È possibile ampliare il concetto di impresa sociale fino a comprendere imprese for profit posizionate fuori dai confini fissati dalla definizione ex lege? La risposta a questa domanda necessita di un cambio di punti di vista: la gestione dell’eventuale surplus non può più essere una discriminante di ciò che viene inteso come impresa sociale. E’ necessario muovere l’attenzione verso i processi che invece permettono di realizzare l’impatto sociale a prescindere da ciò che accade dal lato degli eventuali profitti. Fatto ciò, è quindi importante capire quale determinante di questi processi può essere posta alla base della creazione di impatto sociale anche in presenza di soggetti che perseguano fini for profit. In particolare, l’impresa for profit dovrà essere vista nel contesto del più ampio network di stakeholder che deve essere mobilitato per raggiungere i fini sociali. La mobilitazione degli stakeholder ha il ruolo fondamentale di “far quadrare il cerchio”, cioè di permettere ad attori for profit di raggiugere fini sociali, e di poter quindi essere assimilati concettualmente all’idea di imprese sociali. Questo tuttavia non può avvenire lasciando invariate le organizzazioni che decidono di intraprendere questa strada (non ancora riconosciuta, e forse difficilmente catturabile, dalla legge). Appare evidente, infatti, come la mobilitazione degli stakeholder a fini sociali influenzi profondamente i confini dell’impresa: quando gli attori operano sulla base di valori condivisi finalizzati a raggiungere un certo impatto sociale, le imprese parte del network devono optare per comportamenti trasparenti, rendendo ulteriormente permeabili i propri confini. Per rendere evidente questo processo, andremo ad analizzare un network di organizzazioni costituito da piccole imprese manifatturiere, organizzazioni non profit e gruppi di acquisto solidale che, senza rinunciare ognuno alla propria vocazione, hanno sviluppato un modello virtuoso di produzione finalizzata sia al raggiungimento di un impatto sociale che alla sostenibilità economica delle imprese partecipanti. In questo caso vedremo che le imprese for profit possono mobilitare una rete di stakeholder a fini sociali a patto di gestire la propria filiera attraverso quella che chiameremo global openness, intesa non solo come trasparenza dei processi interni all’impresa ma anche come necessità di rendere trasparente l’intera catena del valore, ben oltre i propri confini e quelli dei propri partner diretti.
In this paper we explore the boundaries of social enterprises. First, it is possible to consider as social enterprises also companies that are not explicitly configured as social enterprises ex lege? We first discuss the concept of social enterprise, claiming we should opt for a definition that includes also for profit firms that obtain social impact mobilizing a larger network of stakeholders. Stakeholders’ engagement allows to bring together different perspectives and different interests, blending profit and non profit approaches. Second, we discuss how this mobilization impacts the boundaries of the firm, arguing that when operating on the basis of shared values (i.e., fair trade and bio products) firms must opt for transparent behaviors, blurring their boundaries even more and adopting what we call global openness. We substantiate these ideas developing a case study on a network of different organizations, among which some firms of the textile district of Novara, producing fair and bio clothes.
Il contesto italiano, che vanta circa 11 mila e ottocento cooperative sociali[1] (Venturi, Zandonai, 2012), 235 mila istituzioni private non lucrative (Barbetta, Cima, Zamaro, 2003), 5 milioni di utenti del settore non profit e un volume di affari dello stesso settore di circa 10 miliardi di euro, si configura come humus ideale per la proliferazione di un istituto come l’impresa sociale, un fenomeno complesso che include una varietà di attori, sbocchi e bisogni (Borzaga, Zandonai, 2009) e che si abbevera in gran parte delle esperienze del non profit. E tuttavia la normativa dedicata[2] non è stata in grado di cogliere il potenziale ancora inespresso di questo humus, dato che, secondo i dati pubblicati da Iris Network (Venturi, Zandonai, 2012), le imprese che hanno assunto la forma giuridica di impresa sociale sono una frazione molto contenuta dei soggetti che potenzialmente potrebbero aspirare ad acquisire tale denominazione: sono 365 imprese, cui è possibile aggiungere altre 400 imprese che pur non avendo ancora formalmente ricevuto la “label” di impresa sociale, hanno deciso di comprendere nella propria ragione sociale la dicitura “impresa sociale” (Borzaga, Galera, 2009; Venturi, Zandonai, 2012), uno dei passi necessari verso la formalizzazione. La percezione è che l’impresa sociale sia un fenomeno più diffuso di quanto sia possibile comprendere sulla base della definizione dettata dalla norma. E’ quindi necessario “forzare” i confini della legge, e capire come espandere il concetto di impresa sociale al di fuori dei limiti normativi italiani. Questo perché oggi l’attività imprenditoriale, sempre più in grado di aggregare una molteplicità di attori diversi e di attivare meccanismi virtuosi proprio grazie al network di stakeholder che riesce a coinvolgere, permette di raggiungere fini sociali di ampia portata anche a prescindere dalla forma giuridica in cui si incarna[3].
