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ISSN 2282-1694
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Editoriale

I confini del Terzo settore

Flaviano Zandonai, Luca Gori

Saggi

Imprese sociali e governance inclusiva

Silvia Sacchetti

Disciplina dell'impresa sociale: gli stakeholder

Antonio Fici

Le istituzioni nonprofit in forma societaria

Chiara Carini, Massimo Lori, Valerio Moretti, Carla Troccoli

Casi studio

Ecosistemi d'innovazione sociale: il caso Includi.MI

Denise Di Dio, Marzia Mortati, Stefano Maffei

Numero 11 / 2018

Policy

Le ricadute della riforma nei settori di attività: la cultura

Franco Broccardi

La produzione di cultura, la tutela dei suoi beni e la gestione delle sue infrastrutture rappresenta, non da oggi, un campo di intervento importante anche per soggetti non profit. L’impatto della riforma del terzo settore in questo ambito appare quindi cruciale e al tempo stesso controverso. Da una parte la genesi della normativa è solo in parte riconducibile a questo settore, risentendo maggiormente delle sollecitazioni e delle proposte provenienti da contesti come il welfare sociale. D’altro canto, soprattutto negli ultimi anni, l’innovazione di matrice culturale ha svolto un ruolo tutt’altro che marginale nel fare emergere nuove modalità e istanze che potrebbero trovare spazio all’interno del terzo settore. Così come le attività di natura imprenditoriale sono sollecitate a posizionarsi non solo rispetto all’impresa sociale ma anche guardando a modelli più “tagliati su misura” come l’impresa culturale e creativa.


The creative production and the protection of cultural heritage – and their management – represents, not just from today, an important field of application even for nonprofit organizations. Therefore, the impact of the reform of the Third sector in this area appears crucial and at the same time controversial. On the one hand, the genesis of the legislation isn't just about this sector, but is more affected by solicitations and proposals coming from contexts such as social welfare. On the other hand, especially in recent years, cultural innovation has played a not marginal role in bringing out new ways and instances that could find space within the Third sector. Just as entrepreneurial activities are urged to position themselves not only with respect to social enterprise but also looking at more "tailor-made" models such as cultural and creative enterprise.

DOI: 10.7425/IS.2018.11.06

Qualche anno fa a Venezia una mostra ha celebrato il passaggio, la trasformazione, il divenire. TRA - Edge of Becoming[1], a palazzo Fortuny, raccontava proprio questo: l’opportunità, il viaggio, l’ipotesi del nuovo, l’eccitazione della scoperta. La vita, che sta tra il prima e il dopo, e il coraggio che la muove. Quell’attimo così vitale e imprescindibile di silenzio che anticipa la prima nota di una musica nuova, quella membrana che separa quello che era da quello che sarà, così inevitabilmente diverso. Questa vita che ci presenta occasioni da capire e conti da affrontare. “Talvolta devi rompere il vuoto per creare la trasformazione. Talvolta devi lasciare la tua casa per trovare la casa. Il dolore del lavoro è la nascita di nuova vita. Dopo la sofferenza c’è la guarigione[2]. Ma bisogna esserci portati, serve coraggio o incoscienza, non saprei dire, ma qualcosa serve. Non saranno il sentirsi forti, la diffidenza verso il cambiamento, l’immobilismo gattopardesco a risolvere i problemi. Non sarà neanche il fare finta di nulla a salvare la pelle sottile.

Ecco, le imprese culturali sono esattamente in questa fase. Una fase di ibrida e profonda trasformazione. La riforma del Terzo settore (e non solo lei), con i suoi limiti, le sue incertezze, i suoi tempi non certi, offre lo spunto per il cambiamento. Di più: obbliga. A scegliere, a pensare, a immaginare la propria forza. Per dirla come Yoda: “Fare o non fare. Non c’è provare[3]. Siamo abituati a ragionare per categorie. Buoni/cattivi o se preferite cowboys/indiani, bianco/nero, destra/sinistra, i Genesis prima/dopo Peter Gabriel. Siamo abituati a pensare le cose immutabili e ferme ma il mondo dovrebbe insegnarcelo ogni giorno: tutto cambia e non resta che adeguarsi. Tutto, in questi tempi, si muove verso quella che Marco Cammelli definisce una solida flessibilità (Cammelli, 2017). E così, parole come Mercato e Responsabilità Sociale non sono più contrapposte. Sono, anzi, il segno di questi tempi: ibridi e profondi, appunto.

