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ISSN 2282-1694
impresa-sociale-2-2013-oltre-la-retorica-della-social-innovation

Numero 2 / 2013

Saggi

Oltre la retorica della Social Innovation

Maurizio Busacca

Abstract

Dal 2009 il tema della social innovation è entrato prepotentemente e con grande enfasi nel discorso e nelle politiche pubbliche del mondo occidentale. Supportati da una riflessione teorica che ha coinvolto università, think thank, fondazioni e network, i governi di Stati Uniti, Inghilterra, Nuova Zelanda, Canada e Europa hanno avviato politiche di sostegno e incentivazione di iniziative di innovazione sociale. Tutto il discorso contemporaneo, seguendo il filone della scuola britannica, tratta la social innovation in modo astorico (è del tutto incentrata sul presente) e acritico (è a priori positiva nei suoi effetti).

Questi atteggiamenti, che trascurano fortemente i contributi dell’800 e '900, si traducono in un’idea liberal-progressista di società che si auto-trasforma senza bisogno né di mediazioni, né di visioni di cambiamento e che trova nuove strategie per mediare in senso sociale i comportamenti più predatori e voraci del capitalismo liberale. Questa impostazione può essere rilevante solo se viene immessa al suo interno un’idea di trasgressione, di conflitto, di tensione tra società costituita e società costituente. In questo modo la social innovation perde la sua mono-funzione regolatrice (nella relazione tra sistemi di produzione-scambio e organizzazione sociale) e può diventare un driver di trasformazione, potenzialmente radicale, del sistema sociale stesso.


Since 2009, Social Innovation topic has burst with great emphasis in the Western world discourse and public policies. Supported by a theoretical debate that involved universities, think tanks, foundations and networks, the Governments of the United States, England, New Zealand, Canada and European states promoted policies to support and encourage Social Innovation. The contemporary discourse, following the trend of the British school, considers Social Innovation in an unhistoric (it is entirely focused on the present) and uncritical way (it is a priori considered positively).

These attitudes, which strongly neglect the 19th and 20th century contributions, result in a liberal-progressive idea of a society that transforms itself without the need of either mediation, nor visions of change. That idea is also able to find new strategies to mediate the most impetuous and aggressive behaviors of liberal capitalism from a social point of view. This approach can be interesting only when it is embedded with an idea of transgression, conflict, and tension between constituted and constituent society. In this way, the Social Innovation loses its regulatory mono-function (in the relationship between systems of production - sharing and social organization) and can become a potentially radical transformation driver of the social system itself.


Introduzione

Una fragile ascesa

“Social innovation refers to new ideas that work in meeting social goals” (Mulgan, Tucker, Ali, Sanders, 2007).

E’ questa la definizione che negli ultimi anni ha superato confini territoriali, politici e disciplinari, fino a rendere la social innovation candidata di punta tra gli assi portanti per le strategie di crescita e di uscita dalla crisi economica in cui viviamo. Una definizione bellissima nella sua semplicità, ma altrettanto debole nella sua vaghezza. L’ambiguità stessa nell’uso della parola “social”, in una continua oscillazione tra la sua componente tecno-relazionale e un’altra che guarda all’essere umano in relazione alla sua comunità, pone dei seri problemi di analisi. Siamo di fronte ad una definizione nella quale possono rientrare centinaia di esperienze, alcune delle quali capaci di rompere gli schemi e le tradizioni per produrre invenzioni e altre portatrici di tratti deboli di innovazione di prodotto o processo. Una definizione nella quale gli stessi autori riscontrano le debolezze tipiche di un tema scarsamente studiato (Mulgan, 2006). Nonostante il crescente interesse da parte della politica, delle fondazioni, degli istituti di ricerca e delle università di tutto il mondo, non esiste una definizione condivisa e sono state prodotte poche reviews sistematiche delle definizioni in uso (Caulier-Grice, Davis, Patrick, Norman, 2012). Infine, il concetto di social innovation appare raramente un termine chiaro e specifico ed è spesso usato “come una sorta di metafora nell’ambito dei mutamenti sociali e tecnologici” (Howaldt, Schwarz, 2010).

La forza fragile del concetto di social innovation

Tale fragilità non è tanto legata al fenomeno in sé quanto piuttosto alla riflessione teorica che lo interessa, per almeno tre ordini di ragioni.

Innanzitutto, perché l’attitudine a generare innovazione sociale ha evidentemente trasceso la nostra capacità di definirla e misurarla. Si producevano innovazioni sociali molto prima di sentire il bisogno di concettualizzarle. Negli ultimi duecento anni le esperienze di innovazione sociale sono state moltissime e sono partite dalle periferie fino a diventare mainstream. La nascita dei sindacati e delle cooperative, la creazione di sistemi previdenziali a contrasto delle malattie e della povertà, la diffusione degli asili nido e delle scuole materne ed altre centinaia di esempi “hanno profondamente modificato il modo di rispondere ai bisogni sociali” (Mulgan, Tucker, Ali, Sanders, 2007).

In secondo luogo perché l’attenzione al tema da parte di importanti istituzioni - pubbliche e private - di ricerca e intervento ne comprova la rilevanza. L’evidente incapacità di rispondere a bisogni sociali emergenti ci spinge nella ricerca di nuove soluzioni. Se le esperienze del ZSI Zentrum für Soziale Innovation (Vienna) del 1990 o del CRISES Centre de recherche sur les innovations sociales (centro interuniversitario canadese) del 1986 possono essere considerate casi eccezionali, “la crescente importanza della social innovation si è riflessa con sempre maggiore forza nella nascita di nuovi centri dedicati alla promozione dell’innovazione sociale: Stanford University negli USA (2000), Toronto (2004), Londra (2005), Olanda (2006), Australia (2008)” (Howaldt, Schwarz, 2010).

In terzo luogo per la crescente attenzione prestata alle pratiche di promozione dell’innovazione sociale dalle più importanti istituzioni politiche mondiali. Il modello di sviluppo fino a qui adottato, carico della sua cieca fiducia nel progresso tecnico e nella globalizzazione, ha mostrato crepe evidenti nella capacità di rispondere ai bisogni sociali, amplificate da una crisi finanziaria ed economica che ha reso la creatività e l’innovazione in generale - e la social innovation in particolare - sempre più importanti nel perseguire uno sviluppo sostenibile, garantire occupazione e favorire la competizione. Al di fuori dell’Europa l’innovazione sociale ha avuto una forte legittimazione nelle politiche pubbliche in campo economico e sociale. “L’attenzione che l’Amministrazione Obama ha garantito al tema della social innovation fin dal suo primo insediamento e l’immediata creazione dell’Office of Social innovation and Civic Partecipation (2009) ha accelerato la diffusione del concetto e delle politiche pubbliche per favorirlo in Inghilterra, Europa, Scandinavia, Asia, Australia e Nuova Zelanda, così come nella maggior parte del mondo sviluppato” (Goldenberg, Kamoji, Orton, Williamson, 2009).

Concordando con Pol e Ville (Pol, Ville, 2009), queste tre ragioni sono sufficienti per rispondere a quanti avrebbero voluto abbandonare il concetto di social innovation tout-court, sostenendo che “aggiungerebbe poco o nulla al tema dell’innovazione in generale e che sarebbe un’idea troppo vaga per essere efficace”. Inoltre, nella sua capacità di diffondersi rapidamente, la nozione di social innovation ha un chiaro potere evocativo: riesce a immergerci nel campo dei bisogni sociali e delle strategie per farvi fronte. Infatti:

  • propone interventi e strumenti per rispondere alle necessità percepite come indispensabili per la sopravvivenza: salute, educazione, risorse etc.
  • afferma l’esistenza di una sfera sociale in continua tensione con quella economica e quella tecnologica. Lo fa con semplicità e immediatezza e in questo modo centra l’obiettivo di riportare l’uomo, la donna e i loro gruppi sociali all’interno del discorso sullo sviluppo (la libertà economica e il progresso tecnico devono confrontarsi con i bisogni sociali dell’umanità);
  • presta attenzione a quelle questioni che le istituzioni e le politiche esistenti hanno trovato impossibili da decifrare ed affrontare, come ad esempio il cambiamento climatico, le epidemie mondiali, le malattie croniche e le disuguaglianze crescenti;
  • opera laddove gli strumenti classici della politica di governo da un lato e le soluzioni di mercato dall’altro si sono rivelati inadeguati e in quegli ambiti in cui i fallimenti del mercato sono stati pagati dagli Stati e dalla società civile.

