Nista bleja, strogo socijala
(Niente lamenti, solo socialità)
Sticker per un raduno di pionieri serbi dell’economia sociale, 2014
La mia generazione di studenti di economia è stata abituata alla distinzione Stato/mercato che, come quasi tutto ciò che abbiamo imparato negli anni ‘80, è obsoleta; forse era già vecchia allora, risentendo di una cecità degli economisti ai contributi di altre scienze sociali. Un’illustrazione di quell’attitudine era il salto logico (quasi sempre) compiuto dall’identificazione di un fallimento del mercato alla ricerca delle politiche pubbliche con cui ridurne o azzerarne gli effetti, molto spesso senza nemmeno porsi il problema dell’esistenza di altre vie[1]. Questa subcultura non è morta, nemmeno fra economisti con visibilità pubblica, che Keynes avrebbe chiamato schiavi di pensatori morti tempo fa; ma è in agonia e passerà. Il riconoscimento di un comparto “terzo” è necessario per dar conto di una serie di fenomeni, che sono importanti in settori economicamente rilevanti come la sanità, l’istruzione, l’assistenza sociale o la cultura, nonché per fini (anche) economici come lo sviluppo locale e la rivitalizzazione urbana.
La collocazione di una economia sociale “a metà” fra Stato e mercato è ugualmente dubbia. Al di là della partnership che esiste fra mondo del Terzo settore e amministrazioni pubbliche (primariamente locali: quindi, non lo Stato), l’uso del “mercato” non è ciò che distingue le imprese for profit dal Terzo settore, molto del quale – specificamente la sua componente produttiva, che è la più rilevante dal punto di vista economico – passa attraverso il mercato nell’esercitare la sua attività tipica: tant’è che le entrate del Terzo settore italiano provengono in maggiore quantità da scambi di mercato che da transazioni non-market.
Di qui la domanda: qual è esattamente lo spazio del “settore sociale”[2]? In particolare, rispetto a nuove tendenze dell’economia e della società, come social network, sharing economy, economia circolare, etc.: quanto sono “sociali” questi fenomeni? Lo sono nello stesso senso in cui lo è l’economia sociale?
Il motivo dell’ambiguità è più facile da spiegare partendo dall’economia sociale e contrastandola con altri settori ad essa contigui. Già il termine “economia sociale” non ha un significato univoco. Le varie definizioni esistenti tendono a separare l’economia sociale da quella pubblica, da quella privata “a scopo di lucro” e dal perimetro “civile” costituito dagli individui e dalle loro organizzazioni che operano per fini diversi da quelli strettamente economici. Esiste ad esempio una definizione europea – elaborata dal Comitato Economico e Sociale Europeo – basata su principi, secondo cui un’organizzazione appartiene all’economia sociale se soddisfa le seguenti condizioni:
Si tratta di principi che aggregano i “desiderata” di settori sociali di Paesi dell’Unione e di categorie di organizzazioni, tra loro eterogenei (infatti alcuni meno interessati al lobbying, come gli enti ecclesiastici, sono mal rappresentati). In pratica, al fine di identificare concretamente e magari misurare l’economia sociale, si tende a definire un perimetro di forme organizzative, che in molti Paesi fra cui l’Italia si concretizza in forme giuridiche. In questa vena, il Consiglio d’Europa (risoluzione del 7 dicembre 2015) definisce le imprese dell’economia sociale come quelle che “fanno riferimento a un universo di organizzazioni basate sul primato delle persone sul capitale e comprendono forme organizzative quali cooperative, mutue, fondazioni e associazioni nonché nuove forme di imprese sociali”.
Queste definizioni non sono di granché aiuto nel separare il perimetro civile da quello economico, anche perché i due sono molto spesso intrecciati nel mondo associativo, che tipicamente rappresenta la gran parte dell’economia sociale quando questa è misurata dal numero di organizzazioni che ne fanno parte. Generalmente a questo scopo si usa un criterio di prevalenza: siccome quasi tutte le attività sociali hanno un riflesso economico (e viceversa), si stabilisce un qualche parametro in base al quale uno scopo (civile o economico) prevale sull’altro, come nella distinzione italiana fra Enti del Terzo settore “commerciali” e “non commerciali”.
