ultimi cinquant’anni. Negli anni ’60-'70 le misure per la riqualificazione di aree urbane intervenivano sulle comunità attraverso azioni di “riabilitazione sociale”, tramite la fornitura pubblica di servizi indirizzati alla riduzione delle condizioni di precarietà in cui versava la popolazione. Negli anni ‘80 e nella prima metà degli anni ’90 la rigenerazione urbana ha cominciato ad essere vista come un problema strutturale; occorreva promuoverne lo sviluppo economico che, agevolato dalla deregolamentazione e da forti incentivi statali, avrebbe creato sulle comunità effetti rigenerativi “a cascata”. Alla fine degli anni ‘90 le comunità sono state poste al centro delle politiche urbane attraverso il coinvolgimento diretto nei processi di rigenerazione. Le nozioni di “imprenditorialità” e “sostenibilità” delle comunità sono state un obiettivo primario delle iniziative di rigenerazione urbana del governo New Labour. In termini generali, l’agenda neo-laburista si basava su una rigenerazione endogena, favorendo iniziative ed attività integrate volte all’ampliamento delle capacità economiche locali.

Per spiegare il legame tra community enterprises e rigenerazione urbana possiamo avvalerci di rapporti di ricerca ed indicatori che approcciano la questione in maniera meno diretta. Il fulcro della questione è il processo di acquisizione delle risorse, definito dalla letteratura inglese come acquiring asset process (Aiken, Cairns, Taylor, Moran, 2011; Locality, 2011). Questo processo consiste nell’acquisizione di risorse che permettono alle community enterprises di realizzare gli interventi necessari a consolidare e sviluppare le proprie attività. Questa fase, oltre ad essere necessaria per lo svolgimento delle funzioni volte alla rigenerazione economica e sociale, rappresenta un importante elemento di rigenerazione fisica del quartiere. Le risorse affidate alle community enterprises sono, nella maggior parte dei casi, spazi residuali o immobili dismessi - concessi da enti pubblici o ottenuti attraverso donazioni private - contraddistinti da elevati costi per la manutenzione e la gestione.

Il ruolo nel recupero di tali spazi è stato chiaramente sottolineato dal rapporto della Local Government Association[2] “Comparti scolastici degradati, biblioteche abbandonate, palazzi ed uffici municipali sovradimensionati, sono per molte autorità locali un costo in termini di degrado e criminalità, rappresentando un fallimento nella gestione delle risorse pubbliche. Le autorità locali devono condividere la gestione del proprio patrimonio con le community enterprises, le uniche organizzazioni capaci di individuare nuove opportunità per questi edifici. Queste imprese riescono ad attirare nuove e diverse forme di investimento, attivando una serie di funzioni ed attività e generando profitti reinvestiti nell’impresa, nel benessere e nella rigenerazione delle comunità” (Local Government Association, 2004).

Le modalità di acquisizione e gestione delle risorse sono possibili indicatori della portata dell’azione rigenerativa delle community enterprises (Bailey, 2012), in quanto evidenziano la capacità di attivare processi di rigenerazione urbana. E’ possibile identificate tre tipologie di community enterprises in base al rapporto tra gestione delle risorse possedute e funzioni svolte:

  • stewards (organizzazioni di piccole dimensioni): formate principalmente da volontari, con difficoltà di gestione delle risorse, concedono spazi ad associazioni locali o gruppi di residenti;
  • community developers (organizzazioni di medie dimensioni): ad esse vengono affidate risorse utili alla produzione di servizi offerti in partnership con altri attori;
  • entrepreneurs (organizzazioni di grandi dimensioni): professionalmente organizzate ed avanzate, con una forte vocazione commerciale e un’organizzazione indirizzata al profitto (business model). Per la quantità di risorse gestite vengono definite capital-intensive (Aiken, Cairns, Taylor, Moran, 2011); pur lavorando in partnership con altri attori, sono finanziariamente indipendenti.

