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ISSN 2282-1694
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Editoriale

I confini del Terzo settore

Flaviano Zandonai, Luca Gori

Saggi

Imprese sociali e governance inclusiva

Silvia Sacchetti

Disciplina dell'impresa sociale: gli stakeholder

Antonio Fici

Le istituzioni nonprofit in forma societaria

Chiara Carini, Massimo Lori, Valerio Moretti, Carla Troccoli

Casi studio

Ecosistemi d'innovazione sociale: il caso Includi.MI

Denise Di Dio, Marzia Mortati, Stefano Maffei

Numero 11 / 2018

Casi studio

Sperimentare l'introduzione di nuove competenze per rafforzare gli ecosistemi dell'innovazione sociale. Il caso di Includi.MI

Denise Di Dio, Marzia Mortati, Stefano Maffei

Introduzione

Oggi il settore pubblico sta subendo una profonda trasformazione, in particolare a livello locale, dove spesso ricade la prima responsabilità di affrontare nuove sfide sociali (Sabatinelli, Semprebon, 2017). Per rispondere alla complessità di queste problematiche le amministrazioni locali, ancor più dei governi nazionali, hanno la possibilità di far leva su approcci basati sulla combinazione di design for policy e nuova imprenditorialità sociale (Grimm et al., 2013; OCSE, 2016). In particolare, dopo anni di esperimenti sull’innovazione sociale prolifici ma raramente messi a sistema (una raccolta è offerta in Alulli et al., 2017), le amministrazioni locali sembrano pronte per una visione più ampia delle opportunità delle politiche per l’innovazione sociale, che richiedono però una governance funzionale così come modelli e strumenti – finanziari e non – adatti a far scalare l’impatto delle imprese sociali nel tempo e nella loro capacità di risposta ai bisogni dei cittadini.

Nel campo delle politiche pubbliche l’accostamento tra approccio per ecosistemi, innovazione sociale e imprenditoria sociale non è nuovo, al contrario è stato più volte raccomandato a partire dalla Comunicazione della Commissione Europea (Commissione Europea, 2011) che ha rilanciato le politiche per l’impresa sociale a livello comunitario ponendo l’obiettivo di “costruire un ecosistema per promuovere le imprese sociali al centro dell’economia e dell’innovazione sociale”. Pochi anni dopo è stata pubblicata una prima mappatura sull’impresa sociale a livello europeo (Commissione Europea, 2014) che considerava gli ecosistemi come insieme di attori e di politiche sistemiche per lo sviluppo e la crescita delle imprese sociali. Più recentemente, Georghiou (2018), guardando al prossimo Programma Quadro e riferendosi al tema più ampio dell’innovazione sociale, ha offerto una lettura degli ecosistemi che di fatto mette al centro le relazioni e i flussi di scambio tra gli attori che li compongono, riconoscendo un ruolo centrale al procurement pubblico e in genere alla creazione di domanda per rendere sostenibile e scalabile questa tipologia di innovazione. Questo richiamo sembra rispondere a quanto già evidenziato da Nogales e Zandonai (2014), ossia la mancanza di attenzione, da parte delle policies, al funzionamento degli ecosistemi, e di investimenti non solo su un’articolazione quanto più completa degli attori che lo compongono, ma anche in strumenti e modelli che influiscano sul loro sviluppo, scalabilità e sostenibilità, e cioè su come “vive” l’ecosistema e con quale metabolismo.

Il progetto Includi.MI, sostenuto da Fondazione Cariplo e realizzato dai dipartimenti di Design e Management del Politecnico di Milano, fa propria questa visione dell’ecosistema, inteso come rete di relazioni interdipendenti e orchestrate tra organizzazioni (pubbliche e private nonché singoli attori) per la creazione collaborativa di valore pubblico e per il governo della città (Visnjic et al., 2016). In particolare il progetto, concepito come una sperimentazione finalizzata a lavorare con attori dell’innovazione sociale – pubblici e privati – della città di Milano, coglie quanto suggerito anche in Georghiou (2018) sull’importanza del ruolo del procurement pubblico per gli ecosistemi, e al contempo sulla carenza di competenze nelle imprese sociali e nelle amministrazioni pubbliche per questa tipologia di strumenti, così come per il trasferimento tecnologico (che in relazione all’innovazione sociale implica processi di co-creazione e co-progettazione). Si è quindi sperimentato un format di capacity building, replicabile in altre città, finalizzato da un lato a sviluppare competenze e capacità dei dipendenti pubblici e degli innovatori sociali su strumenti di procurement, politiche per l’impatto sociale, principi e pratiche di design for policy; dall’altro lato ad aprire e ampliare l’ecosistema dell’innovazione sociale locale, sviluppando nuovi modelli di governance partecipata.