Come accaduto per molte trasformazioni tecnologiche e sociali, oggi “vi è un’evidente distanza tra le strutture e le istituzioni esistenti e ciò di cui abbiamo bisogno ora per affrontare questi cambiamenti” (Murray, Caulier-Grice, Mulgan, 2010); la social innovation si candida a ridurre proprio distanza. Anche se non ha problemi ad affermarsi come concetto mainstream delle politiche di sviluppo, la fragilità teorica del concetto di social innovation ha delle evidenti ripercussioni sulla dimensione delle esperienze, della ricerca e delle istituzioni. Sul piano delle esperienze, non permette di delineare una chiara distinzione tra quali fenomeni siano inquadrabili come social innovation e quali non lo siano o lo siano solo in parte. Sul piano della ricerca espone al rischio di rimbalzare disordinatamente da un’affannata ricerca concettuale ad una ricerca di esperienze e di singoli fenomeni da catalogare. Sul piano delle istituzioni, favoriamo un loro progressivo ritiro dalla sfera dei bisogni sociali senza aver prima capito che cosa ci aspetta e dimenticando come esse dovrebbero prima “infrastrutturare”una società in grado di produrre innovazione sociale.

Social innovation: un’idea nuova?

Nella crisi finanziaria ed economica che stiamo attraversando inizia ad affermarsi l’idea che la social innovation possa giocare un ruolo chiave nel determinare in che tipo di mondo vivranno i cittadini della prossima generazione. Riteniamo però, che per farlo, il concetto stesso di social innovation debba prima divenire un termine chiaro, capace di identificare un insieme preciso di storie, processi, organizzazioni e tensioni. Per questo è fondamentale l’ideazione di un concetto “definito” di social innovation, unica via per favorire un’effettiva diffusione di innovazioni sociali nella maggior parte degli ambiti della società, inclusi economia, educazione e politica (Howaldt, Schwarz, 2010). Questo processo diviene tanto più necessario visti i chiari indizi di un cambio di paradigma in atto nel campo dell’innovazione (Fagerberg, Mowery, Nelson, 2006) prodotti dall’avvento della new economy e soprattutto in seguito all’apertura del processo di innovazione alla società (FORA, 2010).

Seguendo la proposta di Borzaga e Bodini (Borzaga, Bodini, 2012), in questo paper non proponiamo la costruzione della “vera” definizione di social innovation, quanto piuttosto individuiamo una serie di caratteristiche di base che ogni processo di social innovation dovrebbe possedere al fine di creare i presupposti per favorire processi di sostegno consapevole nell’ambito della governance. Con questo lavoro tentiamo di costruire una griglia di attributi imprescindibili, a partire da un’ipotesi iniziale molto precisa: la volontà di favorire una rapida diffusione del concetto di social innovation, assieme al bisogno di affermarla come strumento di un sistema sociale compatibile con il liberalismo, hanno prodotto una grande semplificazione del suo significato, che è stato erroneamente astoricizzato.

A riprova di ciò, notiamo che le principali produzioni scientifiche sull’argomento trascurano completamente l’evoluzione storica del concetto di social innovation, o al massimo prestano scarsa. Si ripropone costantemente l’idea che il termine “social innovation” si sia diffuso solo in anni recenti (Pol, Ville, 2009); si enfatizzano la volontà e la necessità di effettuare una ricognizione del presente (Howaldt, Schwarz, 2010); ci si concentra sul mettere ordine alle definizioni correnti (Caulier-Grice, Davis, Patrick, Norman, 2012); si attribuisce grande enfasi agli innovatori sociali (Goldsmith, 2010) o alle innovazioni sociali (Murray, Caulier-Grice, Mulgan, 2010) del presente. Nessuno di questi autori nega esplicitamente l’esistenza di una concettualizzazione del termine “social innovation” precedente al loro lavoro; semplicemente la ignorano. Tutti trovano naturale presentare la social innovation come “un fenomeno di lunga tradizione, ancorato ai grandi processi di industrializzazione e urbanizzazione” (Mulgan, 2006). Quello che viene presentato, però, è sempre il fenomeno; non è mai la sua concettualizzazione ad avere una dimensione storica. Diventa quindi naturale pensare che il concetto di social innovation sia nato con questi autori e con le loro produzioni, e più precisamente nel Regno Unito nella metà degli anni ‘90. Non deve stupire, quindi, se The Economist inizia il suo articolo “Social innovation. Let’s hear those ideas” (12 agosto 2010) sostenendo che “i politici di entrambi i lati dell’Atlantico sono appassionati di un nuovo approccio per alleviare i problemi della società”.

Il discorso sulla social innovation ruota attorno all’idea di “nuovo”. Questa tensione verso il nuovo è talmente enfatizzata e così prolungata nel tempo (1995-2013) che diventa inevitabilmente “nuovismo”, un’esaltazione acritica del nuovo. Questa retorica del nuovo incrosta fortemente il concetto e soprattutto ne esclude aprioristicamente una sua possibile evoluzione storica parallela ai fenomeni di social innovation. Cosa ancora più grave, vanifica gli sforzi di riflessione teorica fin qui prodotti sui temi del cambiamento sociale, dell’innovazione e della relazione uomo-tecnologia. Ci obbliga a ripartire da zero, come se fino ad oggi nulla fosse stato discusso e prodotto. Ci obbliga a percorrere un cammino che in parte è già stato intrapreso e, lungo la strada, ci fa perdere importanti contributi e riflessioni già prodotte.

Riteniamo che l’astoricizzazione del concetto di social innovation sia alla base della sua fragilità teorica. Nel momento stesso in cui rendiamo la social innovation una ricetta del presente per affrontare le questioni cruciali del nostro tempo favoriamo il perseguimento di un obiettivo riduzionista: dedichiamo tutti i nostri sforzi a tentare di “ridurrene” la complessità a beneficio della decifrabilità e replicabilità del fenomeno; non è un caso che le discipline che si occupano maggiormente di social innovation siano la sociologia e il management. In questo modo, però, trascuriamo un asse di ricerca almeno altrettanto importante: quali sono le caratteristiche intrinseche che qualificano un fenomeno come social innovation? Questa è la linea guida che caratterizza il presente lavoro, a partire dalla storia del concetto di social innovation, dall’origine della sua fragilità.

In questo paper, che muove da spunti affini a quelli proposti da Borzaga e Bodini (Borzaga, Bodini, 2012) nel loro lavoro sulla “Pure Social Innovation”, intendiamo verificare se oltre alla storia del fenomeno esista anche una storia della sua concettualizzazione, più o meno matura, ed usarla per individuare le componenti indispensabili per definire un processo come social innovation. Vorremmo perciò ricostruire una “archeologia del sapere” e rimettere ordine tra quanto è stato prodotto, discusso e realizzato in termini di produzione accademica e istituzionale; con un approccio essenzialmente storiografico volto a ricostruire l’emergere e l’affermazione del tema sul piano concettuale e teorico. In una seconda parte analizziamo criticamente le concettualizzazioni proposte in questi anni. Nella terza parte ci concentriamo sul contributo della scuola britannica. Infine proponiamo una diversa definizione di social innovation, ripulita dalle incrostazioni del nuovismo, che incorpora alcune qualità intrinseche che la qualificano come tale.

