Abstract
La riforma del D.Lgs. N. 155/2006, a fronte di un’obiettiva difficoltà dell’impresa sociale a svilupparsi pienamente, costituisce una necessità assoluta e non più procrastinabile. In particolare diventa fondamentale ripensare alla forma giuridica di questo istituto che non può oscillare fra i modelli associativi e societari più disparati. Di qui l’utilità di una scelta “secca” a favore della Srl in forma semplificata, scelta che tanto più si impone alla luce delle novità legislative che hanno investito questa figura, con la possibilità di costituzione a costo zero. Ovviamente l’adozione della forma Srl comporta un intervento modificativo del modello di base, in particolare sulla governance - con una maggiore attenzione ai profili partecipativi - sulla distribuzione degli utili e sulla destinazione degli avanzi, ferma restando la necessità di poter “approfittare” delle recenti regole agevolative. Ulteriori elementi di attenzione devono poi riguardare l’inclusione lavorativa dei soggetti svantaggiati, l’allargamento dell’oggetto sociale al micro-credito (sulla scia di quanto previsto per le cooperative), la leva fiscale.
Since the social enterprise found it difficult to fully develop, a reform of Italian law n.155/2006 is now needed and unprocrastinable. In particular it is fundamental to review the juridical form of this entity, which can no longer fluctuate between different associative and societal models. Therefore, it is crucial to opt for the simplified form of LTD. This choice is so much needed due to the legislative changes that influenced the possibility to institute an LTD without any additional cost. Clearly the adoption of a simplified LTD requires some changes to the original model, especially on the governance level, by paying more attention to the participatory profiles, to share redistribution and to the target of surplus, keeping in mind that it is always possible to take advantage of recent incentives. Other important elements are: the participation of disadvantaged individuals in the labour market, the inclusion of microcredit in the social objective (on the wake of what took place in the cooperative sector), and the fiscal leverage.
Tempo fa, commentando la nascita dell’impresa sociale con il D.Lgs. n. 155/2006 (Bonfante, 2005), sottolineavo come il provvedimento, certamente di grande importanza sul terreno istituzionale, presentasse non poche ombre che avrebbero potuto frenarne il successo. Fra di esse mettevo in evidenza la difficoltà di rendere in ogni caso compatibile la struttura lucrativa di alcune società con le finalità del nuovo istituto e l’inadeguatezza della leva fiscale. Sia pure con le inevitabili approssimazioni dei giudizi espressi a “caldo”, a giudicare dalla difficoltà dell’impresa sociale a conoscere un suo pieno sviluppo, non credo di essermi sbagliato di molto. L’impresa sociale stenta a decollare non solo, fra l’altro, per la “concorrenza” delle cooperative sociali e per l’inadeguatezza della leva fiscale, ma anche per le “ruggini” che provengono da una forma giuridica e da una governance non pienamente adeguate alle finalità dell’istituto; per non dire degli spazi operativi che potrebbero avere confini più ampi di quelli riconosciuti.
A fronte di tali problematiche che hanno frenato il decollo dell’istituto, occorre dire che forse è questo il momento più propizio per rilanciare l’impresa sociale, per una serie di ragioni.
In termini molto generali va innanzitutto segnalato il progressivo “sdoganamento” dell’impresa da logiche meramente capitalistiche e speculative, vissute - per lo più nel mondo dell’economia civile - in termini valoriali sostanzialmente negativi. E’ quanto si registra in tutta Europa e in particolare in Spagna, Francia, Belgio, Germania, e ora anche in Italia, attraverso la valorizzazione dell’impresa come fattore di introduzione dei giovani nel mondo del lavoro, ma altresì come mezzo di innovazione non solo sul terreno tecnologico, ma anche sociale. Alludo in particolare a quelle leggi che hanno introdotto la Srl semplificata in Europa a costo zero o quasi, in una prospettiva di progressiva imprenditorializzazione della società in cui è sotteso un tentativo di parziale “scivolamento” del modello occupazionale dal posto fisso fino a quello dell’essere imprenditore. Si cerca di allontanare questa figura da logiche “padronali”, per accreditarla quale strumento occupazionale - direbbero i giuristi di lavoro autonomo - in un contesto di sforzo innovativo sul piano tecnico e sociale. E’ “lavoro” non solo quello del dipendente - vorrebbe dire il legislatore - ma anche quello dell’imprenditore in un contesto in cui il capitale (rectius, il capitalista) ha un rilievo del tutto marginale.