Uno degli elementi maggiormente utilizzati per contraddistinguere le imprese sociali è la presenza di limitazioni agli obiettivi di profitto (Masseti, 2008). Utilizzare questo come punto di vista principale, tuttavia, rischia di condurre ad una definizione molto ristretta dell’attività economica con impatto sociale positivo. E’ infatti possibile che anche imprese senza tali limitazioni, quindi propriamente for profit, possano sviluppare un impatto sociale positivo se inserite in sistemi di creazione di valore o di innovazione (Hinna, 2005) mirati a trasformare la loro capacità produttiva in sviluppo sociale (come avviene nel microcredito, ad esempio). La mobilitazione di un ampio network di stakeholder finalizzato a raggiungere obiettivi sociali è un tratto tipico delle imprese sociali (Borzaga, Zandonai, 2009). Ciò che qui si propone, dunque, non è altro che il riconoscimento del network di stakeholder come luogo in cui può essere prodotto impatto sociale, a prescindere dalla forma giuridica, dalla governance, e dalla sorte degli eventuali profitti dell’impresa che ne sia il motore.
Partendo da questa impostazione di fondo, è necessario ampliare una definizione di impresa sociale basata solo sulle caratteristiche dell’impresa, poiché tale definizione rischia di trascurare i casi in cui imprese prive dei caratteri tipici delle imprese sociali riescono tuttavia a produrre impatto sociale attraverso la mobilitazione di un più largo network di stakeholder. A nostro avviso, è necessario quindi avviare un dibattito, sia nel mondo dell’accademia che nel mondo degli operatori del settore per una concettualizzazione nuova delle imprese sociali, allargata, e maggiormente incentrata sulla rete di collaborazioni realizzate dall’impresa e sul suo impatto sociale.
Proprio in virtù dell’importanza delle relazioni esterne all’impresa, questa prospettiva impone innanzitutto di chiederci quali siano le conseguenze di questo approccio dal punto di vista dei confini dell’impresa. I confini dell’impresa discriminano tra le attività che l’impresa decide di mantenere al proprio interno e quelle che invece vengono comprate da altre parti. Secondo Williamson (Williamson, 1975) le imprese confrontano i costi associati alle transazioni necessarie per acquisire i risultati di una certa attività da altre parti con quelli associati al compiere tale attività internamente, e decidono l’allocazione ottimale delle risorse di conseguenza, determinando in tal modo i propri confini. Più recentemente, la Resource-Based View (Barney, 1991) ha adottato una prospettiva differente secondo la quale le imprese mantengono all’interno tutte quelle risorse che sono fonte di vantaggio competitivo ad alto valore aggiunto. Un recente sviluppo di questa – la Knowldege-Based View dell’impresa (Nonaka, 1991) – considera la conoscenza come la principale risorsa di cui l’impresa dovrebbe occuparsi, e riscrive le basi della teoria in accordo con le caratteristiche di tale risorsa. Le più avanzate versioni della Knowldege-Based View, come l’Open Innovation (Chesbrough, 2003) e la Network Theory (Ahuja, 2000), mettono in evidenza come la conoscenza sia in grado di moltiplicare il valore prodotto quando viene condivisa e scambiata. Di conseguenza, quando la conoscenza diventa la risorsa chiave su cui puntare, i confini dell’impresa devono diventare più permeabili favorendo partnership e collaborazioni, e intensificando flussi di informazioni in entrata e uscita verso una più ampia rete di soggetti (Mulroy, 2003), a monte e a valle dell’attività produttiva dell’impresa stessa.