Social innovation: la storia dimenticata

Partendo da Geoff Mulgan, che inquadra la social innovation come “un fenomeno di lunga tradizione, ancorato ai grandi processi di industrializzazione e urbanizzazione del XIX e XX secolo” (Mulgan, 2006), abbiamo cercato l’esistenza di testi scritti in cui comparisse il termine “social innovation” in una sua declinazione concettuale. Il prezioso lavoro di Benoit Godin (Godin, 2012) permette di rispondere con precisione al dubbio epistemologico che basa una parte importante di questo lavoro di ricerca: esiste una riflessione teorica sulla social innovation precedente al 1995?

Le prime apparizioni: 1800-1880

Questo excursus si fonda sul lavoro di William Lucas Sargant (1809-1889) e altri. In Social Innovators and Their Schemes (Sargant, 1858) Sargant presenta un’analisi critica della proposta sociale e politica di un gruppo di “social innovators”, una generazione a lui contemporanea portatrice di una forte tensione verso il benessere dei meno fortunati (povertà, soprusi, disoccupazione e malattie infantili spingono alla rivolta contro le ingiustizie). L’autore illustra i risultati conseguiti, i fallimenti, le storie e le peculiarità dei protagonisti: Saint Simon, Fourier, Luis Blanc, Proudhon ed Emile de Girardin. In questa sede non interessa tanto la posizione critica di Sargant nei confronti di questi innovatori sociali, quanto la sua chiara capacità di contestualizzarli nell’ambito della promozione del benessere sociale del maggior numero di persone possibili. Ed interessa ancora più la sua manifesta volontà di “indagare le circostanze in cui si sono sviluppate, il modo in cui sono state usate e i risultati che hanno prodotto le loro esperienze di social innovation”. Anche se concentrato principalmente sui social innovators, nella sua attenzione al contesto, ai processi e ai risultati rintracciamo molti tratti comuni ai testi più recenti di Mulgan (Mulgan, 2006) e altri (Murray, Caulier-Grice, Mulgan, 2010; Howaldt, Schwarz, 2010).

Il nesso tra transizione sociale e innovazione

Già nel 1858 Sargant si rende conto della naturale connessione tra social innovation e “periodi critici” in cui il malcontento, i cambiamenti sociali e la confusione sono sintomo di una transizione da un’organizzazione sociale ad un’altra. Sargant evidenzia inoltre come Saint Simon abbia colto l’intima connessione tra i grandi processi di trasformazione del XIX secolo e gli straordinari esempi di imprese sociali e innovazione.

Il lavoro di Sargant non è solo frutto di una particolare sensibilità di lettura del presente; la sua non è una riflessione isolata, il che fa presupporre che in quel periodo storico si inizino a diffondere delle categorie di analisi fino a prima sconosciute. È grazie a queste che Francois Pierre Guillaume Guizot si dimostra consapevole della necessità di un “forte desiderio di innovazione sociale per poter produrre una nuova idea di società” (Guizot, 1859). A vent’anni di distanza, nelle parole del reverendo Kaufmann (Kaufmann, 1879), questo bisogno entra nelle pratiche di innovatori sociali e riformatori. Per Kaufmann “quando il desiderio di cambiamento diventa forte tra le masse intervengono innovatori sociali e riformatori, per lo più uomini di rango e cultura elevati, che danno voce alle speranze e ai desideri della gente e così facendo favoriscono sconvolgimenti sociali che migliorano le condizioni di vita”.

La forte connessione tra trasformazioni sociali e innovazione sociale appare dunque centrale in questi autori; da questo punto di vista, le figure coinvolte in questa riflessione e il periodo storico in cui trova spazio non sono ininfluenti per comprenderne la portata.

Innovazione sociale e sovversione

Inghilterra e Francia: Prima Rivoluzione Industriale. L’accumulo di ricchezze in ambito agricolo (capitali e persone) e le invenzioni tecniche in ambito scientifico (dalla macchina a vapore alla fusione mediante carbon coke) fanno da volano alla trasformazione dei settori tessile e siderurgico. Questi fattori determinano un radicale cambiamento nei modi e nelle condizioni di produzione dei beni manifatturieri e in tutti i settori della vita economica e sociale:

  • la nascita delle fabbriche e la privatizzazione dei commons favoriscono un processo di urbanizzazione “periferico” totalmente deregolamentato;
  • i processi produttivi vengono standardizzati e non necessitano più di abilità artigianali ma di operai che svolgano parti di lavoro con ripetitività e fatica;
  • si potenziano le infrastrutture destinate ai trasporti, necessari per gli approvvigionamenti industriali, creando così gli strumenti che favoriscono le occasioni di mobilità delle individui;
  • la società si divide nettamente in due classi: i capitalisti proprietari delle fabbriche e i proletari lavoratori nelle stesse;
  • nascono le prime tensioni di gruppi di lavoratori verso le innovazioni tecniche, alle quali si oppongono in quanto concorrenziali alle loro specializzazioni: nasce il luddismo.

Questi stravolgimenti generano una serie di bisogni sociali nuovi inerenti salute, qualità del lavoro, luoghi di vita, relazioni sociali e potere. In ogni ambito si sviluppano delle proposte che sono di fatto innovative sul piano sociale e che cercano di porre rimedio alla “miseria degli operai, che non è parziale, ma universale; non limitata ai distretti industriali, ma estesa a quelli agricoli” (Marx, 1844). Nella maggior parte dei casi si tratta di esperienze isolate, che avranno bisogno di alcune decadi per radicarsi nella società.

In questo lasso di tempo si assiste ad una frattura evidente tra i bisogni emergenti e gli spazi e gli strumenti per soddisfarli. Ed è lì che si innesca il pensiero di alcuni filosofi, economisti, politici, imprenditori che propongono dei nuovi paradigmi di organizzazione sociale (Sargant, 1858). Sono tutti di origine alto borghese se non aristocratica; ricoprono ruoli e posizioni di alto livello nel sistema accademico, politico, produttivo, quando non hanno ruoli trasversali a più sistemi; hanno una particolare sensibilità verso i gruppi sociali che vivono in condizione di subalternità; riescono a scorgere fin da subito l’emergere di nuovi bisogni sociali; hanno una manifesta tensione verso la costruzione di un nuovo sistema di relazioni sociali e per farlo sono pronti a “sovvertire” i modelli esistenti. Sono portatori di alcune di quelle abilità che Fazzi e Fontana[1] chiamano “meta-competenze”: hanno la capacità di immaginare modi nuovi di organizzare la società, hanno competenze civiche, sanno interpretare i fenomeni sociali prima o mentre si inverano, sanno promuovere appartenenze. Sfruttano queste meta-competenze per sviluppare, con intenzionalità, la proposta di un nuovo modello sociale. Sono intenzionalmente sovversivi:

Social innovation is everywhere more or less allied with, and impelled by, the political and religious revolution which fills the civilised world; while the revolution in science has helped to excite the spirit of change in every sphere, little as Utopianism is akin to science (Smith, 1883).

La risposta che viene invece avanzata e praticata sul piano politico è di altra natura. Nasce dall’esigenza di far fronte al processo di sradicamento, impoverimento, perdita di autonomia e di capacità di sussistenza delle famiglie contadine espulse dalle campagne e alla necessità di integrarle, urbanizzarle, renderle disponibili al lavoro di fabbrica come forza lavoro. Si traduce in innovazioni sociali che sono da una parte concessioni necessarie per riconoscere il diritto alla sopravvivenza in assenza di mezzi propri di produzione alimentare e dall’altra uno strumento di integrazione dei nulla-tenti (ex commoners) nella nuova organizzazione sociale, al servizio della macchina tecno-industriale delle nazioni moderne. È chiarificatore l’esempio del Cancelliere tedesco Bismarck che per frenare l’ascesa socialista ricorse alla duplice arma della repressione delle avanguardie politiche e della concessione di riforme sociali sul fronte delle pensioni e delle assicurazioni contro le malattie e gli infortuni.