Operare in ambito culturale, esserne imprenditore, significa avere a che fare con una pluralità di portatori di interessi di genere alquanto vario, navigare in un mare che, per definizione, non è mai uguale a se stesso. La flessibilità, quindi, la capacità di adattamento, di possibilità di scelta del modello gestionale più aderente alle proprie esigenze devono essere strumenti di serie nella cassetta degli attrezzi dell’impresa culturale e non più solo parte del kit di salvataggio. Molto spesso nelle discussioni sulle imprese culturali si ha l’impressione che tutto ciò che è adesso, così sarà per sempre, immutabile in saecula saeculorum. Che la strada sia sempre un senso unico. Non lo è, invece. Non lo è nessuno status giuridico né uno statuto. Non lo sono il modello di governance, l’assetto e neppure gli obiettivi prefissi.

Lo sviluppo, oggi, non può più essere considerato solo sotto il profilo economico, ma assumono rilevanza l’impatto sociale e culturale delle attività d’impresa, cosicché l’interesse, anche quello delle società, è sempre più rivolto a questi, oltre che ai tratti reputazionali e di responsabilità sociale. La creazione di valore è quindi da misurarsi con strumenti ad hoc che non diano conto esclusivamente degli aspetti economici, finanziari e patrimoniali ma anche delle capacità dell’impresa in termini di funzione identitaria e memoria storica, contributo al dibattito culturale, mediazione creativa, esternalità positiva, connettività, capitale culturale, valore sociale, autenticità. Oltre i numeri dunque: il bilancio diventa manifesto di valori, strumento di trasparenza, dispositivo di comunicazione. E tutto questo, infine, ha a sua volta riflessi economici.

Tutto ciò ha poi ancor più senso per chi opera in ambito culturale. La Cultura è un bene diverso dagli altri. Ha aspetti fortemente immateriali e assolutamente personali. È fatta di memoria e di passione. È, per propria natura, in perenne mutamento. L’economia che la sostiene e che ne è a sua volta alimentata non può non considerare questo aspetto così peculiare. Non può pensare allo stesso modo se si parli di penne o di libri. L’investimento culturale si inserisce trasversalmente nell’ambito della non materialità, degli intangibles e non a caso ha prodotto interpretazioni discordanti dal punto di vista fiscale se pensiamo, ad esempio, alle sponsorizzazioni culturali in merito alle quali si continua a sottolineare il requisito dell’inerenza. L’imprenditore, pur piccolo che sia, deve innovarsi altrimenti soccombe, fagocitato dalla globalizzazione e dalla concorrenza. E va rivalutata l’innovazione prodotta dall’investimento culturale, indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa, poiché rappresenta uno degli architravi concettuali dell’economia della conoscenza. Gli intangibili non sono quindi appendici del bilancio, ma elementi strutturali collegati alla creazione di valore, anche quando quest’ultimo è nascosto.

Per questo diventa fondamentale la capacità di strutturarsi, di aggregarsi nel caso, di essere trasparenti, accountable. L’abilità di sapersi pensare diversi da prima e di fare in modo che il valore reale sia riconosciuto indipendentemente dagli obblighi imposti (anche) dalla riforma. Perché se il bilancio sociale è obbligatorio solo per chi ha raggiunto dimensioni che la maggior parte degli operatori culturali non immagina neanche, questo non vuol dire che anche nel suo piccolo quell’operatore non possa (e io direi: non debba) trovare il modo di raccontarsi. Di raccontare l’impatto. Di raccontare di meritare sostegno. E perché no, di raccontare anche ciò che non si è riusciti a costruire e il perché.