Una nuova generazione di politiche per l’innovazione sociale nei contesti urbani

È a livello comunale che lo squilibrio tra la scarsità di risorse pubbliche e l’ampiezza dei problemi pubblici diventa più visibile e d’impatto. Come evidenziano Chindarkar e colleghi (Chindarkar et al., 2017: 8), si tratta di un crocevia fondamentale caratterizzato da nuove e più complesse sfide pubbliche: “Social problems have become a more clear and present challenge in both developed and developing countries. Volatile economies, rising inequality, changing demographics, humanitarian crises, and changing environmental conditions are posing new challenges and creating complex social problems.” Analisi recenti (KPMG, 2018) confermano questi trend anche per l’Italia, ed evidenziano ulteriori fattori critici tra cui una maggiore instabilità nel mercato del lavoro e nella gestione del flusso di migranti, una diversificazione delle strutture familiari, lo spopolamento delle aree interne e i cambiamenti epidemiologici.

La portata di queste sfide sociali a livello europeo è stata stimata nella relazione “Boosting Investment in Social Infrastructure in Europe” (Fransen et al., 2018) sviluppata dalla task force sull’investimento nelle infrastrutture sociali in Europa, grazie all’impulso della European Long-Term Investors Association (ELTI). Il rapporto stima tra i 100 e 150 miliardi di euro il divario minimo annuo di investimenti relativi all’istruzione, all’assistenza sanitaria e all’edilizia popolare. Se potenziate attraverso nuovi investimenti, queste aree sono considerate in grado di sostenere l’evoluzione dei sistemi di welfare, ridurre la disoccupazione e aumentare la produttività accompagnando l’Unione Europea verso una crescita inclusiva. La relazione raccomanda pertanto lo sviluppo di un piano europeo per le infrastrutture sociali volto alla raccolta di risorse finanziarie attraverso l’integrazione di fondi pubblici e privati, sottolineando tuttavia come i responsabili politici necessitino non solo di investimenti ma anche di nuovi strumenti e approcci per affrontare la complessità e il ritmo delle trasformazioni socio-economiche.

Soprattutto a livello locale, il modello dell’intervento pubblico dovrebbe basarsi su un’architettura di governance che funzioni come strumento di abilitazione di partenariati pubblico-privati, reti locali e società civile, valorizzando i ruoli degli stakeholder e facilitando la costruzione e il funzionamento dell’ecosistema. Molte amministrazioni stanno attualmente sperimentando questi elementi, con particolare riferimento alla governance dei beni pubblici, come nel caso dei Comuni di Milano e Bologna, e stanno lavorando a nuovi modelli (come quelli analizzati in Lefèvre, 1998; Swyngedouw, 2005; Foster, Iaione, 2015) per creare arene di riflessione collettiva circa un approccio pragmatico al policy making.

Per quanto riguarda la leva della domanda di innovazione sociale che può sostenere e distribuire queste architetture di governance, professionisti e accademici suggeriscono che gli strumenti di procurement e investimento pubblico potrebbero seguire accordi basati sui risultati, quali schemi Pay-by-Result (PbR) e Social Impact Bonds (SIB) che collegano l’esborso finanziario al raggiungimento di impatti sociali predefiniti e misurabili, piuttosto che al raggiungimento di input o output specifici. Questi schemi, attualmente sperimentati in diversi paesi con risultati contrastanti, dovrebbero allineare gli interessi degli attori pubblici e privati verso soluzioni migliori, tuttavia vengono ancora accolti con cautela (Edmiston, Nicholls, 2018; Maier, Meyer, 2017; Arena et al., 2016). La maggior parte delle analisi sugli attuali fondi outcome-based indicano diversi rischi per le imprese sociali, gli investitori sociali e i cittadini, tra cui: incentivi perversi e mission drift per gli innovatori sociali, commercializzazione di servizi pubblici, elevati costi di transazione ed eccessiva attenzione alla misurazione di impatto piuttosto che all’implementazione di un progetto (Edmiston, Nicholls, 2018).