Secondo un’indagine del 2011[3] elaborata su 717 community enterprises, solo il 3% di queste ha richiesto un prestito bancario, dimostrando un elevato grado di indipendenza dai sistemi creditizi; il 27% conta su donazioni private, mentre il 31% sul sostegno pubblico. Un ulteriore 25% ha utilizzato tutti i metodi di acquisizione sopraelencati (sono le imprese con le risorse più consistenti). Il restante 14% utilizza altri metodi di finanziamento, come i fondi europei o il peppercorn rent, ovvero una tariffa di affitto simbolica concessa su proprietà pubbliche.

Nel mosaico di organizzazioni che si definiscono community enterprises, le più interessanti dal punto di vista dell’acquisizione di risorse sembrano essere i Community Development Trust, imprese multifunzionali ed indipendenti che forniscono una serie di servizi sociali, economici ed ambientali destinati ad una comunità locale mirando ad uno sviluppo multidimensionale della comunità (Development Trust Association, 2002). I CDT svolgono le proprie attività attraverso la fornitura di:

  • spazi per lavoro (laboratori artigianali, uffici, piccoli magazzini industriali, etc.);
  • spazi commerciali (botteghe per la rivendita di prodotti artigianali, per mercati di quartiere);
  • spazi per le organizzazioni formali e/o informali delle comunità;
  • servizi per la salute, lo sport, la formazione professionale e l’istruzione;
  • servizi sociali e ricreativi per l’infanzia, gli anziani e i disabili.

La nascita di queste imprese in alcuni casi ha seguito un modello di organizzazione d’impresa già sperimentato da altri Trust - termine che identifica un fondo comune d’investimento diffuso nel diritto privato britannico - in altri casi sono nate su iniziativa delle autorità locali, in altri ancora a seguito di programmi di rigenerazione urbana finanziati dal governo centrale - come il New Deal for Communities (NDC) o i Neigbourhood Management Pathfinders (percorsi di gestione dei quartieri in cui le comunità locali dovevano coordinare e gestire i servizi locali per migliorarne l’efficienza).

L’agenzia di coordinamento nazionale Locality (nata nel 2011 dalla fusione della Development Trust Association e la British Association of Settlements and Social Action Center) ha redatto nel 2011 un rapporto che - analizzando l’attività di 423 CDT - descrive l’impatto economico e sociale che queste imprese hanno sul territorio (Locality, 2011). Il 63% delle imprese è localizzato in aree urbane, il 17% in aree rurali e il 20% in aree miste. Le persone iscritte nei registri dei servizi prodotti da queste imprese sono 310.000, i posti di lavoro generati 5.500 e i volontari oltre 20.000. Nel 2010 i CDT hanno fatturato 325 milioni di sterline (172 milioni di entrate prodotte per il 53% da attività commerciali). Il 57% dei CDT ha prodotto ricavi grazie ai finanziamenti ricevuti per contratti su servizi pubblici. Tra queste, solo il 40% delle imprese ha prodotto profitti, mentre il 17% ha avuto perdite. Questo dato indica l’importanza delle attività commerciali per il sostentamento dei CDT e allo stesso tempo la parziale efficacia finanziaria degli accordi con il settore pubblico.

Le forme societarie

Le community enterprises presentano forme organizzative varie in termini giuridici e amministrativi. Lo statuto è redatto specificando le regole in merito alla partecipazione, la definizione degli obiettivi, l’organizzazione economica, la selezione ed elezione dei membri del consiglio di amministrazione. La redazione dello statuto rappresenta una fase delicata in cui la struttura organizzativa informale viene trasformata in organizzazione normata. Questo processo di institutional building (Donolo, 1997) è particolarmente importante per la costruzione di credibilità dell’impresa nei confronti della comunità, delle autorità locali e di eventuali donatori privati (Bailey, 2012). La struttura dei consigli di amministrazione varia da impresa a impresa, propendendo per ordinamenti misti in base alla composizione etnica e di genere della comunità di riferimento. Con questi obiettivi sono stati definiti una serie di meccanismi per la garanzia della diversificazione nella composizione del direttivo[4].