La riforma del Terzo settore (L. n. 106/2016) obbliga quindi a ripensarsi. A rileggere il proprio statuto e considerare se esso sia ancora adeguato ai propri obiettivi. A riconsiderare la governance e immaginarla in prospettiva. A guardare, soprattutto, in prospettiva, sforzandosi di identificare la strada che si vorrà percorrere, dotando l’organizzazione degli strumenti più adeguati. Chiedendosi perché facciamo ciò che facciamo, per chi. Il come ne è una conseguenza.

La riforma non ha avuto nella cultura un attore forte. Altri sono stati i protagonisti contrattuali e gli effetti si vedono chiari già a partire dalle attività caratteristiche. Ma certamente è il settore culturale quello che incontriamo ovunque se volgiamo lo sguardo alle più interessanti novità normative. Un quadro italianamente confuso e forse neanche troppo efficace ma che rivela l’importanza del comparto.

Con le nuove norme sull’impresa sociale (d.lgs. 112/2017), e soprattutto con la spinta che la riforma del Terzo settore tutta ha dato proprio in questa direzione, si sono abbattuti muri e vecchi abiti mentali. Il non profit non vede più nelle attività commerciali un tabù o, peggio, un inquinamento della propria purezza. Non for profit è il modo corretto in cui dovremmo abituarci a pronunciarlo.

Spingendosi ancora oltre, si è consolidato l’abbattimento del confine dell’habitus giuridico: possono essere imprese sociali anche le società di capitali (possibilità in realtà già prevista dal d.lgs. 155/2006, anche se scarsamente implementata fino ad oggi). Si pensi ad Andrea Bartoli, il notaio di Favara fondatore di Farm Cultural Park: la sua nuova opera sarà S.p.A.B. la Società per Azioni Buone. Una S.p.A. impresa sociale votata al recupero di immobili da destinare ad attività sociali. Una S.p.A. che come ogni società di capitali dovrà garantirsi la piena sostenibilità e che come ogni impresa non profit si dedicherà ad attività di pubblica utilità.

Ibridazione, quindi. La corporate social responsability è una strada che sempre di più incrocia le scelte imprenditoriali e che in qualche modo realizza le idee che già erano di Adriano Olivetti mentre, dall’altra parte, il Terzo settore ha nella sostenibilità, pilastro fondante della riforma, il recinto entro cui portare a buon fine i propri obiettivi caratteristici. È una comunione di intenti, questa, una spinta a formare sistema, un processo che necessita di un fronte comune che va dalla rappresentanza culturale alla politica illuminata (e sappiamo bene di quanto bisogno ne abbiamo) che potremmo definire quello di una nuova public social responsability. È un mischiare le carte per giocare a un gioco nuovo perché “il problema non consiste nell’essere il miglior giocatore, ma nell’ideare nuovi giochi” (Anderson, 1972).

Ibridazione che troviamo anche nel capo opposto. Le società benefit, introdotte nel nostro ordinamento con la legge di bilancio 2016 (L. n. 208/2015), non prescindono dallo scopo lucrativo ma rappresentano una nuova possibilità data alle imprese già esistenti o di nuova costituzione di proteggere l’attività imprenditoriale nel lungo termine puntando a massimizzare non solo i dividendi per i soci (come nelle strutture societarie profit) ma anche l’impatto positivo sugli altri portatori d’interesse.

Le società benefit si inseriscono nel solco di un trend internazionale che dà rilievo alla creazione di un valore che va oltre il semplice profitto, riferendosi a quello che potrebbe divenire un nuovo modello di governance e gestione che, accogliendo nello statuto della società uno scopo culturale, ambientale o sociale, supera la logica occasionale degli strumenti classici delle erogazioni liberali e delle sponsorizzazioni, per consentire un percorso strutturato, durevole e sostenibile dell’investimento culturale, fattore di innovazione e di competitività per l’impresa. Con le società benefit l’interesse si moltiplica a vantaggio di altri beneficiari, l’egoismo utilitaristico lascia il passo al beneficio comune e il fine vira da quello che era lo shareholder value, il beneficio per i soci[4], verso lo stakeholder value, quello della categoria più grande e importante dei portatori di interesse.