Questo movimento è più ampio di quello che si può riscontrare nella letteratura sulla Open Innovation e sui Network, dove l’apertura ha un aspetto più “locale”, poiché l’impresa ha bisogno di aprire i propri processi e offrire le proprie conoscenze soprattutto ai partner diretti. Quando invece le conoscenze non sono di natura tecnica, ma legate ai significati dell’azione, alle visioni e ai simboli condivisi dai consumatori con l’intero sistema di produzione del valore (come nel mercato equosolidale e nelle produzioni bio), allora il valore stesso è identificato e riconosciuto dai consumatori solo se l’intera filiera produttiva diviene trasparente, ovvero se l’impresa applica un livello di apertura globale, che potremmo indicare con la locuzione global openness. In questo caso, tutti gli attori che operano nella filiera devono aprirsi verso tutti gli altri attori, anche quelli più lontani, per poter dimostrare ai consumatori il rispetto da parte loro della visione condivisa, a parole e nelle azioni. Se i consumatori mettono in dubbio le finalità e le azioni di un certo attore, tutta la filiera ne risente, perché essi non riconosceranno più ai prodotti o ai servizi offerti dalla filiera quel surplus di valore immateriale legato alla visione condivisa e ai significati dell’azione.
Al fine di dare una base empirica a queste idee, abbiamo sviluppato un caso studio per mostrare che:
L’obiettivo è mostrare come sia proprio il processo di coinvolgimento degli stakeholder ad aprire gli spazi in cui il circuito del valore sociale è prodotto, a prescindere dalla forma giuridica delle imprese che vi prendono parte. Un sistema aperto e trasparente, permeato di global openness, permette ad imprese for profit di svolgere attività socialmente importanti che le caratterizzano come imprese sociali de facto. L’imprenditorialità sociale in questo modo diventa un concetto più ampio che si pone come modello virtuoso dal quale trarre spunti per rivedere modelli di business ad oggi incompleti o in forte crisi, come nel caso trattato in questo articolo. In particolare, l’imprenditoria sociale diventa tale nel momento in cui le collaborazioni tra i vari soggetti che fanno parte della rete hanno caratteristiche e forme giuridiche complementari, che quindi permettono di agire su diversi fronti contemporaneamente. E’ quanto accade per MadeInNo, il caso qui approfondito, che aggrega alcune imprese tessili del distretto di Novara, organizzazioni di commercio equosolidale, produttori di cotone biologico brasiliani e indiani e gruppi organizzati di consumatori, i cosiddetti gruppi di acquisto solidale o GAS (Brunetti, Giaretta, Rossato, 2007) al fine di creare una linea completamente eco-friendly di vestiti in cotone, sviluppati rispettando i principi del commercio equosolidale. L’idea alla base di MadeInNo è nata nel 2005 dall’incontro di FairCoop, una cooperativa attiva nel commercio equosolidale, e l’azienda GB di Bruzzese, un’impresa operante nel distretto tessile di Novara. Lo sviluppo è avvenuto nel corso del 2006 e la prima linea di prodotti ufficiale è stata presentata nel 2007, per essere poi commercializzata nel 2008. Con l’evoluzione del progetto, nel tempo sono entrati nuovi soggetti, come Justa Trama, una cooperativa di produttori brasiliani di cotone biologico, e Emme3, un’altra impresa tessile produttrice di vestiti per bambini, potenziando il network e le capacità a cui poteva attingere. In questo periodo il network di imprese ed organizzazioni che fanno parte di MadeInNo sta lavorando sulla seconda generazione di prodotti, la quale comprenderà, oltre al nucleo originario di biancheria per adulti anche biancheria per bambini.