Le forme giuridiche societarie delle community enterprises sono principalmente tre.

Company Limited by Guarantee (CLG): società cooperative a responsabilità limitata. Queste organizzazioni non possiedono obbligatoriamente un capitale sociale e definiscono i membri come guarantors, ossia “garanti”. Questi versano un importo simbolico (una sterlina a testa) come ipotetica garanzia in caso di liquidazione della società. Ogni anno la società pubblica i propri bilanci presso la Company House (registro nazionale delle imprese del Regno Unito). I profitti generati vengono reinvestiti all’interno dell’impresa stessa o utilizzati per pagare prestazioni professionali. Questa tipologia di organizzazione societaria è quella maggiormente utilizzata poiché garantisce maggiore flessibilità gestionale e di attività (Locality, 2011).

Industrial and Provident Society (IPS): definibili come società cooperative senza scopo di lucro oppure come società per il mutuo soccorso. Si differenziano dalle CLG poiché possiedono obbligatoriamente un capitale sociale facente capo a tutti i membri della società.

Community Interest Company (CIC): struttura simile alle altre due forme giuridiche con la differenza che i membri del direttivo possono essere retribuiti poiché ritenuti, grazie alle loro competenze, “indispensabili” agli interessi della comunità. Le CIC possono essere coinvolte in operazioni finanziarie esterne, purché i guadagni siano indirizzati al bene delle imprese. Per evitare distorsioni è stata creata un’autorità di controllo, la CIC Regulator, che vigila affinché la società non perda di vista gli scopi sociali e gli obiettivi di redistribuzione dei benefici per cui è stata realizzata.

Alcune community enterprises hanno lo status di charities (organizzazioni di beneficenza). Questo status è opportuno soltanto quando gli indirizzi delle attività sono esclusivamente di beneficienza, comprendendo attività legate all’istruzione, alla religione e agli aiuti diretti nelle situazioni di povertà estrema. Queste organizzazioni non possono retribuire direttamente i propri dipendenti, ma possono pagare servizi d’impiego specializzati tramite società intermediarie. Anche nel caso delle charities esistono organizzazioni di controllo dell’utilizzo delle risorse.

La scelta della forma giuridica, per una community enterprise, è particolarmente delicata in quanto, pur mantenendo chiari gli obiettivi sociali legati ad una specifica comunità, deve al contempo definire forme efficaci e sostenibili di redditività. La sfida consiste nel superare i rischi insiti nel mercato in cui si opera, soprattutto per quanto riguarda la gestione di spazi, edifici o aree con ingenti spese di manutenzione e difficili ritorni economici.

Il Westway Development Trust di Londra

Il Westway Development Trust (WDT) di Londra rappresenta una delle pietre miliari delle esperienze di rigenerazione urbana basate sull’azione delle community enteprises, di cui è il capostipite. Sorto nel 1971, lega la sua storia alle politiche di risanamento degli slum operai degli anni ‘60, periodo in cui si avviarono i lavori per la realizzazione dell’autostrada sopraelevata A40, un’infrastruttura che attraversava l’area di North Kensington, la zona più a nord del borough di Kensington and Chelsea a Londra.

La realizzazione della A40 prevedeva la demolizione di 600 abitazioni e il trasferimento di circa 2.500 abitanti in altre aree della città, aggravando la situazione di degrado del quartiere di North Kensington ed esponendo le abitazioni ad un elevato inquinamento acustico ed ambientale (Duncan, Bartlett, 1992). La zona era tra le aree urbane più degradate della città di Londra, con un elevato tasso d’immigrazione (per la maggior parte di origine caraibica) ed un contesto decadente e sovraffollato privo di qualsiasi tipo di spazio pubblico. Queste condizioni portarono alla nascita di diversi comitati di protesta che, dopo quattro anni di contestazioni, istituirono il North Kensington Amenity Trust - primo nome del WDT - nato in seguito alla concessione da parte del Department of Transport delle aree residuale sotto la sopraelevata, che comprendevano spazi per circa 100.000 mq.