Abbiamo comunque stabilito che l’economia sociale ha un confine – convenzionale e non sempre chiarissimo – con il perimetro “civile”. A seconda dei fini che si perseguono, può essere o meno utile definire con precisione quel confine, o essere poco sensibili alle differenze definitorie marginali[3].
L’economia sociale ha anche altri confini. Quello con il settore pubblico dà luogo, in contabilità nazionale, a definizioni sottili, come quelle che riconducono al pubblico le organizzazioni private la cui governance e/o i cui finanziamenti originano prevalentemente dalle amministrazioni pubbliche. In generale negli anni recenti la permeabilità di questo confine è stata più o meno unidirezionale: dal settore pubblico all’economia sociale. Questo è visibile nel conteggio delle relative istituzioni – in diminuzione le prime, in aumento le seconde – nel censimento Istat basato sui dati 2011, confrontati con quelli anteriori di un decennio. Più sostanziale è stata la migrazione di intere funzioni; per tutte può valere l’esempio della cura di persone con malattie mentali, da cui il settore pubblico si è parzialmente ritirato riservandosi i casi di acuzie (trattate nei reparti ospedalieri di psichiatria) e il monopolio delle diagnosi. Il sistema sanitario e quello dell’istruzione hanno pure conosciuto movimenti importanti di persone, organizzazioni e soprattutto di utenti e beneficiari dei loro servizi, che hanno oltrepassato la frontiera tra pubblico e sociale.
Un confine molto interessante è quello con l’economia privata a scopo di lucro. Quest’ultima, in anni recenti, ha prodotto un numero e una qualità interessante di iniziative “sociali” che spesso – e si tratta di alcuni tra i casi migliori – originano da una qualche complementarietà fra l’attività economica dell’impresa e uno scopo sociale riconoscibile: dal supporto dell’economia locale, all’impiego sociale di una expertise dei lavoratori dell’impresa, a una joint venture che accoppia capacità produttiva e destinazione del prodotto (come nel noto caso di Danone-Grameen in Bangladesh). Questo movimento ha avuto luogo anche negli anni della crisi, un po’ forse a causa di essa – nella ricerca di una maggiore legittimazione sociale dell’impresa, o più prosaicamente di modi più efficienti di impiegare il denaro comunque già destinato a scopi sociali – ma comunque nonostante le ristrettezze finanziarie. Esso è visibile per esempio nel discreto successo di iniziative come la certificazione B-Corp, a livello globale, e delle imprese benefit, negli Stati Unita e ora in Italia, dove la forma legale della benefit corporation è disponibile. C’è anche dell’evidenza empirica che le imprese con maggiore attività di CSR abbiano resistito meglio alla crisi (Lins et al., 2018).
Questo avvicinamento del sistema delle imprese a quello dell’economia sociale ha un corrispondente simmetrico. Da un lato esiste un movimento globale delle fondazioni verso la “nuova filantropia”, identificata nelle ricerche del gruppo di Lester Salamon (Salamon, 2014a; 2014b), molto più disponibile che in passato ad accoppiare attività d’impresa vere e proprie a quelle tradizionali donative, e ad usare la leva finanziaria per amplificarne gli effetti (cosiddetta leverage for good). Un altro esempio, forse meno significativo e comunque meno pubblicizzato, sta nella “ibridazione” avvenuta all’interno del Terzo settore italiano attraverso spin-off di imprese giuridicamente for profit la cui capogruppo è invece una organizzazione di Terzo settore, di solito una cooperativa sociale. Anche qui il motivo può essere prosaico (ottimizzare l’IVA), ma non sempre (Venturi, Zandonai, 2016).
In conclusione, i segmenti dell’economia non sono ben definiti dalla dicotomia Stato/mercato e nemmeno dall’addizione di un settore catch-all, il Terzo, che comprende “il resto”. Anche definendo meglio il settore pubblico e quello a scopo di lucro, le frontiere sono incerte e permeabili. Sembra utile ricercare qualche altro modo di concettualizzare le ripartizioni dell’economia e della società.