Attraverso un approccio integrato alla responsabilità sociale come un valore fondante della strategia di business, le imprese hanno la possibilità non solo di contribuire al miglioramento della società, ma anche di ricevere in cambio significativi benefici quali, ad esempio, migliori performance finanziarie, il rafforzamento del valore del brand e della reputazione, una sostenibilità di lungo termine per l’impresa e per la società nel suo complesso, una migliore gestione del rischio e della crisi, ritorni di lungo periodo sugli investimenti, buone relazioni con il governo e la comunità locali, maggiore dedizione dei dipendenti e in ultima analisi credibilità ad operare.

E ancora: quello che prima era relegato ad atto occasionale e soggetto al giudizio dell’assemblea diventa parte integrante del processo aziendale, ciò che era sporadico si ritrova sistemico, quello che spesso era casuale diventa una prassi non solo possibile ma addirittura obbligatoria. Quello che era soggettivo, quindi, è ora parte dell’oggetto sociale, attività sottoposta al controllo non più incentrato sul perché ma sul come.

Certamente la mancata introduzione di incentivi fiscali alle società benefit rende meno appetibile la loro diffusione. Ma ancor più grave è l’incertezza tutt’oggi irrisolta circa la possibilità di considerare i costi relativi della attività benefit inerenti e, soprattutto, pienamente deducibili. Su questo argomento e sul tema delle sponsorizzazioni culturali è stato aperto un tavolo di discussione con l’ufficio normativo dell’Agenzia delle Entrate anche se è dalla politica che ci dovremo aspettare indicazioni chiare a riguardo.

Così come dalla politica non potremo prescindere circa il compimento della riforma a cui mancano, colpevolmente, ancora troppi tasselli. E circa la reale applicazione delle norme sull’impresa culturale e creativa definite con la legge di bilancio dello scorso anno (L. n. 205/2017). Una definizione che ha fatto proprio il senso dell’ibridazione a cui abbiamo accennato prima e che non ha voluto porre barriere tra profit e non profit, tra attività commerciali e non, che non ha voluto giustamente separare ciò che non è sempre così facilmente separabile: il culturale dal creativo.

Servirà la politica per non perdere un’occasione. La norma prevedeva l’introduzione di un decreto attuativo che non ha mai visto la luce così come del credito fiscale previsto per il finanziamento delle loro attività, per quanto ridotto, si sono perse le tracce e i fondi. Delle imprese culturali e creative abbiamo al momento, quindi, solo una definizione. Non poco, certamente, ma senza dubbio insufficiente a dare qualcosa di più che un contenitore a un comparto che potrebbe essere il traino dell’economia nazionale.

Sia la norma sulle imprese culturali e creative che la riforma del Terzo settore e delle imprese sociali sembrano comunque indicare la strada verso cui ci stiamo incamminando: un sistema imprenditoriale più strutturato che in passato, più responsabile, più ampio. In pratica entrambi introducono il concetto di profondità. Ma profondità del sistema non significa eliminazione dal campo degli operatori di piccole dimensioni. Anzi. Significa un aumento della qualità amministrativa (quella delle proposte culturali è una condizione sine qua non), un ripensamento delle logiche di gestione, dell’organizzazione, della rendicontazione. Certamente il futuro per molte realtà che spesso già di fatto operano in un perimetro imprenditoriale, sarà quello di diventare qualcosa di diverso da ciò che sono ora, essere altro in un ambiente nuovo in cui sono labili e forse per certi versi inutili le distinzioni tra profit e non profit, tra natura pubblica e quella privata. E pure quella tra creativa e culturale diventa più una questione di stile che una vera e propria necessità.