In generale le imprese sociali (Borzaga, Defourny, 2001) sono imprese i cui processi economici hanno anche un impatto sociale positivo. Un’evoluzione della definizione è quella proposta dall’EMES Network (EMergence del Enterprises Sociales en Europe, 1999, 2006). Tale definizione si è mostrata solida e capace di tenere conto delle molteplici sfaccettature del fenomeno dell’impresa sociale (Borzaga, Zandonai, 2009) ed è stata riassunta da Defourny e Nyssens (Defourny, Nyssens, 2010) nel seguente modo:
“Four criteria reflect the economic and entrepreneurial dimensions of social enterprises:
Five other indicators encapsulate the social dimensions of such enterprises:
È facile vedere come questa definizione unisca due principali prospettive. La prima, focalizzata sull'impresa, comprende i primi quattro elementi, più l'ultimo relativo alle limitazioni nella distribuzione dei profitti. Secondo questa prospettiva, un'organizzazione può essere definita come impresa sociale in base al fatto che presenti alcune specifiche caratteristiche. Questo è esattamente lo stesso punto di vista adottato dalla legge italiana al riguardo, che infatti definisce l’impresa sociale sulla base di specifiche caratteristiche (Legge del 13 giugno 2005 n. 118 ed il Decreto Legislativo del 24 marzo 2006 n. 155).
La seconda prospettiva identificabile nella definizione EMES è invece basata sul network di legami che l'impresa sociale necessariamente crea con i suoi stakeholder: la comunità, i gruppi di cittadini collegati alla sua fondazione; un sistema decisionale legato a principi diversi dalla proprietà del capitale e maggiormente partecipativo, il quale coinvolge tutti gli stakeholder dell'attività dell'impresa. In questa prospettiva un'organizzazione non diventa un'impresa sociale semplicemente sulla base delle attività che conduce, o sulla base delle limitazioni alla distribuzione di profitto che impone al proprio management. Piuttosto il lato sociale emerge dalla più estesa attività del suo network di stakeholder.
Per vedere perché – e come – queste due concezioni portano a differenti prospettive e definizioni, ci focalizziamo sull'ultimo requisito nella definizione EMES e sugli articoli della legge che limitano i profitti delle imprese sociali. Masseti (Masseti, 2008) pone questo principio come cruciale e considera la presenza di profitti come uno dei maggiori discriminanti tra imprese sociali e non.
“Based on whether a business has a more market or socially driven mission and whether or not it requires profit, the Social Entrepreneur Matrix combines those factors that most clearly differentiate social entrepreneurism from traditional entrepreneurism”. (Masseti, 2008-p.7)
Altri autori, invece, vedono il fenomeno dell’impresa sociale in maniera più ampia e generale, espandendo il concetto e utilizzando definizioni dai confini più labili: un’impresa sociale è tale per la capacità di assemblare un modello produttivo che crei valore sociale attraverso la commistione di for profit e non profit (Peredo, McLean, 2006; Mair, Martì, 2006; Dacin, Dacin, Tracey, 2011).
Yunus e Robinson, ad esempio, vedono l’impresa sociale come un fenomeno più esteso che può includere anche imprese for profit:
“Any innovative initiative to help people may be described as social entrepreneurship. The initiative may be economic or non-economic, for profit or not for profit”. (Yunus, 2008 - p. 32)
“I define social entrepreneurship as a process that includes: the identification of a specific social problems and a specific solution to address it; the evaluation of the social impact, the business model and the sustainability of the venture; and the creation of a social mission-oriented for profit or a business-oriented non profit entity that pursues the double (or triple) bottom line.” (Robinson, 2006, p. 95)
Questo focus sui processi, invece che sulle caratteristiche dell'impresa e in particolare sulla presenza o meno dell’obiettivo di massimizzazione e redistribuzione del profitto, ci permette di catturare realmente l'essenza dell'impresa sociale. Si consideri, ad esempio, la seguente definizione di Zahra et altri (2009):
“Social entrepreneurship encompasses the activities and processes undertaken to discover, define, and exploit opportunities in order to enhance social wealth by creating new ventures or managing existing organizations in an innovative manner.” (Zahra, Gedajlovic, Neubaum, Shulmann, 2009 – p. 524)