Inoltre, nonostante l’interesse verso questi nuovi strumenti finanziari e accordi di governance, sia i responsabili politici che gli innovatori sociali mostrano ancora una comprensione poco approfondita dell’argomento e scarsa capacità di far fronte all’aumento della complessità che un tale cambiamento comporterebbe, tra cui l’impegno nel medio-lungo periodo delle parti interessate, la gestione di proprietà intellettuale, la misurazione dell’impatto sociale. E ancora, per quanto riguarda il settore privato, la domanda e l’offerta di finanziamenti a impatto sociale nel mercato italiano (Chiodo, Gerli, 2017) presenta delle fragilità legate all’investment readiness delle imprese sociali italiane che sembrerebbero necessitare di un rafforzamento delle competenze prima di impegnarsi in accordi basati sui risultati. L’adozione richiederà quindi l’introduzione di metodi complementari per raggiungere, da parte di tutte le parti interessate, una maturità maggiore, anche mettendo la co-creazione al centro della gestione della città, come strumento di trasparenza e ingaggio nella governance di cittadini, innovatori sociali e imprese.

Questo è quanto sta accadendo a Milano, dove si sta applicando il co-design, il crowdfunding civico, i partenariati pubblico-privati e l’intelligenza collettiva nella risoluzione delle problematiche locali e il sostegno di organismi intermediari offerti come spazi aperti e stimolatori dell’ecosistema alla città, come BASE Milano e Milano Luiss Hub per Maker e Studenti. Guardando in senso più ampio alla situazione italiana, gli amministratori locali dovrebbero esaminare attentamente questi casi, per passare da una relazione one-to-one ad una visione più sistemica volta a costruire ecosistemi funzionali di innovazione sociale, dove attori pubblici e privati possano cooperare come pari (Jacobides et al., 2018; Montanari et al., 2017). Tali ecosistemi potrebbero da un lato sfruttare le nuove caratteristiche delle imprese sociali per fornire servizi pubblici ad alto impatto sociale ai cittadini, e dall’altro potrebbero costruire la loro struttura di governance utilizzando progettazione e co-creazione come leve centrali per lo sviluppo e la fornitura di servizi. Ciò è particolarmente utile per co-creare servizi pubblici (Christiansen, Bunt, 2012; McGann et al., 2018) che sostengano l’emergere di collaborazioni aperte e che rendano il governo tangibile attraverso artefatti, esperienze e ambienti aiutando così diverse categorie di utenti a proporre e condividere idee (Tunstall, 2007; Rosernqvist, Mitchell, 2016). Tuttavia, l’efficacia di questi esperimenti è raramente applicata con effetti a lungo termine, in quanto approcci più legati alla progettazione inclusiva e alla creatività raramente fanno uno scaling up dopo la prima sperimentazione.

Design for policy e la co-creazione del valore pubblico

Parallelamente al rinnovo e al rafforzamento dell’idea di collaborazione pubblico-privato per il raggiungimento di obiettivi sociali, stiamo assistendo all’emersione di una nuova serie di opportunità per lo sviluppo di politiche sociali innescate dalla disponibilità di nuove tecnologie (ad es. intelligenza artificiale, blockchain, ecc.). Queste ultime stanno trasformando sia i modelli di business ed il modo in cui l’innovazione viene sviluppata nel settore privato, che i meccanismi con cui le amministrazioni pubbliche possono innovare i processi di formulazione e implementazione delle politiche (es. progettazione e sviluppo di servizi pubblici). Infatti, le tecnologie stanno determinando importanti cambiamenti nelle procedure di gestione della pubblica amministrazione e nei risultati politici (Yi, 2015).