Il mondo degli operatori culturali è in questa fase: è all’attraversamento di un confine, in trasformazione, in mezzo a un passaggio. Servono coraggio e attenzione. Certamente non tutte le organizzazioni hanno cominciato il percorso, hanno approfondito il tema, hanno aguzzato orecchie e ingegno. Probabilmente più chi opera in ambito sociale di chi lo fa in quello culturale. Questi non stanno aspettando, ma con coraggio pionieristico affrontano un viaggio che non sanno ancora dove potrà portarli e che, addirittura, non sanno neanche se li porterà da qualche parte o, come qualcuno teme, alla loro fine per poca struttura.

Quali le capacità imprenditoriali e manageriali che saranno richieste alla cultura nel prossimo futuro? Quali gli strumenti di gestione e comunicazione di cui dotare la propria organizzazione per essere competitivi? Su quale giusto grado di contaminazione tra disciplina e creatività si gioca il successo di un’impresa?

Perché le imprese sociali, le società benefit e imprese culturali e creative in generale possano davvero diventare un volano di espansione sociale servirà fare ancora quel passo in più, soprattutto (ironia della sorte) “culturale”, che possa trasformare la “visione del libro come mondo” in “visione del mondo come libro” (Eco, 2016). Perché ciò possa succedere è chiaro che si dovrà poter contare su una generazione di illuminati che guardino al profitto in maniera estesa, portandovi dentro quelle che Walter Santagata definisce “motivazioni prosociali, quali l’altruismo, i codici di comportamento morali e di responsabilità civica” (Santagata, 2014). Occorre, quindi, che “la scienza giuridica si apra ad altri metodi di indagine, come ad esempio, l’economia della cultura” (Casini, 2016), tracciando un nuovo corso che possa cogliere le motivazioni generative e di welfare che nuove economie a base culturale potranno produrre.

“Pensare i luoghi aiuta ad abitarli” ha detto Stefano Zamagni, tempo fa. E proprio questo serve perché questo nuovo luogo ci diventi intimo. Serve tempo per metabolizzare, serve tempo per capire. Serve parlarne senza perdersi in critiche o vittimismi ma con una visione neutrale capace di percepire le opportunità da sfruttare e, per contro, dove si possono annidare i problemi al fine di trovare possibili soluzioni.

Le opportunità di una strada accidentata, la necessità di dotarsi di un fuoristrada. Di questo e di altro proveremo a riflettere come seduti su un razzo che potrebbe esplodere o portarci lontano. Dipenderà anche da noi.

Bibliografia

Anderson P.W. (1972), “More Is Different”, Science, 177(4047), pp. 393-396. DOI: 10.1126/science.177.4047.393

Cammelli M. (2017), “Qualche appunto in tema di imprese culturali”, AEDON, 2/2017.

Casini L. (2016), Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, Il Mulino, Bologna.

Eco U. (2016), I limiti dell’interpretazione, La Nave di Teseo, Milano.

Santagata W. (2014), Il governo della cultura. Promuovere sviluppo e qualità sociale, Il Mulino, Bologna.

Stout L.A. (2008), “Why We Should Stop Teaching Dodge v. Ford”, Law-Econ Research Paper, n. 07-11, UCLA School of Law, Los Angeles.

Note

  1. ^ http://fortuny.visitmuve.it/it/mostre/archivio-mostre/tra-edge-of-becoming/2011/06/6455/progetto-59/
  2. ^ Id.
  3. ^ L’Impero colpisce ancora (The Empire strikes back, Irvin Kershner, 1980).
  4. ^ Un concetto ben riassunto già nel 1919 nella causa tra i fratelli Dodge e la Ford Motor Company: “A business corporation is organized and carried on primarily for the profit of the stockholders” (“Un’impresa di capitali è istituita e condotta primariamente per il profitto degli azionisti”) (Stout, 2008).
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