Sullo sfondo di questa scelta europea, che per certi versi potrebbe avere risvolti epocali, sono altresì maturate, avvitandosi su di essa, le cosiddette start up innovative, dove l’innovazione è stata riconosciuta anche sul terreno propriamente sociale (Fregonara, 2013).
Esiste infine un’ultima ragione, se vogliamo di minor rilievo, ma che può “aiutare” lo sviluppo dell’impresa sociale: un possibile ridimensionamento dell’operare della cooperativa. Questa infatti, ancorché rappresenti una delle forme utilizzabili per le start up innovative, dovrà comunque fare i conti con la Srl semplificata dai costi certamente minori; e dovrà prima o poi tener presente anche gli ammonimenti della Corte di Giustizia Europea, che ha individuato nella gestione di servizi al socio - e non nella mutualità esterna - il vero DNA della cooperativa, soprattutto in funzione della percezione delle agevolazioni fiscali.
E’ dunque sullo sfondo di queste “ragioni” che deve partire il ripensamento dell’impresa sociale facendo tesoro, in particolare, delle novità introdotte in tema di imprese innovative dal d.l. n. 179/2012 (Decreto Legge 18 ottobre 2012, n. 179 recante “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”), che all’art. 25 comma 4 ha previsto l’innovazione anche in campo sociale, in relazione alle cosiddette start up a “vocazione sociale” operanti in via esclusiva nei settori indicanti dal D.Lgs. N. 155/2006. Il che ha significato di fatto la creazione di un modello aggiuntivo che si affianca a quello tradizionale di cui al DLgs n. 155/2006, qualora sussistano le condizioni statuite dal d.l. n. 179/2012 per le cosiddette start up innovative (Fregonara, 2003 - p. 41). La normativa è stata successivamente modificata dal d.l. n. 76/2013 in vigore dal 28 giugno 2013.
La norma impone che le start up innovative possiedano almeno uno fra i seguenti requisiti:
- sostenere spese in ricerca e sviluppo in misura pari o superiore al 20% del maggiore importo tra il costo e il valore della produzione (percentuale ridotta al 15% con d.l. n. 76/2013);
- impiegare personale altamente qualificato per almeno 1/3 della propria forza lavoro (devo essere impiegati soggetti che abbiano conseguito un dottorato di ricerca, ovvero siano in procinto di conseguirlo, ovvero negli ultimi tre anni abbiano effettuato, dopo aver conseguito una laurea specialistica, un periodo di ricerca presso istituti di ricerca, pubblici o privati, situati in Italia o all’estero); ovvero in percentuale uguale o superiore a 2/3 della forza lavoro complessiva di personale in possesso di laurea magistrale ai sensi dell’art. 4 del d.m. n. 270/2004 (così integrato con d.l. n. 76/2013);
- essere titolare o depositaria o licenziataria di almeno una privativa industriale relativa ad una invenzione industriale, biotecnologica, a una topografia di prodotto a semiconduttori o a una varietà vegetale ovvero sia titolare dei diritti relativi ad un programma per elaboratore originario registrato presso il Registro pubblico speciale per i programmi per elaboratore, purché tali privative siano direttamente afferenti all’oggetto sociale e all'attività di impresa (così integrato con d.l. n. 76/2013).
Si tratta di un modello che supera lo stereotipo dell’innovazione come fatto esclusivo dell’area tecnologica potendo pienamente sussistere, va sottolineato, anche nel campo sociale. Affinché ciò possa avvenire - questo ci dice il provvedimento - occorre riflettere sulla possibilità di realizzare “iniziative imprenditoriali, socialmente rilevanti, fuori da un perimetro prettamente non profit” (Randazzo, Taffari, Pellini, 2013 - p. 9).