Un punto di vista di questo tipo, basato sullo sviluppo di processi peculiari invece che sulle limitazioni imposte ai profitti, sembra poter catturare meglio l’essenza dell’impresa. Identificare le imprese sociali tramite la variabile profitti implica una visione che resta troppo legata all’impresa stessa. Invece, un’impresa sociale genera impatto sociale perché coinvolge la proprietà, il management e molteplici categorie di stakeholder (dai volontari ai finanziatori) in modo tale da favorire importanti relazioni con le comunità locali con le quali le organizzazioni interagiscono (Borzaga, Zandonai, 2009; Borzaga, Loss, 2006). In altre parole l’impresa sociale mobilizza un network di stakeholder attorno alla soluzione per il problema sociale a cui si rivolge, cosicché il processo di creazione del valore si estende ben al di là dei confini dell’impresa stessa. E poichè “social enterprises […] generally rely on a collective dynamics involving various types of stakeholders in their governing bodies” (Defourny, Nyssens, 2008 - p.204), la restrizione del focus alla singola impresa rischia di limitare la nostra analisi dell’impatto sociale derivante dall’attività economica a circuiti molto ristretti. In questo modo si lasciano fuori molte imprese che formalmente non sono simili a imprese sociali, ma che in realtà sono promotrici di sistemi di valore (Porter, 1996) con un importante impatto sociale. Di conseguenza a nostro avviso è importante immaginare di ampliare l’ambito d’analisi dell’impresa sociale a tutte le imprese che partecipano alla produzione di quello che Porter e Kramer chiamano “Shared Value” (Porter, Kramer, 2011). Nel caso studio sviluppato nella prossima sezione cercheremo proprio di mostrare come questo punto di vista sia sostanziato dall’effettiva azione di alcuni attori riunitisi in rete per fare dell’impatto sociale la base della crescita economica.
Per capire come lo spostamento del focus sull’intero network di stakeholder sia un passaggio cruciale per rendere conto della molteplicità di forme in cui le attività economiche creano impatto sociale, dobbiamo innanzitutto considerare il come l’operare in network di questo tipo agisca sui confini delle imprese coinvolte.
La definizione, costruzione e gestione dei confini dell’impresa è stata, ed è tutt’ora (Jacobides, Winter, 2007; Zander, 2007) uno dei maggiori temi della letteratura manageriale a partire dal lavoro di Williamson (1975) che ha aperto una serie di studi sui costi di transazione (Transaction Cost Economics, TCE) (Williamson, 1975; Williamson, 1988; Nickerson, Silverman, 2003; David, Han, 2004; Bidwell, 2010). In questa prospettiva i confini dell’impresa sono il risultato di decisioni prese dal management riguardo alle funzioni che devono essere mantenute internamente e quelle che devono essere lasciate al di fuori dei confini dell’impresa stessa e gestite attraverso il mercato. Quel che determina la decisione tra fare internamente e comprare esternamente è il costo relativo dei due diversi metodi di produzione: la comparazione tra quanto costa fare una certa operazione internamente, e quanto costa pagare un fornitore esterno per lo stesso servizio o bene, determina la decisione di allocare l’attività all’interno o all’esterno dei confini dell’impresa. In questa prospettiva particolare attenzione è data alla tipologia di costo più difficile da identificare: i costi delle transazioni, i quali vanno a pesare sulla resa delle operazioni svolte sul mercato e devono quindi essere minimizzati per poterle rendere convenienti (Bidwell, 2010). In quest’ottica, l’impresa sarà spinta ad esternalizzare le attività che sono facilmente vendibili sul mercato, cioè quelle che sono facilmente trasferibili e per le quali esiste un mercato chiaro e ben sviluppato, con bassi costi di transazione. Inoltre queste attività non devono essere attività strategiche o relative al core business dell’impresa, in quanto in tal caso comprarle sul mercato potrebbe attivare comportamenti opportunistici da parte dei fornitori. Come risultato l’impresa tende a mantenere all’interno dei propri confini le attività a più alto valore aggiunto e tende ad esternalizzare le attività meno cruciali per il proprio business. I confini dell’impresa si configurano come il recinto dentro cui l’impresa produce il proprio valore.