Una nuova (altra?) idea di social innovation: 1900-1960

Il discorso sulla social innovation non si esaurisce in quella prima fase “sovversiva” (1800-1880). È alla fine dell’800 e per tutto il ‘900 che il termine entra fortemente nelle teorie sociologiche, associato all’evoluzione tecnologia e al cambiamento sociale.

La Seconda Rivoluzione Industriale, con le veloci e profonde trasformazioni tecnologiche che la caratterizzano, produce un ulteriore e radicale impatto sui sistemi di organizzazione della produzione e della società: l’aumento della velocità delle trasformazioni, la rivoluzione nel sistema dei trasporti, i progressi nella medicina, l’ampliamento del sistema di comunicazione, il mutamento del rapporto tra agricoltura e industria, l’accelerazione dell’esodo dalle campagne verso le città e soprattutto le fabbriche, le trasmigrazioni continentali. Questi fenomeni generano una rivoluzione nel rapporto dell’uomo con il tempo (velocità) e lo spazio (distanza) che impattano fortemente sul sistema sociale (relazione). Inoltre la concentrazione dei capitali e della produzione (dal lato del capitale) e il pauperismo (dal lato del lavoro) sono i due fenomeni che emergono con maggiore evidenza: l’imprenditore indipendente e fortemente individualista della Prima Rivoluzione Industriale viene sostituito dalle grandi società per azioni e dai trusts tra queste; dall’altro lato, la povertà dilaga tra le classi operaie e contadine. Non si tratta solo di povertà economica, ma anche culturale e ambientale.

In questo contesto emerge un’attenzione sempre più forte al tema del cambiamento sociale e al suo rapporto con il cambiamento tecnologico.

La social innovation come fattore di cambiamento sociale

E’ il sociologo americano Lester F. Ward (Ward, 1903) ad introdurre il concetto di social innovation per elaborare una teoria sul cambiamento sociale di cui “l’innovazione”, appunto, è uno dei tre principi assieme alla “differenza di potenziale” e alla “volizione”. In Ward la social innovation è simile alla varianza in biologia e come questa “combina e ricombina in una serie senza fine di forme diverse”. Egli afferma che nel sociale, come nelle strutture organiche, la tendenza è quella di conservare e riprodurre, copiare e ripetere, crescere e moltiplicarsi, mantenendo sempre le stesse strutture. Ma nella società, come negli organismi, vi è un surplus di energia che deve essere rielaborato. Questo surplus, però, non è diffuso; si tratta di un prodotto eccezionale. In linea teorica tutta l’energia sociale, se equamente distribuita, potrebbe lasciare un piccolo surplus in ogni membro della società. Ma la realtà è differente: esistono un gran numero di individui nei quali il livello di energia sociale è basso e piccoli gruppi nei quali è sovrabbondante ed è da questo surplus che scaturisce l’innovazione sociale. Ward introduce anche il concetto di “social invention” in parallelo con quello di invenzione scientifica e ne separa le sfere d’azione: come l’invenzione scientifica è il risultato di forze fisiche, così l’invenzione sociale è il risultato delle forze sociali.

Pochi anni dopo William F. Ogburn riprende questi concetti e gli inserisce in un quadro di forte relazione con la questione tecnologica. Egli sostiene che l’invenzione sociale e quella tecnologica agiscano congiuntamente per generare il cambiamento sociale (Ogburn, Gilfillan, 1933). Non può essere dato per scontato che l’invenzione tecnologica sia la fonte di tutti i cambiamenti; ci sono invenzioni sociali, come ad esempio forme responsabili di governo, catene di negozi e lingue comuni che hanno avuto grandi effetti sulle abitudini di vita. Per Ogburn molte invenzioni sociali sono solo debolmente collegate con le invenzioni tecnologiche, altre invece sembrano derivare da esse, alcune invenzioni tecnologiche favoriscono invenzioni sociali, viceversa alcune invenzioni sociali stimolano le invenzioni tecnologiche. L’invenzione sociale e quella tecnologica dunque non sono solo due fattori che influenzano il cambiamento sociale, ma si influenzano, interagiscono e si alimentano vicendevolmente in una logica interazionale non subordinata.

Questo concetto viene ulteriormente rafforzato da Peter Drucker (Drucker, 1957) per il quale esistono due ambiti principali di innovazione: l’universo creato dalla natura e quello creato dalla società umana. L’innovazione tecnologica è il frutto di una maggiore comprensione della natura e la sua canalizzazione in nuove capacità di controllo, prevenzione e produzione. La social innovation è invece il frutto di una maggior comprensione dei bisogni e delle risorse sociali e lo sviluppo di strumenti per soddisfarli. In entrambi gli ambiti l’innovazione fornisce nuove capacità, rende la tecnologia open-ended e si permette di andare al di là di riforme e rivoluzioni nella società. Per Drucker l’impatto della social innovation è simile a quello dell’innovazione tecnologica: apre le organizzazioni sociali, rende possibile il salto organizzativo verso nuovi fini sociali e lo sviluppo organizzato di strumenti e istituzioni nuove, dà la possibilità di scegliere tra diversi modi possibili di perseguire dei fini sociali e tra diversi fini da raggiungere attraverso approcci, strumenti e istituzioni date.

Questa impostazione non può che riportare a tutto il filone del pensiero socio-tecnico, che coniuga cambiamento sociale e tecnologico e che, a partire dagli anni ‘50 trova la sua massima affermazione nell’approccio STS (Socio Technical System) per lo studio delle relazioni tra le persone e tecnologie in ambienti organizzati e delle interazioni tra strutture complesse della società e comportamento umano. Siamo a quarant’anni dall’affermazione del web, a quarantacinque dalla nascita dei blog e a più di cinquanta dalla registrazione di Facebook.com ma i temi di ricerca, analisi e progettazione che oggi ci appaiono centrali, nuovi e necessari sono già pilastri fondamentali nello studio del rapporto tra cambiamento sociale e tecnologico.

Innovazione tecnologica e innovazione sociale. Esiste una relazione?

La forte connessione tra innovazione tecnica e innovazione sociale appare centrale negli autori ricordati, arricchita da nuove conoscenze e consapevolezze. Queste riflessioni nascono negli Stati Uniti, il luogo in cui la Seconda Rivoluzione Industriale ha trovato la sua massima affermazione. Il processo di rivoluzione iniziato nel XVIII accelera prepotentemente nel secolo successivo e trova la sua piena affermazione. L’organizzazione sociale non risponde alla stragrande maggioranza dei bisogni sociali di salute, educazione, sicurezza, socialità. Si contrappongono, idealmente e fisicamente, modelli opposti di organizzazione sociale. Fascismo, Comunismo e Liberalismo si inverano in spazi e tempi del mondo, proponendo ognuno un diverso modo di costruire le relazioni sociali e di produzione. Su questo sfondo, i protagonisti del pensiero sulla social innovation non manifestano più una tensione intenzionalmente sovversiva. Sono tecnici, ricercatori, sociologi o consulenti aziendali che, con forte determinismo, propongono una lettura dei fenomeni sociali, ognuno con strumenti di analisi a lui più consoni. Fotografano la società, ne evidenziano i trend, ne descrivono le regole di funzionamento, e così facendo rinunciano alla possibilità di immaginare, inventare, creare. Prevale il bisogno di descrivere una realtà che è protagonista del mutamento.