Inoltre la disciplina di queste figure di impresa, oltre che favorire una scelta formale in favore della Srl (nonostante sia prevista anche la forma cooperativa o Spa, non invece società di persone o altri enti), rende possibile anche per la Srl di prevedere quote con diritti patrimoniali o amministrativi diversi, l’emissione e remunerazione di strumenti finanziari, incentivi all’investimento, raccolta di capitali di rischio tramite portali on line (il cosiddetto crowdfunding) oltre a specifiche agevolazioni fiscali con riguardo ai contratti di lavoro.
E’ “pescando” da queste possibilità che è possibile portare un miglioramento all’attuale normativa in materia di impresa sociale “normale”, ossia eventualmente non in possesso dei requisiti previsti per le start up innovative a vocazione sociale.
La prima scelta - e forse la più importante a mio avviso - attiene alla forma giuridica. Il legislatore del 2006 aveva immaginato per l’impresa sociale un’estrema indifferenza di forme: una volta fissati alcuni paletti che sancivano il carattere nonprofit dell’ente, si poteva spaziare, a seconda dei “gusti”, da un’associazione ad una Spa, passando per le società di persone, le Srl e le cooperative (Fici, Galletti, 2007). A mio avviso nulla di più sbagliato, dove l’errore più grave è forse quello di pensare di poter gestire un’attività di impresa con la veste di associazione. Infatti, ancorché l’attività abbia ad oggetto pratiche di rilevanza sociale, lo svolgimento delle stesse avviene con metodo economico, come si richiede ai sensi dell’art. 2082 c.c. che definisce la nozione di imprenditore. In altre parole il fatto che l’attività si svolga sul terreno sociale non derubrica la stessa da attività di impresa alle “buone pratiche” dell’associazionismo. Anche l’impresa sociale deve infatti perseguire il cosiddetto lucro oggettivo, rappresentato non solo dalla copertura dei costi, ma anche dalla ricerca di un surplus da destinare alla patrimonializzazione dell’ente. In questa logica la forma associativa è del tutto inadeguata e per certi versi “diseducativa”, inducendo i protagonisti a comportarsi in modo professionalmente non conforme a logiche di impresa. Per contro ugualmente discutibile è la scelta della società di persone, in cui vi è un diritto del socio alla divisione dell’utile, per cui l’adattamento alle finalità dell’impresa sociale comporta un’“ortopedia” giuridica eccessiva al limite dell’impossibile. Ragionamenti analoghi si potrebbero fare per la Spa, per la quale occorre comunque fare i conti con i costi di costituzione (esistenza di un capitale minimo di 130 mila euro).
Resta quindi sul campo solo la Srl o la cooperativa, ma per quest’ultima vi è già lo spazio rappresentato dalle cooperative sociali. Per di più a favore della Srl vi sono anche gli ultimi provvedimenti che ne consentono la costituzione a costo zero.
Non vi è dunque dubbio, come testimonia la stessa scelta per le start up innovative, che l’opzione Srl sia la più adeguata, non solo perché affrancata da costi di costituzione, ma anche in quanto modello dotato di ampia autonomia negoziale; sotto questo punto di vista si può immaginare una governance estremamente flessibile che può lasciare ampio spazio alle decisioni dei soci anche sul terreno gestionale. Non solo: il modello di Srl previsto per le Srl semplificate e le start up innovative propone una serie di deroghe di grande interesse, con specifico riguardo alle fonti di finanziamento.
Al fine di attrarre investimenti nel capitale dell’impresa sociale, non credo che sia utile, come è stato proposto, “alzare” l’asticella dei dividendi distribuibili: l’analoga esperienza delle cooperative a riguardo è significativa e non ha sortito risultati. Piuttosto, proprio per garantire una migliore patrimonializzazione della società in una logica di ottimizzazione della governance, può essere proficuo - come previsto dal modello start up - consentire la creazione di categorie di soci con varietà di poteri amministrativi e/o patrimoniali. Questa soluzione può infatti permettere più facilmente l’intervento di sostegno dell’ente pubblico o privato interessato a “monitorare” e sostenere l’attività dell’impresa, evitando peraltro che tale interesse si trasformi in un controllo totale o oppressivo.