Soprattutto, per chi opera con un obiettivo sociale, pare utile tenere a mente che l’una o l’altra forma organizzativa e proprietaria non monopolizzano la creazione del “valore”, o “impatto”, sociale: laddove certi tipi di attività pro-sociale avvengono – con ragionevole stabilità nel tempo – all’interno di imprese, quel pezzo di economia è da ritenersi sociale, ancorché non ne abbia il crisma giuridico.
Una tripartizione utile e vicina a Stato/mercato/sociale è quella originariamente proposta da Polányi negli anni ‘40, che distingue tre basi per l’interazione economica, sempre conviventi nella storia anche se in mix diversi: la redistribuzione, lo scambio e la reciprocità[4].
L’analisi non è nuova. Tuttavia mi pare più adatta di altre sviluppate nel frattempo per concettualizzare lo spazio del settore sociale. In Italia, per esempio, alcuni sociologi hanno identificato o addirittura definito il Terzo settore come il locus in cui ha luogo elettivamente lo scambio di “beni relazionali”, ovvero quelli il cui valore risiede nella relazione umana che si stabilisce fra le controparti. Alcune ricerche empiriche supportano l’affermazione[6]. Personalmente tuttavia non trovo la cosa molto utile al fine di delimitare “economia” e “settore” sociali, o anche il Terzo settore:
In sostanza mi pare che le relazioni si instaurino, e i “beni relazionali” si scambino, in una varietà di contesti; e che il Terzo settore ne possa essere un locus privilegiato – comunque, non unico – nella sua parte “civile”, ma non per forza in quella a maggior rilevanza economica.
Mi sembra inoltre che quella definizione “perda” una dimensione del Terzo settore che invece considero importante: quella di locus di inclusione finanziaria, economica e sociale. Il fine è consentire l’accesso ad alcuni beni e servizi (e anche, certo, interazioni sociali) a chi non potrebbe permetterseli nel mercato e che non ha significative possibilità di riceverli per via redistributiva dal settore pubblico: per esempio, perché quest’ultimo è limitato nei mezzi, perché chi è deprivato non vi accede per ignoranza o per preferenza, o perché il settore pubblico non ha potuto o voluto intercettare le esigenze, se nuove o minoritarie[8]. La mission di un ambulatorio sociale, per esempio, non è primariamente quella di sviluppare relazionalità (anche se è una buona idea perseguirla in via collaterale): il punto è far accedere a servizi di diagnosi e cura chi altrimenti non se li potrebbe permettere, né li potrebbe ricevere dal settore pubblico alle stesse condizioni accessorie, come lunghezza dell’attesa, qualità della prestazione e simili.
In sintesi, c’è una razionalizzazione complicata dell’attività del settore sociale basata sui beni relazionali, che però non lo identifica univocamente perché vari beni di quel tipo si scambiano fuori dal settore e non tutto il settore li produce (o non più dei comparti equivalenti). E c’è un concetto più semplice di inclusione, correlato al primo ma che fa, a mio parere, un miglior lavoro descrittivo: credo che il “rasoio di Occam” mi giustifichi nell’impiegare più volentieri il secondo che il primo.
La locuzione “economia sociale” sta tuttavia dando luogo a una confusione terminologica, che riguarda le res novae della tecnologia 2.0 e successiva, la cui “socialità” va analizzata e discussa. In altre parole: c’è differenza di significato fra il termine “sociale” applicato a cooperative/imprese sociali, e quello dei social network o della sharing economy. Molte nuove tendenze e tecnologie fanno perno su qualche genere di interazione sociale, generalmente intermediata da una piattaforma tecnologica. Questo paragrafo analizza le diversità tra queste e l’economia sociale tradizionale.