Non è un caso, quindi, se da questo momento in poi tutto il discorso sull’innovazione presta attenzione quasi esclusivamente all’ambito scientifico e tecnologico. Si tratta di una scelta intenzionale che fonda le sue ragioni nel bisogno crescente di semplificare una realtà sempre più complessa attraverso misurazioni, catalogazioni, rappresentazioni e valutazioni, più semplici nel campo tecnico che in quello sociale e che iniziano ad investire l’ambito del management. Questa attenzione al presente, però, permette loro di inquadrare con grande precisione la coesistenza di “social innovation” e “technology innovation” e di intuirne un’interazione non gerarchica:

We need social innovation more than we need technological innovation. The new frontiers of this post-modem world are all frontiers of innovation. Neither reform nor revolution can solve these great problems; only genuine social innovation can do the job (Drucker, 1957).

La neutralità di scienza e tecnica

I tentativi di Ward di naturalizzare teorie e comportamenti sociali sono certamente discutibili. Tentano di attribuire legittimità scientifica a sistemi e ordinamenti sociali che di naturale hanno molto poco se non la tensione verso la produzione di profitto, l’accumulazione monetaria, la crescita esponenziale delle merci prodotte e consumate.

In Ogburn, però, ritroviamo la capacità di leggere l’emergere di nuovi bisogni sociali (la cura, l’istruzione, l’alloggio, ma anche la libertà di movimento, la possibilità di salire nella gerarchia sociale, ecc.) che spingono ad innovare le forme organizzative dello Stato, a creare nuove istituzioni specializzate, a sviluppare strumenti tecnologici appropriati in un tempo in cui la disponibilità di nuove energie (carbone, petrolio) e di ritrovati scientifici (medicine, fertilizzanti, ecc.) consentono grandi innovazioni nell’organizzazione delle relazioni sociali.

È in questo periodo storico, dal 1942 a tutto il dopoguerra, che si inizia ad affermare il modello di welfare contemporaneo. Il 1942 fu l’anno in cui, nel Regno Unito, la sicurezza sociale compì un decisivo passo avanti grazie al cosiddetto Rapporto Beveridge, stilato dall’economista William Beveridge, che introdusse e definì i concetti di sanità pubblica e pensione sociale per i cittadini, proposte che vennero attuate dal laburista Clement Attlee, divenuto Primo Ministro nel 1945.

In Drucker, infine, emerge - nei confronti dell’innovazione tecnologica e di quella sociale - un positivismo che la storia ha confutato: la tecnologia non è stata sempre capace di comprensione (pensiamo ad eventi come quelli del Vajont o di Fukushima) e si è dimostrata piuttosto abile a prelevare, manipolare e sfruttare gli stock e i flussi naturali (gli ecosistem service, intesi come risorse, giacimenti o discariche) per accrescere le capacità di controllo e produzione. Parimenti, la sfera del sociale non è stata sempre orientata da una valida comprensione di autentici bisogni, quanto dalla necessità di aumentare la produttività del sistema. Anche quella che Drucker chiama la “possibilità di scegliere” delle organizzazioni sociali sconta l’idea che all’interno di determinati rapporti sociali, di potere e di proprietà dei saperi ci siano le condizioni di liberà di scelta. Libertà che dal nostro punto di vista non è sempre garantita.

La debolezza di tutti e tre gli autori si riscontra nel tentativo di accreditare neutralità alla scienza e tecnica, come se queste non fossero governate, indirizzate a sviluppate entro determinati paradigmi di società: il nucleare o il solare, la motorizzazione privata o quella collettiva, il welfare state o quello di prossimità, la democrazia rappresentativa delegata o quella diretta…. e potremmo continuare a lungo. Dal nostro punto di vista, tutte queste sono tutte scelte e non eventi naturalmente prodotti.

La social innovation come driver naturale di crescita e sviluppo: 1995-2013

“Ogni epoca ha bisogno di un po’ di inventiva sociale. Ma ci sono motivi per ritenere che l’innovazione sociale sia particolarmente diffusa nel momento in cui le istituzioni esistenti mostrano segni di tensione e quando problemi di coesione sociale, disoccupazione, decadimento urbano e disoccupazione giovanile sembrano resistenti alla soluzioni classiche”. Parole dei giorni nostri? Potrebbero e sarebbero validissime, ma non lo sono; sono parole del 1995 (Mulgan, Landry, 1995). Raccontano di un’epoca che ha un disperato bisogno di creare, esplorare nuove soluzioni, favorire il cambiamento sociale, inventare. Nella quale però sembriamo scordare che non tutte le invenzioni sono tecnologiche: ci dimentichiamo che il XIX secolo - oltre al telefono e l’elettricità - ha inventato anche le pensioni statali e la libertà vigilata. Di conseguenza conosciamo molto sulle fonti delle innovazioni tecniche ed esistono centinaia di istituzioni e incentivi per sostenerle, ma riflettiamo molto meno sulle invenzioni sociali e su come possono essere sostenute.

Dal 1995 in poi parlare di social innovation significa soprattutto usare le parole di Geoff Mulgan e ritornare in Regno Unito a più di cento anni di distanza. Siamo nel bel mezzo della “fine della storia” (Fukuyama, 1992); crollato il muro di Berlino, la globalizzazione incoronata come nuova imperatrice, la finanziarizzazione dell’economia suo alfiere, nel pieno del primo World Wide Web, ci troviamo di fronte alla previsione di un lungo boom:

We’re facing 25 years of prosperity, freedom, and a better environment for the whole world. You got a problem with that? (Schwartz, Leyden, 1997)

Dalla Cool Britannia al mondo

Il mondo della politica è forse il primo soggetto che si trova spiazzato da questa radicale e profonda trasformazione del contesto globale. Con un solo sopravvissuto al conflitto tra proposte alternative di società - il liberalismo - la sinistra politica deve ripensare sé stessa e la sua visione del mondo. Lo fa a partire dal Regno Unito dove un giovane Tony Blair è da poco divenuto capo del Labour Party e ha iniziato la corsa per diventare Primo Ministro nel 1997 creando le basi della “Cool Britannia”. E’ in questo momento che Mulgan, Landry e altri costruiscono un pezzo importante della “terza via” del Labour. Caduto da poco il Muro di Berlino e usciti dai forti conflitti sociali del thatcherismo, i Labours progettano una nuova idea di società che attualizzi le idee politiche dei movimenti progressisti del centro-sinistra, mentre nel mondo è in piena ascesa il neoliberismo della nuova destra (Lewis, Surender, 2004). Quella che cercano è un’alternativa tra le politiche economiche di stampo liberale e quelle sociali della sinistra, ispirate al socialismo (Bobbio, Cameron, 1997).

Nell’ambito della produzione e distribuzione del welfare e dei beni comuni, questo tentativo di mediazione si traduce in un’attenzione allo spazio in cui lo Stato e i privati, soprattutto nonprofit, contribuiscono alla generazione di valore sociale. Non si tratta di una proposta scontata. In pieno boom economico, il discorso sull’innovazione è totalmente concentrato sulle innovazioni tecniche, che vengono presentate come l’unica speranza di sviluppo sociale. Le innovazioni non tecniche e sociali, malgrado esistano e ampliamente, sono largamente ignorate (Gillwald cit. in: Howaldt, Schwarz, 2010). Per Mulgan e gli altri anche l’essere umano, con le sue relazioni e socialità, deve trovare posto all’interno della riflessione sullo sviluppo. Questa idea si fa strada in larga parte del mondo liberal: Obama e Barroso nel 2009, Cameron nel 2010. Da questo momento in poi il concetto di social innovation vive un’ascesa inarrestabile, favorita anche da una crisi economica che ha messo a nudo alcune debolezze del sistema neo-liberista che negli ultimi quindici anni ha determinato le scelte dei principali governi mondiali. Il termine “social innovation” comincia ad apparire in documenti ufficiali di enti governativi e organizzazioni private.