Durante gli anni ‘80, sotto la presidenza conservatrice del Borough di Kensigton and Chelsea e dopo un decennio di lunghi ed estenuanti processi di coinvolgimento della comunità per la scelta delle attività da svolgere, al WDT fu concesso un pacchetto di finanziamenti necessari allo sviluppo dell’area. Furono quindi realizzate le strutture e i servizi che caratterizzano tuttora il quartiere di Notthing Hill; furono ricavati nuovi spazi per il mercato di Portobello, in precedenza concentrato solo nell’omonima strada. La parte dedicata all’abbigliamento fu interamente spostata all’ombra della sopraelevata tra nuovi stalli semicoperti e negozi in gallerie, tra Portobello Road e Ladbroke Grove. Oltre agli spazi per gli stalli furono realizzate anche nuove sedi per uffici di associazioni volontarie interessate all’attività di beneficenza del quartiere e una sezione di moduli commerciali nell’intersezione tra Portobello Road e l’autostrada sopraelevata, conosciuta come Portobello Arcade. Questa nuova parte del Portobello Market è diventata un simbolo, ispirando molte altre strutture simili in altre parti d’Europa (WDT, 2011). L’asset complessivo realizzato è stato di 20.000 mq di superficie commerciale; sono state create 96 imprese e 230 nuovi posti di lavoro (Bailey, 2012).

Gli ultimi anni di operatività del programma del WDT sono stati destinati alla realizzazione di attrezzature sportive, opere di pedonalizzazione e nuove strutture commerciali. Per la fornitura di ulteriori servizi il WDT ha creato una partnership con la Inner London Education Authority (ILEA) e ha ricevuto un finanziamento di 600.000 sterline per la realizzazione del Westway Sports Centre, che ha concesso i propri spazi alle attività sportive delle scuole del quartiere e stipulato tariffe agevolate per i componenti della comunità.

Negli ultimi anni il WDT ha visto una notevole crescita di profitti che ha consentito un ampliamento di attività e servizi. L’attuale asset del WDT ammonta a 25,5 milioni di sterline. Gli spazi gestiti, circa 90.000 mq, sono ripartiti per circa l’80% in servizi alla comunità e il restante 20% in aree commerciali. Nel 2012 il WDT ha impiegato direttamente 170 persone e 230 sono assunte nelle imprese commerciali e sociali da esso ospitate. Nell’ultimo anno il fatturato prodotto è stato di 7,4 milioni di sterline, con un aumento del 5% rispetto al 2011 (WDT, 2012). I profitti del WDT sono ad oggi prodotti da: attività del Westway Sports Centre (3,6 milioni), affitto di uffici e unità commerciali (2,8 milioni), donazioni private (1 milione). Dei 7,4 milioni di sterline, 4 milioni sono utilizzati per il mantenimento di attrezzature e servizi, i restanti 3,4 milioni sono investiti in community funding, ovvero finanziamenti di progetti per diverse attività svolte dalle comunità locali. I finanziamenti per i community groups vengono erogati alle organizzazioni formali e informali delle comunità che presentano programmi o progetti legati agli abitanti del Borough of Kensington and Chelsea. Il supporto può consistere, ad esempio, in 20.000 sterline per anno, erogato o in termini monetari o tramite la concessione gratuita di spazi.

Il WDT finanzia inoltre il programma “everyday magic”, che supporta la formazione artistica (musica, danza, recitazione e arti visive) nelle scuole locali. I corsi sono tenuti da artisti freelance locali con l’obiettivo di favorire lo sviluppo creativo e di espressione dei bambini. Il programma, nato nel 2005, ha interessato circa 7.000 bambini nella fascia di età tra i 5 e gli 11 anni (WDT, 2012).