C’è un tema sottostante, che possiamo identificare come una distorsione semantica. Riproduco qui un segmento di Paul Romer (2015), riferito al termine sharing, condivisione[9]:
La parola “condividere” è oggi usata in due significati molto diversi. Alcune persone possono condividere (= viaggiare insieme in) un minibus. Oppure, alcune persone possono condividere (= usare a turno) un’auto in affitto. Il primo uso è quello tradizionale. Il secondo è emerso dal battage pubblicitario sulla “sharing economy.” Non è emerso alcun consenso su due semplici parole che potremmo utilizzare, al posto di “condividere”, per trasmettere questi due diversi significati. (Monogamia seriale versus poligamia, va bene per ridere).
Sundararajan (2016, p.27) cita e commenta il blog post da cui è tratta la citazione, che sintetizza come “stiamo perdendo un buon verbo [to share]”; e aggiunge: “Concordo. Come abbiamo perso un buon aggettivo quando sono emerse le piattaforme di social media […]). Questa è esattamente la confusione semantica – o forse il deliberato artificio retorico – che intendevo, e che si applica sia alla sharing economy che ai social network. Ma andiamo per ordine.
Innanzitutto, nonostante molta retorica, non tutti gli sviluppi tecnologici recenti e con grandi promesse per il futuro hanno un aspetto sociale o anche solo interattivo. Alcuni esempi di tecnologie eccitanti e in qualche caso disruptive, ma a-sociali, sono[10]:
Quest’ultima categoria, in cui comprendo anche le attività della cosiddetta economia circolare, ha sicuramente un potenziale economico e di impatto ambientale, ma dal punto di vista strettamente sociale è essenzialmente priva di significato.
Per giustificare quanto appena detto, forse è meglio fermarsi un attimo a riflettere sul carattere “sociale” delle tecnologie, prima di entrare in aree dove c’è più confusione. Innanzitutto, ogni tecnologia nuova e di successo avrà effetti sociali[11]; ma non per questo chiameremo “sociali” tutte le tecnologie. La robotica potrà avere effetti sociali anche grandi – come quelli legati all’occupazione – ma credo che di per sé sia “a-sociale” nel senso che i suoi elementi non fanno un uso costitutivo dell’interazione fra esseri umani né si prefiggono la loro maggior felicità. La sua applicazione economica, senza dubbio, sarà un fatto sociale, che potrebbe anche retroagire su di essa; ma in prima battuta quella tecnologia non mi pare social.
Ho chiamato a-sociale anche il settore green. L’impatto ambientale è spesso incluso insieme a quello sociale nelle discussioni sull’economia o sull’investimento “responsabile”: ne è prova la sigla ESG, environmental-social-governance, che esplicita i criteri di responsabilità nella selezione di titoli e asset class. Ma i tre criteri sono distinti fra loro. L’impatto sociale ha a che fare con un miglioramento della vita degli individui; quello ambientale include questo effetto indirettamente e, nella gran parte dei casi, solo nel lungo periodo, mentre nel breve e medio mira fondamentalmente a non dissipare il patrimonio ambientale. Una governance ben strutturata mira a stabilire regole che evitino comportamenti opportunistici o irrazionali. Tutti e tre i criteri puntano a conferire robustezza all’istituzione-impresa con un insieme di condizioni – complementari tra loro, ma distinte – che ne legittimano e facilitano l’operare[12].
La a-socialità di molte nuove tecnologie ha quindi due facce. Una è strutturale: si tratta di fenomeni che non richiedono né semplici interazioni fra persone, né uno scopo sociale. L’altra è più sfumata: l’aggettivo “sociale” si è esteso un po’ troppo e ha finito per inglobare aspetti – come quelli ambientali, culturali, o religiosi – che benché abbiano ovvi impatti sulla vita delle persone (quindi: siano sociali), hanno anche una natura diversa; e non sempre producono quegli impatti intenzionalmente.