Un risultato simile può essere raggiunto considerando un altro filone fondamentale di letteratura: la Resource Based View (RBV) (Penrose, 1959; Barney, 1991). Secondo questo approccio, ciò che conferisce valore alle attività dell’impresa è la mobilitazione di risorse che non solo sono in grado di produrre beni e servizi con un valore sul mercato, ma che sono anche specifiche dell’impresa, cioè rare, inimitabili e non sostituibili. I confini dell’impresa, in questo caso, si costruiscono attorno alle risorse di maggior valore dell’impresa e attorno ai processi che l’impresa attiva per tradurle in valore. Ancora una volta è l’insieme delle attività ad alto valore aggiunto sviluppate dall’impresa a determinare i suoi confini, in modo tale da assicurare il controllo delle risorse fondamentali per il suo vantaggio competitivo.
Estremizzando questi punti di vista, la chiara implicazione è che l’insieme delle attività che producono il maggior valore lungo la catena del valore (cioè quello che può essere anche chiamato il circuito di creazione del valore) deve essere internalizzato dall’impresa, e che fare affidamento su altri attori esterni per portare avanti tali attività determina un disegno sub-ottimale dei confini dell’impresa.
La letteratura recente ha aperto una nuova prospettiva affermando che i processi capaci di creare maggior valore per l’impresa sono intrinsecamente proni all’apertura dei confini dell’impresa, vale a dire alla collaborazione. La Knowledge Based View (KBV) (tra altri: Nonaka, 1991) estende la RBV identificando nella conoscenza il principale fattore strategico alla base della creazione di valore (Teece, Pisano, Shuen, 1997; Malerba, Orsenigo, 2000). Questo approccio presenta importanti implicazioni per la nostra analisi, perché la conoscenza è una risorsa particolare con caratteristiche peculiari, che sfidano sia la TCE che la RBV e di conseguenza le definizioni dei confini dell’impresa ad esse collegate. In particolare, la conoscenza ha la qualità di essere non rivale nel consumo (vale a dire che lo stesso piece of knowledge può essere consumato allo stesso tempo da più soggetti senza interferenza tra l’uno e l’altro) e, a certe condizioni come la codificazione (Cowan, David, Foray, 2000), anche facilmente trasferibile. Essa può essere dunque socializzata (Nonaka, Takeuchi, 1995) e condivisa con altri attori economici. La condivisione della conoscenza è un momento chiave dei processi d’innovazione (Hansen, 2002), perché aumenta la possibilità di creare novelty attraverso la ricombinazione di diversi blocchi di conoscenza. Questa possibilità di creare innovazione e moltiplicare il valore attraverso la condivisione della conoscenza ha importanti implicazioni per quanto riguarda i confini dell’impresa. Esistono due principali correnti di letteratura che si sono occupate di questo effetto: l’Open Innovation (Chesbrough, 2003; Chesbrough, Vanhaverbeke, West, 2006; Laursen, Salter, 2006) e la teoria dei Network (Powell, Koput, Smith-Doerr, 1996; Ahuja, 2000; Burt, 2004). Il filone dell’Open Innovation afferma che il locus dell’innovazione si è moltiplicato e diffuso arrivando a comprendere utilizzatori (von Hippel, 1988), università (Laursen, Salter, 2004) e numerosi altri attori. Poiché la conoscenza moltiplica il suo valore quando viene scambiata, le imprese devono essere in grado di cercare al di fuori dei propri confini idee e capacità che non possono produrre internamente e che sono complementari alla loro stessa capacità innovativa. Allo stesso tempo, le imprese devono essere in grado di lasciar fluire fuori dai propri confini le idee e le innovazioni cui non vogliono dar seguito internamente, in modo da permettere a coloro che sono in grado di estrarre maggior valore di acquisirle e utilizzarle. Da quanto detto, risulta evidente che quando la conoscenza è presa in considerazione, migliori performance economiche sono associate alla permeabilità dei confini dell’impresa, in favore di processi di scambio della conoscenza verso l’interno e verso l’esterno dell’impresa.