Completata la riqualificazione dell’area sottostante l’autostrada sopraelevata, il WDT sta finanziando il recupero degli spazi pubblici di Thorpe Close (prospicenti all’area di Portobello Road), investendo in questo progetto buona parte dei profitti degli ultimi anni. Questa pianificazione rappresenta uno degli interventi chiave del Borough Local Development Framework mostrando un’efficace collaborazione, nella riqualificazione di uno spazio pubblico, tra il Trust ed il Borough Council.

Dopo più di 40 anni di attività il WDT è diventata la community enterprise più importante del paese in materia di erogazione di servizi; è stato il fondatore della Development Trust Association (sostituita nel 2011 da Locality), organismo di coordinamento nazionale delle community enteprises del Regno Unito. Ha inoltre sostenuto numerose campagne per i diritti delle community enterprises, portando all’abrogazione della Development Land Tax - tassa che le imprese pagavano per le opere di trasformazione, sia ex novo che di riqualificazione. L’esperienza del Westway Development Trust è considerata un modello per le community enterprises; i motivi del suo successo risiedono nell’innovazione organizzativa e gestionale introdotta e nella capacità di attrarre risorse.

Le community enterprises: rigenerazione urbana basata sul capacity development

Nel corso degli anni le community enterprises hanno messo a punto dei modelli organizzativi che sono riusciti a coinvolgere in modo equilibrato tutte le componenti di una comunità; il caso del Westway Development Trust né è un esempio. In contesti urbani in cui sono presenti comunità disgregate, le community enterprises hanno svolto un ruolo di collante tra le varie componenti sociali, includendo le parti più deboli (Bailey, 2012). Prima, durante e dopo il consolidamento della propria azione sul territorio, sono state promotrici della mobilitazione delle diverse componenti di una comunità e delle creazione di relazioni tra queste e le istituzioni. Allo stesso tempo il coinvolgimento delle risorse locali ha generato le reti che sostengono lo sviluppo delle attività delle community enterprises: risulta quindi evidente il legame tra lo sviluppo dell’azione rigenerativa di queste imprese ed il capacity buliding[5].

Lo sviluppo di questa capacità (capacity development) è il processo attraverso il quale tali abilità vengono acquisite, rafforzate e preservate nel tempo; è un processo endogeno, ha come guida interna la comunità e può essere potenziato o accelerato da apporti esterni; ha un andamento complesso che non può compiersi in tempi brevi o prevedere risultati secondo modalità lineari e controllate.

L’azione delle community enterprises è una testimonianza di un nuovo modello di rigenerazione urbana, che pone al centro del processo rigenerativo la comunità e le proprie risorse, a partire dai loro bisogni (Sen, 2001; Zamagni, 2012; Bailey, 2012). I processi di rigenerazione portati avanti dalle community enterprises si focalizzano su interventi - ispirati a principi di uguaglianza - che cercano di fornire le risorse (monetarie e non) alle persone, affinché queste migliorino la propria condizione di vita. Un approccio al benessere che sposta il centro dell’attenzione dai beni e servizi che si intendono proporre alla comunità, all’effettiva capacità della comunità stessa di operare per il proprio welfare. Il rafforzamento delle capacità rigenerative delle community enterprises presuppone la necessità di intervenire su un qualcosa che già esiste (comunità, relazioni, risorse), utilizzando e rafforzando le potenzialità endogene di un territorio. Questi fattori definiscono la rigenerazione urbana svolta dalle community enterprises come sostenibile, contrapponendosi all’idea di rigenerazione del Master Planning della tradizione inglese, che ha visto dominare una logica di generalizzazione degli obiettivi delle trasformazioni, incanalando le azioni delle comunità all’interno di procedure amministrative prestabilite da norme e schemi di partnership attraverso un approccio top-down.