Non tutte le tecnologie richiedono quindi interattività, ma quelle che lo fanno – e i settori che le utilizzano – sono un’area ad alta crescita; alcune di esse vengono sussunte sotto il termine-ombrello di sharing economy. Pais e Provasi (2015) categorizzano queste ultime attività in sei categorie:
Alla lista bisognerebbe probabilmente oggi aggiungere gli schemi che utilizzano distributed ledger e blockchain (Bitcoin, Ethereum) che sono un incrocio di varie delle categorie precedenti (al minimo quasi-baratto e open source) con un fattore nuovo – non molto “sociale” ma sicuramente economico – costituito dalle cripto-valute che le sostengono.
Un elemento innovativo in Pais e Provasi è la distinzione del modus della reciprocità in tre campi, correlati a quelli identificati dalla “economia del dono” (Gui, Sugden, 2005):
e l’assegnazione delle varie categorie di sharing economy a una di queste tre o ad altre.
Nell’assegnazione di Pais e Provasi una buona parte della sharing economy viene collocata nella categoria dello scambio di mercato; questo accade per il car sharing, per Uber, Airbnb, per le piattaforme di matching di domanda e offerta di lavoro (Upwork). Ritengo che il social lending (che in Italia è la gran parte del crowdfunding) e soprattutto l’equity-based crowdfunding vadano anch’essi posizionati nella stessa “casella”.
Alla categoria della collaborazione possono essere accostate le piattaforme di viaggio (BlaBlaCar) o di pranzi in comune (EatWith/Gnammo). Il crowdfunding reward-based (Kickstarter, Eppela e varie altre piattaforme italiane) può essere assegnato a questa categoria – a condizione che il reward sia significativo – ma il confine con il crowdfunding donation-based è sottile, e quest’ultima categoria di operazioni va invece messa nella “reciprocità strettamente intesa”, insieme al couchsurfing, che non ha un aspetto economico rilevante, e alle banche del tempo.
Pochissime forme sono assimilabili alla modalità di redistribuzione, che associamo al settore pubblico, anche se alcune iniziative “smart” di autorità locali (social street a Bologna) possono essere rilevanti.
In conclusione, le attività della sharing economy, che sono economicamente rilevanti, a massima crescita e a massima esposizione mediatica, non sono “sociali” nel senso di appartenere alla categoria polanyiana della reciprocità. Sono meccanismi di mercato che – come altri più tradizionali tra cui banalmente i centri commerciali o i bar, nella loro dimensione di luoghi di ritrovo o addirittura di “cultura popolare”, ma più efficientemente – fanno perno sull’interazione fra le persone.
C’è una questione rimanente, quella dell’impatto sociale positivo che si produce nella misura in cui si rendono più dense le relazioni umane in un mondo in cui molti invece si isolano e “giocano a bowling da soli”. Credo si tratti di una dimensione importante, ma di interpretazione non univoca. L’impressione che ricavo leggendo buona parte della letteratura sulla sharing economy è che si muova dall’ipotesi che qualsiasi tipo di interazione sociale sia inerentemente positivo per chi partecipa e quindi per l’economia e la società[13]. L’immagine che associo è quella di un grafo (network) in cui i nodi sono gli individui e la sharing economy è un meccanismo capace di formare nuove connessioni fra essi: il grafo diventa mano a mano più denso. Se definiamo capitale sociale – come molti sociologi da Bourdieu in avanti – essenzialmente come la connettività di ogni nodo, allora inequivocabilmente la sharing economy produce capitale sociale. Ma… calma un attimo. Una connessione può avere varie qualità[14], positive o negative. Per esempio, gli ospiti di Airbnb potrebbero escludere sistematicamente i giovani, i vecchi, i neri, gli arabi o gli ebrei; un hotel non potrebbe farlo per legge, ma non c’è nessuna protezione del genere nella sharing economy, almeno in quella attuale; né c’è protezione di uno dei due nodi connessi – il lavoratore – in alcune delle entità della sharing economy, nella misura in cui esse praticano una forma di occupazione non soggetta alle limitazioni del “normale” diritto del lavoro (Comito, 2016; Maggioni, 2017) o peraltro un impatto ambientale non regolato causato per esempio dalle emissioni dei mezzi di trasporto.