La sua affermazione in molti ambiti, dal tecnologico al sociale passando per il politico, dallo sviluppo urbano ai movimenti sociali passando per lo sviluppo delle comunità, rende la social innovation un topic particolarmente attraente per i ricercatori e le istituzioni di tutto il mondo. Il Centre for Social Innovation di Stanford, il Tilburg Social Innovation Lab olandese, il Skoll Centre for Social Entrepreneurship di Oxford, l’Ash Center for Democratic Governance and Innovation dell’Harvard Kennedy School, il Cergas Lab dell’Università Bocconi, il “Social Entrepreneurship Program” della Berkeley University, il “Programme for Sustainability Leadership” della Cambridge University, il Princeton’s Keller Center di Chicago dimostrano la grande attenzione che il mondo accademico ed universitario sta riservando al tema della social innovation. Euclid Network, Social Innovation Exchange, The Young Foundation, Australian Centre for Social Innovation, Centre for Social Innovation (Canada), Ashoka, Centre for Social Impact (Sydney), Polsky Center for Entrepreneurship and Innovation (Chicago) ed Euricse (Italy) sono alcuni dei più importanti network e fondazioni attivi a livello mondiale per supportare la ricerca e l’applicazione in materia di social innovation. In tutto il mondo, infine, sono migliaia le gare, i concorsi, i premi, le residenze, i programmi intensivi e i corsi dedicati a valorizzare esperienze concrete di innovazione sociale e a supportare gli innovatori nello sviluppo delle loro idee. Solo in Italia se ne contano decine, diversi tra loro ma accomunati dall’enfasi attribuita all’innovazione sostenibile e all’impatto sociale.

Una lettura attenta delle presentazioni e delle iniziative prodotte nell’ambito accademico ci raccontano un discorso sulla social innovation che viene portato avanti proprio dai dipartimenti di management delle più importanti università del mondo, che iniziano un lavoro sul duplice fronte dell’organizzazione aziendale, soprattutto nel nonprofit, e dell’action-research di imprese come casi studio.

Definizioni e processi di social innovation

Un’analisi dei progetti, delle iniziative e delle mission delle organizzazioni private attive a livello mondiale, invece, raccontano una storia di innovazioni sociali e di innovatori sociali capaci di modificare il modo con cui beni e servizi sociali vengono prodotti e scambiati. Per tutti loro la “social innovation cerca nuove risposte ai bisogni sociali attraverso l’identificazione e lo sviluppo di nuovi servizi che migliorino la qualità della vita degli individui e delle comunità; l’identificazione e lo sviluppo di nuovi processi di integrazione del mercato del lavoro, nuove competenze, nuovi lavori e nuove forme di partecipazione come elementi che possono rafforzare la posizione individuale dei lavoratori” (FORA, 2010).

Sulla stessa lunghezza d’onda l’European Policy Centre definisce l’innovazione sostenibile in ambito tecnologico, economico, sociale e politico come asse di sviluppo della strategia Europa 2020. In particolare si riferisce all’innovazione sociale come insieme di “nuove idee (prodotti, servizi e modelli) che incontrano i bisogni sociali in modo diverso da quello esistente e, allo stesso tempo, creano nuove relazioni sociali e collaborazioni”. Definizione che riprende e approfondisce quanto proposto da Mulgan (Mulgan, 2006) nello sviluppo concettuale di quella che diverrà poi la base teorica della Big Society inglese di Cameron.

In questi anni la letteratura sull’argomento si concentra sulle definizioni di social innovation, rimarcando come non ne esista una condivisa e anzi si riscontri un uso del termine per indicare al contempo il cambiamento istituzionale, il fine sociale, il bene comune (Pol, Ville, 2009), un modello organizzativo, gli imprenditori sociali, nuovi prodotti e servizi, un modello di governance, empowerment e capacitazione (Caulier-Grice, Davis, Patrick, Norman, 2012). Un altro asse di ricerca investe l’analisi dei processi attraverso cui la social innovation si manifesta (Mulgan, 2006), descrivendo una spirale di imbeccata, proposte, prototipazione, sostegno, dimensionamento e diffusione, cambiamento del sistema (Caulier-Grice, Davis, Patrick, Norman, 2012) ed analizzando centinaia di esempi di innovazione sociale prodotti nel mondo contemporaneo (Murray, Caulier-Grice, Mulgan, 2010). Rimangono prevalenti le riflessioni del mondo anglosassone (inglese, americana, australiana) e solo residualmente italiane e spagnole. Tutti territori in cui un mondo liberal e socialmente responsabile ha trovato spazi e occasioni di governo.

Si osserva un uso plurimo del termine social innovation. Dalla review condotta Caulier-Grice e colleghi (Caulier-Grice, Davis, Patrick, Norman, 2012) emerge come il termine sia usato per descrivere:

  • il cambiamento sociale e il ruolo della società civile;
  • l’attenzione (nuova nel nonprofit) al management;
  • l’enfasi attribuita al mondo degli imprenditori;
  • l’implementazione di nuovi artefatti che soddisfano i bisogni sociali;
  • l’interazione tra i diversi attori del contesto sociale.

La social innovation diventa così un termine ombrello onnicomprensivo che secondo Euricse (Euricse 2011) “intercetta contemporaneamente le soluzioni di welfare, l’empowerment dei cittadini e l’uso sociale delle innovazioni” (tecnologiche).

Le caratteristiche della social innovation secondo la scuola britannica

Dalla lettura di questo insieme di produzioni, sulle quali ci soffermiao ulteriormente dato il proliferare di documenti, siti web e ricerche che le presentano, emergono almeno cinque caratteristiche di social innovation, le prime due strutturali.

A-storicità

E’ palese l’astoricità con cui il concetto di social innovation viene trattato. Non ritorniamo qui sul come e quanto gli autori contemporanei abbiano reso astorico il concetto. Un intervento di Carlo Borzaga su Vita (14 gennaio 2011, “Il modello italiano che fa invidia a Cameron”) conferma ques’analisi: “due le ragioni positive per approcciare almeno con sano realismo le proposte d’Oltremanica: la prima perché l’Italia ha già sviluppato, assai prima degli Inglesi, proprie forme di imprenditorialità sociale ampiamente studiate da economisti e sociologi di quei Paesi, e la seconda perché ha fatto di queste nuove forme imprenditoriali un soggetto non semplicemente sostitutivo dell’intervento pubblico, come nella proposta di Cameron, ma nella maggior parte dei casi aggiuntivo”. L’astoricità dell’elaborazione anglosassone, quindi, non è solo verticale ma anche orizzontale; non riguarda solo la storia ma anche i territori. Ancora più rilevante l’implicazione che questo atteggiamento genera: se il significato è del tutto ancorato al presente, allora ha come orizzonte di senso obbligato il paradigma del capitalismo liberale, unica proposta di società sopravvissuta ai contrasti novecenteschi.

A-criticità

Quello che appare altrettanto evidente è un uso acritico della definizione. Come ci fanno notare Segercrantz e Seeck (Segercrantz, Seeck, 2013) “la ricerca nel campo dell’innovazione è aumentata in modo significativo, in particolare nel corso degli ultimi due decenni (Fagerberg, 2006), mentre pochissima attenzione è stata dedicata ai suoi effetti negativi o indesiderati (Rogers, 1983; Sveiby, Gripenberg, Segercrantz, 2012)”. I principali studi presentano l’innovazione in termini positivi e la cosiddetta “polarizzazione pro-innovazione” ha contribuito ad una negligenza sull’analisi degli effetti indesiderati dell’innovazione (Sveiby, Gripenberg, Segercrantz, 2012). Essa non è analizzata in se stessa ma in quanto soluzione. Anche sul fronte della social innovation ritroviamo lo stesso atteggiamento, solo con alcuni anni di ritardo (Segercrantz, Seeck 2013). L’innovazione (sociale) in quanto tale sembra essere per sua stessa natura positiva. Non se analizzano mai eventuali impatti negativi. L’innovazione alla base della nostra società è sorretta da un’ideologia precisa che è la stessa che regge l’intero framework economico-politico. Il discorso politico attuale è concentrato su un’idea di crescita e lavoro, e la crescita, in generale, è misurata rispetto al PIL, a cui si chiede di crescere ogni anno con una certa velocità. L’innovazione interviene a garanzia di questa crescita ed è quindi pilastro della società. Anche i tentativi di Pol e Ville (Pol, Ville, 2009) di introdurre una definizione che incorpori il “miglioramento della qualità o della quantità della vita umana” pone degli evidenti limiti di inquadramento. Ancora oggi, malgrado i proclami della gran parte delle istituzioni che veicolano il concetto di social innovation, siamo estremamente deboli di fronte ai sistemi di misurazione degli impatti delle esperienze di innovazione sociale e quindi ci chiediamo, come fa Alberto Cottica, “ha senso valutarne gli effetti in termini della società che deve essere cambiata?”. Anche in questo caso, l’implicazione è più importante della caratteristica: se l’innovazione è naturalmente positiva non ha alcun senso porsi il problema del movente e della direzione di questa.