Se le tecnologie sembrano essere un filo conduttore importante per fornire nuovi tipi di risultati per le politiche sociali e ripensare le procedure amministrative pubbliche, insieme a queste vengono sperimentati anche nuovi ambienti digitali e approcci creativi (ad esempio il design for policy) per rispondere alla nuova richiesta di inclusione nella formulazione di politiche pubbliche. In particolare, il design sta diventando un alleato di queste ed altre sperimentazioni per l’innovazione nel settore pubblico poiché in grado di rendere tangibili i risultati delle politiche (ad esempio in termini di servizi pubblici) per i cittadini e altre parti interessate (Tunstall, 2007), sostenendo un processo di co-creazione e fornendo i mezzi procedurali per rendere l’uso delle risorse pubbliche più trasparente. Più in dettaglio, il ruolo del design a supporto del policy making è sempre più evidente attraverso la fornitura di metodi per l’ingaggio dei cittadini, la definizione di servizi pubblici migliori ed il crescente supporto per la revisione dei processi governativi (Junginger, Sangiorgi, 2011). Soprattutto nel Nord Europa e nel Regno Unito, nuovi modelli per l’innovazione pubblica sono sperimentati già dall’inizio del 2000.

In letteratura si possono trovare connessioni esplicite tra design dei servizi e innovazione sociale, laddove la possibilità di supportare le amministrazioni pubbliche per fornire servizi migliori è stata studiata più frequentemente, sottolineando lo sviluppo di processi più efficaci e human-centred (Junginger, 2017), l’idea della partecipazione grassroots (Manzini, 2015) e le possibilità di aiutare gruppi e comunità di attivisti a proporre modelli economici e sociali alternativi (Julier, 2017). Mentre molti di questi contributi si sono concentrati sulla co-progettazione di servizi pubblici, Mulgan (2014) ha cercato di capire più da vicino cosa funziona quando si utilizza il design per risolvere problemi pubblici, sostenendo che un miglioramento chiave dovrebbe riguardare la connessione negoziata del design con altre pratiche. Il dibattito in questo settore riguarda anche l’efficacia dei metodi di co-creazione, il livello di implementazione dei servizi co-progettati, la nozione di co-produzione, il livello di competenza dei partecipanti e la loro responsabilità come rappresentanti di gruppi più ampi (Meroni, Sangiorgi, 2011). La fenomenologia delle organizzazioni che forniscono sostegno ai governi utilizzando anche il design è in rapida crescita, anche se rimangono molti dubbi sul contributo specifico che questa professione apporti nella pratica. Junginger (2013), sottolineando che le competenze progettuali spesso devono solo essere scoperte piuttosto che introdotte nelle organizzazioni pubbliche poiché già presenti in molte pratiche, ha identificato quattro aree principali in cui il design è utilizzato per la definizione di politiche: (1) comunicazione, per comunicare le politiche esistenti; (2) implementazione, per tradurre le politiche esistenti in prodotti e servizi; (3) influenza, per dare forma alle nuove politiche anche grazie ad approfondimenti emersi durante la creazione di prodotti e servizi; (4) co-creazione, per immaginare politiche future basate su una comprensione dei problemi pubblici centrata sulle persone.

Questa visione, sebbene focalizzata solo sul design come pratica professionale esterna, non riuscendo quindi a discutere l’acquisizione/presenza di competenze progettuali direttamente da parte dei policy maker, è utile per identificare una scala di inclusione del design nelle politiche, dal livello base di comunicazione di un messaggio deciso dall’amministrazione, al ruolo più strategico di legame per coinvolgere le persone nella co-creazione pubblica. Questa proposta è completata dagli approfondimenti proposti da Bailey e Lloyd (2016) che hanno studiato le attività del Policy Lab inserito nel governo britannico descrivendo il design come un insieme di metodi che guidano verso una nuova “governmentality” e sfidando i metodi accettati di intelligenza performante (individuale contro collettiva, scritta contro visuale). Questi studiosi sembrano proporre un passaggio importante dal progettista come consulente alla progettazione come abilità interna al governo ed al servizio di funzionari pubblici per creare valore pubblico (Benington, 2011). Questa posizione è supportata da studiosi di altre aree, ad esempio Bromell (2012) afferma che la creazione di valore pubblico richiede che i funzionari pubblici si impegnino in conversazioni creative, co-design e co-produzione con una serie di stakeholder, attraverso relazioni rispettose, pensiero critico e collaborazioni strategiche; nell’ambito del design partecipativo, Le Dantec e Di Salvo (2013) discutono il cosiddetto infrastructuring come pratica centrale nella deliberazione pubblica e tipico esempio di come costituire un piano di pubblico coinvolgimento; in una prospettiva basata sulla pratica, Yee e White (2015) descrivono tre condizioni principali per il design per ottenere impatto nelle organizzazioni pubbliche e del terzo settore – leadership, competenza, costruzione di comunità – scoprendo che il terzo elemento – combinato con un approccio bottom-up basato sulla fiducia, sulle critiche positive e sulle relazioni – è il più importante. Queste posizioni identificano quindi un’area di dibattito più significativa che suggerisce un nuovo ruolo per il design nello sviluppo di politiche pubbliche, dall’attuazione delle politiche dove il designer è visto come consulente esterno per sviluppare servizi migliori e comunicare le iniziative delle amministrazioni sostenendo il processo decisionale attuato da altri, ad attuatori di un approccio utile a creare ecosistemi per l’impatto sociale e co-creare valore pubblico.