Se ci addentriamo ancora un po’ – proseguendo nel continuum precedente – nelle nuove tecnologie basate ancor di più sull’interazione fra persone, le cose si fanno più confuse. Possiamo focalizzare il problema ponendo una domanda specifica: un social network fa parte o no dell’“economia sociale”?
Qualche ragione per il sì: la partecipazione è volontaria, non discriminata e generalmente non remunerata; l’accesso al network migliora (salve le patologie) la felicità individuale, altrimenti non se ne spiegherebbe il successo; la ragione per partecipare è (salve le patologie) quella di mettersi (o mantenersi) in contatto con gli altri ed ampliare la conoscenza di persone e fatti. Qualche ragione per il no: non esiste – o comunque non esiste un diritto a – una governance democratica della rete di contatti; l’impresa che gestisce la rete spesso è for profit e talvolta fa una “ottimizzazione” fiscale spinta che suona di evasione (un comportamento non granché sociale); la qualità del lavoro può essere pessima; in qualche caso di ispirazione commerciale (come l’area dei commenti dei clienti su Amazon) l’interazione sociale è in realtà molto vincolata, e incoraggiata primariamente nella misura in cui favorisce le operazioni dell’impresa (vendere oggetti)[15]. In ogni caso, il network di per sé – i partecipanti e le relazioni fra loro – non è nemmeno un fenomeno economico, ma primariamente sociale, benché con riflessi economici.
Come si vede, c’è un’area non banale di ambiguità.
Nonostante l’incertezza, ritengo che un partecipante alla “economia sociale” tradizionalmente intesa non avrebbe molti dubbi e direbbe che un social network di per sé non ne fa parte. Soprattutto, direbbe che non ne è parte l’impresa che lo gestisce, se di sociale ha solo la retorica e forse una politica di CSR.
Potremmo accettare questo punto ed eleggere a primo criterio, per decidere della “socialità” di una categoria di operazioni economiche, quello di guardare alle organizzazioni che originano e/o gestiscono i beni, servizi e interazioni sociali che costituiscono quelle operazioni; è opportuno che tali organizzazioni soddisfino un qualche criterio di socialità, altrimenti prima o poi è prevedibile che quei beni o servizi o interazioni saranno piegati ad altri scopi. Non si tratta di una questione di accesso al mercato (molte organizzazioni di Terzo settore lo hanno) o di redditività ex post, ma di orientamento alla redditività ex ante. Più in generale si tratta di governance: nello stesso modo in cui giudichiamo bene o mal governata una società profit (o anche nonprofit) all’interno di un’analisi ESG, possiamo estendere l’analisi a una piattaforma della sharing economy. Il risultato – sia in termini di trasparenza che di motivi – non sarà sempre lusinghiero.
Un secondo criterio è quello di guardare all’impatto delle operazioni economiche in questione. Qui non si può pretendere grande precisione. Nella “catena dell’impatto” (input-attività-output-outcome-impatto), il grande salto nella concettualizzazione dei risultati è quello tra output e outcome; la differenza è che gli output misurano l’estensione degli effetti diretti dell’attività di una organizzazione sociale – es. il numero di persone sfamate (o istruite, o collocate al lavoro), la quantità di erogazioni, l’outreach ottenuto nel fare credito o l’ammontare erogato di quest’ultimo – mentre gli outcome misurano l’effetto che questi effetti esercitano sul benessere delle persone. Quando tali effetti sono molti ed eterogenei, c’è il problema largamente irrisolto di produrre misure di sintesi[16].
Come conseguenza, c’è una robusta ritrosia di molti attori del settore sociale (almeno quello italiano) a ragionare in termini di outcome; ciò sembra avvenire un po’ per le oggettive difficoltà menzionate, un po’ per la resistenza al cambiamento, un po’ perché decidere della maggiore o minore importanza di certi effetti ha un sapore “politico” non imparziale (come quando si valuta, diciamo, l’effetto di attività culturali contro quello dell’assistenza sociale). La scarsa fortuna dell’affermazione di un ministro della Repubblica che “con la cultura non si mangia” – benché letteralmente ovvia – mostra che si tratta di un terreno minato sul quale ci si può giocare la credibilità.