Nonostante le community enterprises abbiano usufruito di questi schemi e strumenti, si sono evolute in maniera indipendente rispetto ai canali delle politiche di rigenerazione nazionale, attraverso un percorso dettato dalle relazioni con la comunità ed il contesto locale. I processi di rigenerazione che ne sono derivati sono pertanto imprevedibili rispetto ai piani e ai programmi proposti dalle autorità nazionali, regionali o locali.

Il riconoscimento delle community enterprises nel Localism Act

Gli aspetti di rigenerazione sostenibile promossi dalle community enterprises sono stati colti ed interpretati dal Coalition Government di Cameron. Attraverso il principio neo-liberale di autodeterminazione delle comunità, le community enterprises sono divenute uno dei pilastri del Localism Act (2011), l’ultima riforma che ha ridisegnato le politiche in materia di pianificazione e rigenerazione urbana. Questa riforma ha proposto una serie di politiche volte a:

  • trasferire le responsabilità dal governo centrale alle comunità, includendo un trasferimento di competenze dai governi regionali ai governi locali;
  • conferire nuovi diritti alle community enterprises o agli individui della comunità (relevant body[6] - gruppi di individui o organizzazioni che svolgono funzioni di interesse collettivo);
  • riformare il sistema di pianificazione per assicurare una maggiore autonomia decisionale a livello locale.

Nell’asse Community Empowerment sono state identificate due misure principali che riguardano le community enterprises:

  • community right to challenge[7];
  • asset of community value[8].

La prima misura pone le community enterprises come attore “concorrente” rispetto alle autorità locali. La riforma dà la possibilità a queste imprese di stipulare accordi direttamente con il governo centrale per la produzione di servizi e gestione di spazi di pubblica utilità per conto dello Stato o delle autorità locali. Inoltre lo Stato eroga finanziamenti diretti (sotto forma monetaria, garanzia per prestiti, garanzia d’indennità) o fornisce consulenza gratuita su come erogare i servizi e gestire gli spazi. Queste azioni rappresentano la volontà di promuovere l’autonomia delle community enterprises, creando le condizioni per operare sul patrimonio pubblico in dismissione.

La seconda misura prevede la creazione di un piano di salvaguardia delle aree e spazi - già utilizzati in maniera più o meno formale - ritenuti ad alto valore per la vita delle comunità (list of asset of community value)[9]. Questi spazi hanno diverso assetto proprietario (pubblico o privato) e, in caso di messa in vendita, prevedono un diritto di prelazione alle community enterprises della durata di cinque anni. Queste aree sono tutelate in base agli usi svolti - di particolare interesse per la comunità e che producono benessere sociale preservabile nel tempo (land of community value)[10]. Nelle aree sottoposte a tutela viene inoltre affermato il diritto, da parte delle community enterprises, di poter sviluppare strutture ed attività senza far rifermento né a piani sovraordinati né a permessi delle autorità locali. Per questo motivo le community enterprises partecipano direttamente alla stesura dei Local Development Plans, portando le esigenze delle comunità nella pianificazione a livello locale.

Per conoscere le esigenze delle comunità locali, il Localism Act prevede la legittimazione degli interessi tramite strumenti consultivi, in particolare il referendum. Lo Stato finanzia direttamente i costi dello svolgimento delle operazioni di consultazione. Le scelte delle consultazioni dovranno essere indirizzate a benefici collettivi e gli interventi realizzati dovranno essere gestiti dalle comunità stesse, principio chiave delle attività delle community enterprises. Per affermare questo diritto il governo, nella veste della Homes and Community Agency, offre l’impegno nel controllo delle iniziative e nella fornitura di risorse e consulenza.

Verso la Big Society?

Negli ultimi anni il governo britannico ha interpretato il contributo delle community enterprises come un successo che potesse giustificare le politiche “from the Big State to Big Society”, incanalandole in una nuova “rivoluzione liberale” volta a favorire l’indipendenza di queste imprese.