Tecnocentrica

Nell’analisi sulla social innovation scompare ogni riferimento alla dimensione tecnologica, che diventa “naturalmente” un pezzo determinante del discorso grazie alla grande enfasi attribuita ai social network e agli strumenti informatici in generale. Come ci ricordano ancora una volta Caulier-Grice e colleghi (Caulier-Grice, Davis, Patrick, Norman, 2012), alcuni definiscono la social innovation come un tipo di innovazione in senso più ampio. Hamalainen e Heiskala (Hamalainen, Heiskala, 2007) delineano cinque tipi di innovazione: tecnologica, economica, regolativa, normativa e culturale: “Le innovazioni tecnologiche sono modi nuovi e più efficienti per trasformare la realtà materiale, mentre le innovazioni economiche mettono le innovazioni tecnologiche al servizio della produzione di plusvalore. Nel loro insieme queste due tipologie di innovazione costituiscono la sfera delle innovazioni tecno-economiche [...] Le innovazioni regolative trasformano le norme esplicite e/o i modi con cui vengono sanzionate. Le innovazioni normative sfidano i valori affermati e/o il modo in cui i valori vengono tradotti in norme sociali legittime. Infine, le innovazioni culturali sfidano i modi affermati per interpretare la realtà, trasformando paradigmi mentali, cornici cognitive e abitudini interpretative. Nel loro insieme queste tre classi costituiscono la sfera delle innovazioni sociali”. La questione tecnologica non scompare perché perde rilevanza - nel campo della ricerca le differenti tipologie di innovazione restano tutte ben delineate; scompare perché è talmente costitutiva nella nostra società che ne diviene un pilastro fondamentale da cui tutto il resto consegue, entrando in relazione gerarchica con le altre forme di innovazione.

Focalizzata sui processi

La gran parte delle riflessioni proposte, soprattutto negli anni più recenti, si concentrano sull’analisi del processo di social innovation. È come se gli autori citati stessero sostenendo che, definite la bontà intrinseca dell’innovazione e il suo significato, non ci restasse che studiare come si propone per poter così costruire degli strumenti che ne favoriscano la diffusione e ne massimizzino gli impatti. Come sostiene in una recente intervista del 2013 Glen Mehn di Nesta “c’è bisogno di trovare nuovi strumenti in grado di affrontare le necessità di una società che cambia e questo non può avvenire senza innovare il nostro sistema economico. L’approccio sociale all’innovazione ormai non riguarda solo il nonprofit, è qualcosa di sempre più mainstream”. Questo atteggiamento produce due effetti tra loro solo parzialmente connessi: da un lato affida a piene mani la riflessione sulla social innovation all’“arte” del management, dall’altro mette in secondo piano il “movente ideale che caratterizza le organizzazioni sociali” (Zamagni, Zamagni, 2008). Insieme, questi due fenomeni radicano ancora di più la social innovation dentro il contemporaneo sistema di relazioni di stampo liberale.

Brand

La social innovation, inquadrata sia come fenomeno che come obiettivo, circola in un ambiente politico culturale ben individuabile e che ha naturali obiettivi di “persuasione”: il mondo liberal, inglese inizialmente, più o meno di sinistra in funzione dei territori e della genesi storica delle loro tradizionali formazioni politiche. Studiando l’interessante “Analisi dell’Innovazione Sociale sulla stampa generalista ed economica negli Stati Uniti, in Europa e in Italia” (Euricse, 2011) risulta evidente una coerenza tra le testate che trattano l’argomento e l’enfasi che allo stesso viene attribuita. Il già citato articolo di The Economist “Social innovation. Let’s hear those ideas” rintraccia i primi passi del concetto nelle modalità d’interazione fra pubblico e privato. Sul Financial Times, John Lloyd in un articolo dal titolo “A social vision for the world after socialism” (Lloyd, 2010) sostiene che “non è più possibile porsi come obiettivo il solo vantaggio personale”. La social innovation è presentata come strumento per cambiare il modello produttivo in senso sociale da El Paìs (González Laxe, 2010). Un articolo del New York Times (Swarns, 2009) enfatizza l’entusiasmo con cui il nonprofit ha accolto l’istituzione dell’Office of Social innovation and Civic Partecipation. El Mundo racconta l’attenzione a tutta la popolazione da parte del movimento spagnolo degli indignados (2011, “Más que una acampada”). Anche Six, Neesta, Ashoka, Euclid Network e The Young Fondation, con le loro fortissime interconnessioni reticolari, rappresentano quel mondo dell’impresa sociale che, in un’ottica liberal, ha accettato la sfida del mercato proponendosi come fornitore di servizi e beni ad alto contenuto valoriale. La limitatezza del circuito promotore del concetto di social innovation, però, non ha impedito la sua rapida diffusione attraverso reti sociali e policy makers molto influenti che sono riusciti a costruire attorno al concetto un brand potente.

Una diversa definizione di social innovation... se serve

Dopo questo lungo viaggio nella storia, abbiamo recuperato un set di strumenti culturali e conoscitivi che ci permettono di affrontare un’analisi critica del concetto di social innovation e di leggere luci ed ombre nelle sue modalità di diffusione. Le luci sono molte:

  • Ha l’incontestabile merito di aver riportato la dimensione del sociale nel discorso pubblico più diffuso e così facendo ha rimesso i bisogni sociali collettivi in una posizione privilegiata nel paradigma di sviluppo.
  • È riuscita a connettere e orientare in un unico spazio culturale e valoriale il mondo accademico, quello dell’impresa e quello delle istituzioni, diventando il veicolo condiviso di importanti istituti di governance.
  • Nell’arco di pochissimi anni ha avuto la forza di sostenere la nascita di infrastrutture materiali e immateriali al servizio delle organizzazioni sociali ad alto tasso di innovazione sociale.
  • Ha ricostruito un patrimonio di esperienze, personalità e saperi che possono orientare con forza la produzione di beni e servizi ad elevato contenuto sociale.
  • Ha valorizzato l’importanza, l’efficacia e l’efficienza di strategie, tecniche e processi capaci di garantire il soddisfacimento di bisogni sociali emergenti.

Anche a fronte di una dura critica, queste qualità e potenzialità non possono essere banalizzate o trascurate: affermano l’innegabile capacità di proporre un’idea di società con tratti e peculiarità certamente diverse da quelle imperanti nel modello neo-liberista, portando alla ribalta un’idea diversa di sviluppo.

Saltano però agli occhi alcune ombre. La questione, infatti, è legata a quali idee il termine social innovation abbia portato in evidenza: un “capitalismo dal volto umano”, una critica al liberalismo, all’economicismo dilagante, alla mercificazione della nostra esistenza, in nome della riscoperta dei luoghi del nostro vivere quotidiano e della necessità di spostare l’accento dallo sviluppo generico allo sviluppo locale e ai suoi attori (Becattini, 2004).