Tuttavia l’incapacità di misurare, con precisione e parsimonia, l’impatto delle attività sociali sulla vita delle persone non deve far perdere di vista le differenze macroscopiche. Tra due imprese nello stesso settore – diciamo un ospedale privato – di cui la prima si impegna in attività di rivitalizzazione del territorio e la seconda no, la prima si può definire a maggior impatto sociale, indipendentemente da quanto le due imprese sfruttino tecnologie interattive (per esempio per la comunicazione e la discussione dell’esito di esami clinici). Misurare l’impatto con precisione può essere proibitivo, ma riconoscerlo – magari in relativo a una situazione benchmark in cui è assente – non è un gran problema. A volte, è anche possibile dimensionarlo almeno approssimativamente, ad esempio su una scala Likert (da 1 a n, con n tipicamente dispari, e declaratorie del tipo che va da “1-nessun impatto” a “n-forte impatto sull’intero sistema”)[17].
Un terzo criterio è quello semantico sopra accennato (Romer-Sundararajan). Una formulazione semplice è chiedersi se sostituendo l’aggettivo ambiguo “sociale” con il più preciso “prosociale” (o “inclusivo”, o perfino “relazionale” nel senso dei beni così chiamati) faccia storcere il naso oppure no. Nel primo caso bisogna drizzare le antenne e non dare per scontata la “socialità” di ciò che si sta considerando. In generale, la distinzione è fra attività che sono costituzionalmente dirette ad aumentare il benessere personale e/o collettivo (prosociali) e attività che richiedono solo un’interazione diretta con altri individui (interattive).
Un quarto criterio prevede di guardare alle risorse che sono state eventualmente sacrificate per migliorare la “socialità” dell’attività considerata. Tipicamente, nell’economia sociale queste risorse – che avrebbero potuto essere monetizzate e non lo sono state – esistono e sono abbastanza evidenti: donazioni o erogazioni, garanzie, rinuncia a profitti, rinuncia a parte di remunerazioni finanziarie o del lavoro, prestazione gratuita di tempo e di lavoro[18]. Se non ci sono sacrifici di risorse mi pare difficile chiamare “sociale” – e non for profit – un’attività economica, che comunque non avrebbe potuto produrre maggiori rendimenti.
Per tornare alla sharing economy: Uber permette ai guidatori di guadagnare un reddito di sopravvivenza sfruttando meglio la loro automobile e aumenta la disponibilità di taxi per i clienti, riducendone un po’ il costo, come farebbe un indebolimento della regolamentazione: è un modo più efficiente di sfruttare le risorse – forse, perché andrebbe considerato l’effetto sull’obsolescenza delle automobili – ma non mira direttamente ad un impatto sulla vita delle persone, non è gestito gratuitamente, sfrutta di fatto il lavoro nero dell’“esercito di riserva” e aggira una serie di normative a impatto sociale, particolarmente quelle che impongono parità di trattamento per tutti i clienti. Qualcosa di simile si può dire di Airbnb. Come Pais e Provasi, concludo allora che molta della sharing economy è interattiva, forse efficiente, ma non prosociale.
I social network sono un caso più sfumato: benché non gestiti solo per il benessere delle persone[19], e benché il tipo di interazione sociale che essi implicano possa essere problematico, i fattori economici sono meno estremi; inoltre, possibilità e gradimento di una maggior interazione sociale tra i partecipanti sono evidentissimi, più diffusi (riguardano molte persone) e profondi (possono cambiare la vita di ogni persona). Che il “capitale sociale” lì creato non sia sempre positivo è forse una realtà, ma non è specifica dei social network: mafie, gruppi politici estremisti, sette religiose e altri ci sono riusciti benissimo nella storia anche senza tecnologie avanzate (Ferguson, 2017); e così i loro contraltari “positivi”, come le mutue, i gruppi politici patriottici o democratici (Carboneria, Giustizia e Libertà, ecc.), le confessioni mainstream, che hanno prodotto effetti prosociali importanti pur con tecnologie minimali. La tecnologia determina l’estensione, più che la natura, degli effetti prodotti a valle.