Allo stesso modo, le relazioni tra l’impresa e altri partner, vale a dire i network di cui l’impresa partecipa, hanno un impatto fondamentale sulle innovation capabilities. Ahuja (Ahuja, 2000) ha efficacemente dimostrato come le imprese che sono maggiormente connesse con altre imprese attraverso legami tecnologici (es. research joint ventures) aumentino la propria “portata” in termini di risorse mobilitate per l’innovazione. Queste imprese non solo possono migliorare i processi di ricerca e sviluppo mettendo in comune le risorse per l’innovazione (e quindi condividendo rischi e costi), ma possono anche acquisire informazioni di maggior valore attraverso legami indiretti, avendo come risultato una maggiore capacità innovativa. Anche in questo caso è lo sforzo congiunto di creazione della conoscenza che avviene attraverso lo scambio di informazioni e risorse che rende permeabili i confini dell’impresa. In particolare, il processo di creazione del valore si posiziona a cavallo dei confini dell’impresa stessa. Il valore non è semplicemente ottenuto in maniera additiva, “sommando” il valore aggiunto prodotto dall’impresa alle attività intraprese da altri soggetti precedenti o successivi ad essa lungo la catena del valore. È invece ottenuto in maniera “combinata” cioè attraverso operazioni che, seguendo i flussi di conoscenza che generano quel valore, intersecano diverse imprese, ne travalicano i confini per mettere i processi produttivi a sistema tra i diversi stakeholder e l’impresa.
Tuttavia, se per avvantaggiarsi delle proprietà della conoscenza è necessario rendere i confini dell’impresa più porosi, questa strategia viene solitamente applicata selettivamente (Henkel, 2006), vale a dire: le imprese discriminano chiaramente cosa aprire e cosa tenere chiuso al proprio interno, e identificano con precisione a che condizioni e con chi condividere ciò che pensano di mettere a disposizione degli altri attori. Questo significa che diversi gradi di apertura possono essere perseguiti in modi diversi da imprese diverse. Anche nell’Open Source Software, un ambiente in cui le imprese sono costrette a distribuire liberamente il software che producono a causa delle licenze del codice originale sulla cui base lavorano, le imprese applicano strategie “selettive” di questo tipo (Henkel, 2006). Inoltre, nella letteratura sull’Open Innovation la maggior parte di queste strategie ha una portata locale, cioè riguarda prevalentemente attori con cui l’impresa ha un legame diretto, come partner, competitor, fornitori o clienti. L’idea dell’apertura è dunque un concetto di apertura prevalentemente selettiva e locale nella quale, attraverso scambi di conoscenza controllati come le licenze (Arora, Fosfuri, Gambardella, 2001) o le collaborazioni (Arora, 1996), l’impresa scambia direttamente conoscenza con gli stakeholder che vuole raggiungere. Questo è vero anche in un ambiente come quello dell’Open Software, dove la maggioranza delle imprese si apre solo ai propri clienti, solo su richiesta dei compratori o solo dopo un ritardo (Henkel, 2006). Come conseguenza, sebbene la crescente importanza del ruolo che la conoscenza ricopre nella produzione di valore abbia reso più permeabili i confini dell’impresa, questo è avvenuto prevalentemente aprendo selettivamente i propri processi solo agli stakeholder che si trovano in prossimità dell’impresa.
In questo articolo ci focalizziamo su un caso nel quale la conoscenza su cui si fonda il valore prodotto è sostanzialmente relativa ai significati e ai principi che guidano l’azione degli attori coinvolti. Lo scopo è quello di mostrare come fondare i processi produttivi su questo tipo di conoscenza – come avviene per molte imprese sociali ed in particolare per il commercio equosolidale, biologico a kilometro zero, ecc. – porti all’impossibilità di applicare il concetto di apertura in modo selettivo e localizzato. È, infatti, proprio a causa della natura della specifica conoscenza che prendiamo in considerazione che è necessario estendere il concetto di apertura (e i costi e i benefici che ne derivano) a tutta la filiera produttiva.