Includi.MI: contesto e approccio

Data la complessità del contesto e degli obiettivi, Includi.MI si è configurato come una sperimentazione volta a lavorare con attori pubblici e privati impegnati in processi di innovazione sociale nella città di Milano per capire il modo migliore per arrivare gradualmente a politiche della domanda di innovazione sociale, capaci di stimolare la sostenibilità e scalabilità di queste soluzioni. Più specificamente, il progetto ha mirato a inquadrare e sperimentare la fornitura di strumenti, competenze e connessioni in grado di rafforzare l’ecosistema dell’innovazione sociale locale, sviluppando allo stesso tempo un format replicabile per lo sviluppo di competenze anche in altri contesti urbani.

Il progetto si è articolato lungo quattro linee d’azione. La prima è stata finalizzata allo sviluppo e rafforzamento delle competenze dei dipendenti pubblici, in particolare nella progettazione di politiche pragmatiche, nella definizione di nuovi strumenti – come i meccanismi contrattuali Pay-by-Results e i Social Impact Bond – e la misurazione dell’impatto sociale generato da fornitori e partner. Inoltre, come secondo obiettivo, il capacity building ha riguardato lo sviluppo e rafforzamento delle competenze degli innovatori sociali finalizzate a comprendere processi e meccanismi di interazione e dialogo con la PA e a misurare l’impatto sociale generato dai propri interventi, puntando alla costruzione di schemi innovativi di collaborazione pubblico-privato basati sulla rendicontazione di un impatto sociale misurabile. La terza linea di azione è stata finalizzata all’apertura e ampliamento dell’ecosistema dell’innovazione sociale locale attraverso l’identificazione e connessione diretta di innovatori sociali e innovatori della PA, ingaggiati su sfide locali condivise. Infine, innovatori sociali e funzionari pubblici hanno collaborato all’individuazione di nuovi modelli di governance partendo dalla mappatura e analisi dell’attuale politica ed ecosistema locale per l’innovazione sociale, per arrivare a una più efficace inclusione di cittadini e imprenditori sociali nel ciclo di design e implementazione delle politiche.

Queste linee d’azione riflettono un approccio multidisciplinare che combina design e strumenti gestionali, che riteniamo possano contribuire a costruire ecosistemi di innovazione sociale locale in modi nuovi e più efficaci, promuovendo al tempo stesso partenariati pubblico-privato orientati alla generazione di impatto sociale (Di Dio, Mortati, 2017). Includi.MI, più in generale, si basa sull’idea che le abilità e le competenze professionali provenienti dai progettisti hanno un ruolo rilevante nelle politiche per gli ecosistemi dell’innovazione sociale (Junginger, 2017), in cui gli strumenti di progettazione possono integrare approcci gestionali per allineare meglio le sfide e le opportunità e creare una governance più inclusiva in cui la pubblica amministrazione e l’imprenditoria sociale cooperino più sistematicamente.