Su questo fronte è rilevante l’ultimo libro di Mulgan The Locust and the Bee. Predators and Creators in Capitalism’s Future (Mulgan, 2013). Per l’autore il capitalismo è un “vasto sistema in moto perpetuo che spinge e tira”, che trae la sua forza dalla capacità di adattarsi, colonizzare e rigenerare. Racconta un mondo in cui le cavallette predatori rapaci devono cedere il passo alle api operose e creatrici, simbolo del lato migliore del capitalismo[2]. Il messaggio di Mulgan è che il capitalismo deve e può essere civilizzato perché gli obiettivi della società non si valutano solo in moneta, ma per la loro capacità di sostenere vite piene, ricche di relazioni, di appagamento e di affetti. Secondo l’autore questo non è soltanto idealismo: “Assistiamo al nascere di un’economia fondata più sulle relazioni che sui beni di scambio, sul fare più che sull’avere, sul mantenere più che sul produrre” (si veda anche : Lloyd, 2013). E qui rintracciamo quella mediazione che il Labour inglese aveva iniziato a cercare nel 1995. Una mediazione che colloca il discorso sulla social innovation dentro il paradigma liberale di sviluppo e la ricerca di soluzioni concrete per realizzarne una versione “umanizzata”. Diviene allora chiaro quel bisogno di astoricità che ha messo in ombra la storia del concetto di social innovation; collocato in un altro spazio-tempo non avrebbe condotto ai medesimi risultati, in questo contesto, invece, assume la potenza di un brand capace di orientare le policy mondiali.

Abbiamo la netta sensazione che al fondo di questa visione ci sia un’idea di società che si auto-trasforma senza bisogno né di mediazioni, né di prospettive di cambiamento. Questa impostazione può essere interessante, a nostro avviso, solo se innestata con un’idea di conflitto, di tensione tra società istituita e società istituente (Castoriadis, 1975), se abbiamo il coraggio di “riconoscere alle origini delle istituzioni sociali o della società istituita la stessa società istituente” (che significa, per Castoriadis, riconoscere che ogni società è autonoma, all’origine delle proprie istituzioni). Se essa stessa crea le proprie istituzioni, allora queste ultime non potranno mai essere considerate come “date” una volta per tutte, immodificabili, imperiture: anzi, esse si presteranno a perpetua riconsiderazione e alterazione[3]. Questo tema, che emerge in modo carsico in seno ad alcune riflessioni del mondo della Pubblica Amministrazione[4] e degli startupper[5], viene trascurato dalla letteratura di settore.

Non troviamo nulla di sbagliato in questa concettualizzazione della social innovation e nella sua chiara vocazione persuasiva. È coerente in relazione agli obiettivi, efficace rispetto al sistema di valori, efficiente rispetto alla sua propagazione. Quello che non troviamo corretto è inquadrarla come “la” definizione di Social innovation, a prescindere dalle sue varianti più o meno complesse; crediamo sia più efficace assumerla come “una” definizione di social innovation. E come tale è possibile tentare di costruirne almeno un’altra.

Per farlo capovolgiamo le due caratteristiche che abbiamo definito strutturali. L’astoricità diventa storicità e come tale recupera la possibilità di un orizzonte di senso che può trascende il paradigma del capitalismo liberale. Così facendo restituiamo agli innovatori sociali la possibilità di costruire un mondo diverso, regolato da norme e comportamenti differenti, di ritornare ad avere il potere di rinnovare radicalmente il loro ambiente sociale, di essere sovversivi. L’acriticità diventa critica e restituisce il diritto/dovere di assumere una tensione, un obiettivo di parte, che come tale può essere letto dagli altri come giusto o come sbagliato. In questo modo restituiamo agli innovatori sociali la possibilità di scegliere quale mondo provare a costruire, di usare la creatività per progettare nuove regole sociali.

Ecco che allora una definizione possibile di social innovation diventa:

“Social innovation refers to new ideas that work in a more effective way in meeting social goals with the aim of trasgressing social rules according to a vision of a different social system”.

Una differenza minima, poche parole, ma che permette di inserire in questo quadro teorico tutta una nuova riflessione sulle caratteristiche intrinseche della social innovation che impatta sui protagonisti, sui processi di diffusione e sui risultati; di renderla un luogo di confronto tra idee diverse di società e un driver potente per creare nuovi scenari e immaginari collettivi.

Seguendo la proposta di analisi comparata delle definizioni correnti di social innovation di Andrea Bassi (Bassi, 2011), notiamo che questa nuova definizione rispetta il criterio di completezza da lui proposto. Analizzando tre differenti definizioni (Tabella 1), Bassi mette in luce come solo la prima sia completa ed inclusiva; considera la seconda tautologica perché contiene al suo interno le stesse parole che la compongono, riconosce nella terza la capacità di integrare e completare la prima introducendo il concetto di creazione di valore ma la critica per un’impostazione ideologica troppo rigida.

Tabella 1: Proposta di analisi comparata delle definizioni correnti di social innovation, Andrea Bassi (Bassi, 2011).

Questa modalità di analisi è interessante in quanto propone una scomposizione delle definizioni in fattori comparabili, che mettono in evidenza la scarsa attenzione alla tensione ideale o valoriale data dalle definizioni mainstream di Mulgan e altri.

Utilizzando la griglia analitica di Bassi, questa nuova definizione si caratterizza per una completezza paragonabile alla definizione di Westley e Antadze (Westley, Antadze, 2010), ma a differenza di quella mantiene una semplicità estetica che la rende semplice e divulgabile tanto quanto la definizione di Mulgan. Il valore aggiunto che questa definizione genera, dal nostro punto di vista, è una tensione non ideologica verso i temi della trasgressione e della visione quali pilastri fondamentali dei processi di innovazione sociale. Da un lato la trasgressione, che recupera tutto il tema del conflitto rispetto all’esistente, e dall’altro la capacità di saper costruire una visione altrettanto trasgressiva nella sua capacità di trascendere il presente.

Non si tratta, quindi, di proporre un tipo specifico di social innovation intesa secondo la definizione schumpeteriana di “distruzione creativa” (Schumpeter, 1911), quanto piuttosto di restituire al mondo dell’innovazione sociale e ai suoi artefici il diritto di immaginare, progettare e costruire un mondo diverso, fin dalle sue fondamenta; l’entusiasmo per oltrepassare “la fine della storia” e iniziarne una nuova. E a noi, se è vero che la social innovation è un asse portante per reagire alla crisi di sistema in cui viviamo, è questa nuova storia che dovrebbe interessare!

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Sveiby K.E., Gripenberg P., Segercrantz B. (a cura di) (2102), Challenging the Innovation Paradigm, Routledge, London and New York.

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Zamagni S., Zamagni V. (2008), La cooperazione, Il Mulino, Bologna.

 

Footnotes

  1. ^ Luca Fazzi e Paolo Fontana illustrano il concetto di “meta-competenza” all’interno della sessione da loro coordinata “Think outside the box: apprendimento strategico e innovazione nelle imprese sociali” in occasione nell’XI edizione del Workshop sull’Impresa Sociale, 12-13 Settembre 2013, Riva del Garda (Trento).
  2. ^ Si vedano le recensione di Yvonne Roberts su The Guardian del 4 maggio 2013 “Progressive capitalism by David Sainsbury. The Locust and the Bee by Geoff Mulgan”.
  3. ^ Si veda il pezzo del 2007 di Attilio Mangano su vulgo.org. “L’immaginario sociale e la creatività dell’uomo in Castoriadis”.
  4. ^ Chiara Buongiovanni su ForumPA.it, nel 2012, “Innovatore sociale a chi?”.
  5. ^ Intervista a Michele Vianello del 2013 sul we4italy.it “Se volete innovare dovete disubbidire”.
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