L’economia sociale, come intesa qui, è l’insieme di operatori e operazioni a contenuto economico la cui ragion d’essere – ciò che le sue organizzazioni (o le attività all’interno di organizzazioni più grandi) si prefiggono costituzionalmente – è il raggiungimento di cambiamenti favorevoli nelle vite degli individui che ne sono attori o utenti. Un loro marker tipico è il fatto che qualcuno sacrifichi risorse per il bene comune: risorse finanziarie, economiche, o in natura.
Ho argomentato che per evitare confusioni, quando descriviamo un pezzo di economia che pretendiamo “sociale”, è opportuno controllare se la descrizione regga la sostituzione di “sociale” con “prosociale” o “inclusivo”: fatto intenzionalmente allo scopo di migliorare le condizioni di vita, private e/o collettive, di un gruppo specifico di individui altrimenti esclusi. Questo è il criterio semantico. Altri parametri di distinzione sono quelli che guardano: la natura dell’organizzazione che gestisce il network (se sia essa stessa, nella sostanza, “sociale” o no); il controllo sulle risorse sacrificate sull’altare della socialità; e l’apprezzamento dell’impatto – almeno nel senso di descrivere la pluralità degli outcome raggiunti – dell’attività svolta.
Credo che questo eviti confusioni dell’economia sociale tradizionale con la sharing economy; Uber o Airbnb non hanno quella ragion d’essere, qualsiasi cosa esse affermino nei loro mission statement; non sono gestiti da organizzazioni “sociali”; non hanno un impatto “sociale” che vada al di là della maggior disponibilità e diminuzione dei costi per gli utenti. Forse migliorano l’efficienza complessiva del sistema economico, nello stesso modo in cui agirebbero nuove tecnologie non-interattive o una riduzione dell’eccesso di regolamentazione. Se lo fanno sono benvenute, ma per quanto mi riguarda non “sociali”.
Non è che tutta la sharing economy sia a-sociale: ricordiamo l’inserimento di parte del crowdfunding, del time sharing e del couchsurfing nell’ambito della reciprocità; e non è che la tecnologia in genere sia socialmente neutra; ma spesso la socialità della prima non è più che un gioco di parole, e quella della seconda un effetto non intenzionale.
Distinguere non significa rigettare[20]. Nei limiti in cui è desiderabile che si sviluppi una maggiore densità di contatti sociali, più diffusi anche se non necessariamente profondi (ma sappiamo bene che i “legami deboli” possono alla fine esercitare forti impatti), possiamo argomentare che la sharing economy aumenta il “capitale sociale”. Personalmente preferisco pesare, oltre che contare, i legami fra persone nel valutare il capitale sociale; e forse qualche volta assegnare un peso negativo ad alcuni legami (es. i miei con alcuni “leoni da tastiera” che avvelenano Facebook). È anche vero che a forza di isolarsi dentro un orgoglioso castello, prima o poi si perisce, e l’economia sociale non fa eccezione. Forse meglio considerarsi una delle sfumature di grigio negli assi che descrivono le attività tra economiche e sociali, le tecnologie fra “fredde” e interattive, e le motivazioni fra il lucro e l’impatto sulle vite altrui.
DOI: 10.7425/IS.2018.11.07
Grazie a Marco Morganti e Marco Demarie per le molte discussioni sull’economia sociale; il primo, anche per avermi stimolato a lavorare su queste cose in Banca Prossima e ora nell’iniziativa Impact del gruppo Intesa Sanpaolo. Ringrazio Ivana Pais per avermi introdotto acutamente alla sociologia economica della sharing economy. Senza Jelena Krsmanovic non avrei tradotto lo sticker sull’economia sociale in esergo (immetterlo nel Google Translator per credere). Tutto quanto scritto qui è responsabilità esclusivamente mia; in particolare, non riflette né implica opinioni di alcuna entità del gruppo Intesa Sanpaolo o delle persone citate.
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