Sul terreno più propriamente finanziario di certo può giovare la possibilità di emettere strumenti finanziari secondo il modello di estrema flessibilità previsto dall’art. 2526 per le cooperative: un modello che, come è noto, permette l’emissione di strumenti partecipativi al capitale, mere obbligazioni o strumenti ibridi.
Infine, e direi soprattutto, occorre aprire anche l’impresa sociale “ordinaria” al crowdfunding (finanziamento della folla) sulle orme di quanto statuito per le start up. Si tratta di un fenomeno di “democratizzazione della finanza” che consente agli artefici di un progetto di sponsorizzarsi on line, non solo per sostenere iniziative senza scopo di lucro (cosiddetta donation), ma anche per la realizzazione di programmi imprenditoriali con il riconoscimento di un piccolo premio (cosiddetto reward based) per arrivare - ma non è il nostro caso - allo svolgimento di vere e proprie offerte di capitali di rischio (cosiddetto equity crowdfunding) finalizzate alla sottoscrizione di strumenti partecipativi (Fregonara, 2013 - p. 91).
Si tratta di un insieme di misure che, ben più dello specchietto delle allodole dell’offerta di alti dividendi, dovrebbero consentire all’impresa sociale di patrimonializzarsi, condizione indispensabile affinché i progetti di intervento sociale possano pienamente concretizzarsi. E’ vero che con tali percorsi la “purezza” del nonprofit si attenua, ma è altrettanto certo che, se si vuole dare piena efficacia agli interventi, questa è una strada pressoché obbligata. E del resto la stessa cooperativa sociale può distribuire dividendi e remunerare strumenti finanziari senza che tale fatto gli impedisca di essere onlus di diritto.
A questo riguardo, se si vogliono evitare due pesi e due misure, non vedo perché lo stesso trattamento fiscale non debba essere riservato all’impresa sociale senza quindi pretendere un vincolo assoluto di distribuzione diretta o indiretta degli utili. Del resto fino a che non si accede a un tale risultato, stante il rilievo fondamentale della leva fiscale, è utopistico pensare a un massiccio sviluppo dell’istituto al di fuori logiche meramente assistenzialistiche e volontaristiche che non si coniugano - lo ripeto - con la gestione di un’impresa.
Resta infine da analizzare un ultimo aspetto che le start up innovative a vocazione sociale pongono all’attenzione. Se infatti, come è giusto, l’innovazione sociale non è meno meritevole di quella tecnologica (anzi lo è certamente di più), occorre consentire ad essa di svilupparsi e quindi non ha senso segregarla in modo rigido nei confini segnati a suo tempo dal D.Lgs. n. 155/2006. Le esigenze sociali variano nel tempo e occorre quindi conferire a questi confini una certa elasticità, pena l’impossibilità di fare innovazione. Per fare qualche esempio, previsto del resto nelle ipotesi di riforma dell’impresa sociale, l’allargamento al micro-credito, al commercio equo e solidale, al settore abitativo (alloggio sociale) appaiono a dir poco doverosi, anche se potrebbe apparire preferibile affidare questi ambiti di attività meccanismi di maggiore elasticità sotto il controllo o a iniziativa ministeriale.
In conclusione non è detto che seguendo questi percorsi l’impresa sociale prenda il volo, ma certamente così facendo avrà maggiori strumenti per quella rincorsa a quel suo pieno sviluppo che tutti si augurano.
Bibliografia
Bonfante G. (2005), “La delega al Governo concernente la disciplina dell'impresa sociale”, Impresa Sociale, 74(2), pp. 80-84.
Fici A. (2012), Imprese cooperative e sociali. Evoluzione normativa, profili sistematici e questioni applicative, Giappichelli, Torino.
Fici A., Galletti D. (a cura di) (2007), Commentario al decreto sull'impresa sociale (D.lgs. 24 marzo 2006, n. 155), Giappichelli, Torino.
Fregonara E. (2013), La start up innovativa. Uno sguardo all’evoluzione del sistema societario e delle forme di finanziamento, Giuffrè, Milano.
Randazzo R., Taffari G., Pellini P. (2013), “Le start-up innovative a vocazione sociale”, Enti non profit, 3, pp. 7-13.