Nonostante non sia possibile valutare i risultati del Localism Act e delle altre politiche volte a favorire la Big Society, un dato importante è stato il taglio alle autorità locali, nel 2012, di circa 4 miliardi di sterline; di queste, 550 milioni erano destinati ai finanziamenti che le autorità locali erogavano alle piccole community enterprises e al settore del volontariato (Bailey, 2012). In questo modo le finanze delle community enterprises con una forte dipendenza dal contributo pubblico hanno subito un dissesto, risultando pertanto escluse dal passaggio alla Big Society.

È stato dimostrato come, in assenza di un supporto pubblico, i bassi margini di guadagno delle community enterprises rendono difficile l’accesso ai sistemi creditizi (Bailey, 2012; Aiken, Cairns, Taylor, Moran, 2011) e, conseguentemente, impossibili gli investimenti necessari a consolidare le attività di rigenerazione urbana. L’intervento del settore pubblico è fondamentale, oltre che per il suo contributo economico, anche per l’attivazione dei processi di capacity development, valorizzando le capacità per cui le comunità possano formare community enterprises (Power, 2012). Un eventuale taglio della presenza multisettoriale dello Stato a livello locale può diventare una minaccia alla creazione delle relazioni, delle capacità organizzative e della consapevolezza nell’agire comune.

Alla base delle critiche verso il passaggio from the Big State to Big Society vi è la contraddizione di lanciare un progetto dal basso - fondandolo sull’iniziativa delle comunità - attraverso l’intervento e la direzione dall’alto dello stato centrale (Timmins, Pickard, 2011). Non è chiaro quindi come la grande responsabilità di mantenere un buon livello qualitativo dei servizi e conservare un’omogenea offerta territoriale - utile a far crescere il Paese e attutire le disuguaglianza tra aree - demandata alla Big Society, possa essere gestita da “piccole” imprese come le community enterprises.

Bibliografia

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Zamagni S. (2012), Per un’economia a misura di persona, Città Nuova, Roma.

Note

  1. ^ Questo articolo è un estratto della ricerca “Imprese Comuni: rigenerazione urbana e community enterprises nel Regno Unito”, che sarà pubblicata in una monografia edita per la collana politecnica di Maggioli nel novembre 2013.
  2. ^ La Local Government Association è un organismo di coordinamento e rappresentanza degli enti locali in Gran Bretagna. La sua missione è l’interazione con il governo nazionale e le autorità locali per la promozione di buone pratiche di governo locale.
  3. ^ indagine Community Organizations Controlling Asset (Aiken, Cairns, Taylor, Moran, 2011) è stata redatta dalla Joseph Rowntree Foundation, una fondazione che si occupa di studi sulle community enterprises. Il rapporto è l’unico documento che ha fornito una lettura, in chiave quantitativa, della relazione tra community enterprises, rigenerazione urbana ed acquiring asset process.
  4. ^ Lo Shoreditch Trust, ad esempio, ha otto membri del consiglio di amministrazione (su dodici) ognuno di un’etnia diversa, corrispondente alla diversità etnica della comunità.
  5. ^ Per capacity building si intendono percorsi di sviluppo sostenibile, determinato dalle capacità del capitale umano, scientifico, tecnologico, organizzativo, istituzionale e finanziario di una determinata comunità. Un obiettivo fondamentale della capacity building è di potenziare l’abilità di valutare e di indirizzare le questioni cruciali relative alle scelte di policy basate sulla comprensione delle potenzialità dell’ambiente e sui bisogni della comunità.
  6. ^ Localism Act, 2011, part. 5, chapter 2, section 81, undersection 2d.
  7. ^ Localism Act, 2011, part. 5: Community Empowerment, chapter 2: Community right to challenge.
  8. ^ Localism Act, 2011, part. 5: Community Empowerment, chapter 3: Asset of community value.
  9. ^ Localism Act, 2011, part. 5, chapter 2, section 87.
  10. ^ Localism Act, 2011, part. 5, chapter 2, section 88.
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