Al fine di orientare con maggiore efficacia le diverse attività del progetto, prima dell’avvio del percorso di capacity building è stata realizzata una mappatura delle politiche comunali per l’innovazione sociale a Milano, finalizzata in particolare alla comprensione dell’approccio del Comune al finanziamento e al sostegno dell’innovazione sociale e dell’articolazione dei soggetti coinvolti. L’analisi ha riguardato tutti gli interventi che citano espressamente l’innovazione sociale realizzati tra il 2012 e il 2017, in particolare dalla Direzione per l’economia urbana, per un totale di 20 azioni complessive. In parallelo, sono stati intervistati alcuni degli innovatori sociali più attivi sul territorio che sono stati coinvolti dalle politiche del Comune.

Tale mappatura contribuisce a completare le numerose analisi delle politiche di innovazione sociale a Milano (si veda per esempio Sgaragli e Montanari, 2016), offrendo una lettura delle diverse tipologie di soggetti coinvolti e di strumenti di intervento adottati, mettendo a disposizione, attraverso di essa, alcune riflessioni su processi e capacità di stabilire efficaci collaborazioni pubblico-privato e costruire ecosistemi equilibrati. In sintesi, la mappa, che non viene approfondita in questo articolo, suggerisce che il Comune di Milano nel tempo ha adottato tre principali strumenti di intervento, basati su bandi pubblici, l’avvio di soggetti intermediari a presidio di temi specifici, o processi di consultazione pubblica.

Per la nostra analisi è stato interessante osservare le iniziative legate a gare di appalto o bandi per incentivi rivolti a soggetti “intermediari” che forniscono servizi di accelerazione, incubazione, co-working, animazione territoriale (es. FabriQ, Speed Mi Up, BASE). Questi soggetti stanno gradualmente assumendo un ruolo di riferimento per specifiche comunità di soggetti, contribuendo anche a processi di rigenerazione urbana sebbene tale finalità non venga sempre esplicitata e formalizzata tra gli obiettivi. Dall’analisi e dalle interviste emergono come attori fondamentali intorno ai quali strutturare l’ecosistema e quindi da rafforzare con competenze specifiche che permettano loro eventualmente anche di prendere posizioni guida e di riferimento nei rispettivi ambiti di azione (fablab, attivazione culturale, imprenditoria sociale, ecc.). Anche i processi di consultazione e partecipazione pubblica che negli anni sono stati rivolti ai cittadini e ad associazioni e organizzazioni intermedie, si stanno gradualmente intensificando, mostrando un’evoluzione temporale nell’approccio utilizzato dallo stesso Assessorato che ha posto un’attenzione progressiva alle azioni di coinvolgimento diretto di beneficiari, esperti e cittadinanza, grazie anche ad alcune sperimentazioni promosse attraverso finanziamenti europei.

In sintesi l’analisi conferma l’intensità dell’impegno del Comune sul tema dell’innovazione sociale, espressa da un accurato lavoro di sostegno diretto e abilitazione di singole organizzazioni, imprese e hub innovativi, che ha prodotto uno tra i più fertili ecosistemi per l’innovazione sociale in Italia. Ciononostante, sia dall’analisi delle policy che dalle interviste agli innovatori sociali, nel corso del progetto è risultata ancora debole la capacità di questi attori di connettersi sistematicamente in un ecosistema funzionante e sorretto da una governance inclusiva.

La Scuola di Design e Social Impact

Su quest’ultimo aspetto ha provato a intervenire la Scuola di Design e Social Impact di Includi.Mi, che è stata indirizzata sia all’amministrazione pubblica che agli innovatori sociali attraverso due giorni di lavoro e formazione collettiva. Basandosi su un framework di competenze sviluppato recentemente da Nesta (Christiansen et al., 2018 – Fig. 1), la scuola si è configurata come una prima sperimentazione di alcuni tratti ritenuti cruciali per la risoluzione di problemi pubblici complessi, con particolare attenzione alle caratteristiche tipiche del design (es. prototipazione, storytelling, osservazione degli utenti, ecc.), ossia:

  • lavorare insieme: costruire ponti, come capacità di orchestrare interazioni per creare terreno comune e appartenenza;
  • consapevolezza politica e amministrativa: storytelling e advocacy, come capacità di usare narrative e media per articolare la visione e l’informazione in modo convincente;
  • accelerazione dell’apprendimento: prototipazione e iterazione, come capacità di testare idee e migliorarle sistematicamente.

Figura 1. Competenze per la risoluzione dei problemi complessi nelle politiche pubbliche. Fonte: Nesta (Christiansen et al., 2018)

Queste competenze sono state affrontate attraverso un programma di due giorni. Durante il primo giorno, dedicato a sessioni di approfondimento tematico, si sono tenute conferenze e presentazioni di casi studio di esperti provenienti da diversi settori. In particolare, le lezioni hanno fornito esempi e informazioni sui nuovi strumenti finanziari per l’imprenditoria sociale – come Social Impact Bonds e schemi Pay-by-Results – e pratiche di misurazione di impatto sociale. Il secondo giorno, dedicato alla progettazione di esperienze di policy, è stato strutturato partendo da una lezione iniziale per introdurre l’approccio, seguita da sessioni di co-design e lavoro pratico, finalizzato in particolare a stimolare i partecipanti attraverso una serie di attività concrete volte a fornire una prima comprensione delle competenze menzionate. Il programma può essere considerato innovativo per almeno due motivi. Innanzitutto, coinvolge i rappresentanti della pubblica amministrazione e dell’imprenditoria sociale attivi nell’area metropolitana di Milano, in un luogo di lavoro tra pari (non solo regolatore o soggetto regolato) e favorevole alla ricerca di linguaggi e obiettivi comuni. In secondo luogo, il programma combina lezioni tradizionali con sessioni di co-design e apprendimento sperimentale, basate sull’idea che una politica fondata su partnership per l’impatto sociale dovrebbe necessariamente responsabilizzare congiuntamente funzionari pubblici e innovatori sociali, sviluppando le loro competenze per collaborare e comprendere le sfide pubbliche in modo nuovo.

Valutazione critica e sfide future

Gli apprendimenti chiave del progetto sono in linea con la recente discussione sugli ecosistemi europei per l’innovazione sociale. Anche se non abbiamo avuto l’opportunità di concentrarci sulla domanda di innovazione sociale e sugli appalti pubblici, ai quali anche Georghiou (2018) attribuisce un ruolo importante, questo tema è emerso regolarmente come elemento chiave per uno sviluppo sistematico dell’ecosistema dell’innovazione sociale e si è confermato il bisogno di accompagnare l’emergere di una nuova finanza pubblica capace di riflettere la complementarietà di obiettivi sociali ed economici con lo sviluppo di una nuova serie di competenze, tra cui quelle legate alla progettazione e guida degli ecosistemi.

Al fine di costruire una partnership pubblico-privata per l’impatto sociale, è necessario che i responsabili politici agiscano come “collaborative institutional ecosystem managers” (Foster, Iaione, 2015: 337) piuttosto che semplici regolatori, e che gli innovatori sociali siano consapevoli e disposti a condividere le responsabilità in merito alle politiche e ai beni comuni. Un caso che va in questa direzione sembra essere quello proposto da Torino Social Impact (TSI), nato a fine 2017 con la firma di un Memorandum of Understanding e presentato a febbraio 2019, come piattaforma aperta ai soggetti che operano nel campo dell’innovazione sociale e della finanza ad impatto sull’area metropolitana della Città di Torino. In questo contesto sembra che i ruoli degli amministratori pubblici e degli innovatori sociali si stiano ibridando, facendo sfumare anche la tradizionale distinzione tra approcci top-down e bottom-up e proponendo un modello nel quale attori istituzionali e civici cooperano sempre più a livello intermedio, in arene di apprendimento aperte con strutture di co-gestione auto-organizzanti (Schauppenlehner Kloyber, Penker, 2016).

Ciononostante, come emerge anche dal progetto Includi.Mi, la costruzione di tali partenariati richiede una tabella di marcia a lungo termine per una trasformazione più profonda della competenze di funzionari pubblici e di innovatori sociali, oltre alla volontà di cooperare come pari e di ricostruire la fiducia e la coesione sociale. Una trasformazione che è ancora più rilevante quando si suppone che le partnership adottino schemi basati sui risultati, in cui relazioni di fiducia e cooperazione sembrano rilevanti quanto la consapevolezza tecnica. Includi.MI, grazie all’impegno positivo di pubblica amministrazione e innovatori sociali, potrebbe rappresentare un primo passo in questa direzione.

DOI: 10.7425/IS.2018.11.05

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