Quanto detto sino ad ora, quindi si basa sull’idea che la conoscenza possa avere diverse dimensioni, e che la dimensione tecnologica sia diversa da quella legata ai significati dell’azione. La conoscenza, come interpretata nella letteratura sull’Open Innovation e prima di essa nella letteratura sulla User Innovation (von Hippel, 1988), è stata prevalentemente assimilata all’innovazione tecnologica. Tuttavia, i simboli e il valore che i consumatori associano al prodotto sono elementi anch’essi di conoscenza: sono attributi immateriali dei prodotti piuttosto che caratteristiche fisiche, ma esercitano un impatto cruciale sulla percezione che il cliente ha dell’atto del consumo. Se questo è vero, in linea di principio dovrebbe essere possibile osservare un’ampia diffusione delle capacità di produzione di conoscenza, processi distribuiti di innovazione (Di Maria, Finotto, 2008) e una simile permeabilità dei confini dell’impresa anche in settori dove la conoscenza tecnica potrebbe non essere l’elemento più importante di creazione di valore, e dove invece simboli, principi, idee e altre forme di conoscenza non tecnica muovano i consumatori verso (o lontano da) i prodotti e i servizi dell’impresa.
L’impresa sociale è un caso particolare di attività economica in cui simboli, principi e visioni sono particolarmente importanti per mobilitare risorse ed energie degli individui e delle istituzioni. In particolare, l’impresa può riuscire a mobilitare un numero e una qualità importante di stakeholder nella misura in cui vi è una convergenza di intenti e un common understading dei significati legati all’azione. Gli stakeholder, in altre parole, devono poter riconoscere e legittimare l’impatto derivante dalle azioni delle imprese sociali (Solari, 1997). Senza una visione condivisa sarebbe di conseguenza difficile mobilitare gli stakeholder, lasciando senza possibilità di intervento le imprese che fanno affidamento su di essi per arrivare ad avere un impatto sociale. Dunque, la visione condivisa tra l’impresa e gli stakeholder è una conditio sine qua non affinché queste imprese abbiano un impatto sociale e siano considerate imprese sociali (nel senso più ampio che abbiamo descritto all’inizio dell’articolo).
Poiché la “porzione” di conoscenza in oggetto è quella che si estrinseca in principi e idee di natura etica e valoriale, essa deve essere sostenuta dai comportamenti di tutti gli attori coinvolti nel sistema di produzione del valore. Ad esempio, per un’impresa di commercio equosolidale è fondamentale convincere i consumatori che tutti i lavoratori sono trattati equamente, mostrare cioè che la visione condivisa con il consumatore è reale e vera nei fatti. Inoltre, i consumatori più attivi, eventualmente raggruppati nei gruppi di acquisto solidale (GAS) che descriveremo nella prossima sezione (Saroldi, 2001) non solo chiederanno verifiche, ma saranno anche desiderosi di partecipare alle attività necessarie alla realizzazione della visione condivisa, diventando de facto produttori essi stessi (Di Maria, Finotto, 2008). Proprio in questa prospettiva è importante la trasparenza di tutta la catena del valore e di tutti gli attori coinvolti: l’apertura diventa elemento essenziale di garanzia per un processo che deve dimostrare di essere socialmente giusto, perché basta che uno soltanto degli attori coinvolti non rispetti i valori che l’intero progetto rischia di perdere il suo connotato valoriale.
Quest’ultima osservazione ha conseguenze rilevanti per i confini dell’impresa. Quando le imprese producono valore all’interno di un sistema che ha anche un impatto sociale, e quando tale valore nasce dal significato che gli attori danno all’impatto sociale stesso, tutta la filiera deve diventare trasparente. Questo è l’unico modo in cui possono assicurare i loro stakeholder che i loro comportamenti rispettano la visione condivisa. La global openness diventa in questo modo un elemento a garanzia del modello valoriale, e quindi un fondamento dello stesso business model e dell’impatto sociale. Per fare sì che ciò avvenga le imprese hanno bisogno di rendere i propri confini permeabili. Tuttavia, mentre nell’innovazione a livello tecnico questa apertura può rimanere locale e l’impresa può creare strategie selettive al riguardo (Henkel, 2006), quando le imprese hanno a che fare con i significati del consumo e principi condivisi sono costrette a “esporre” i propri processi, in modo tale da mostrare che i propri comportamenti rispettano la visione condivisa.
In maniera più analitica, vi sono tre step che le imprese devono compiere. Innanzitutto le imprese devono esporre i propri processi e comportamenti in modo molto più ampio, così da mostrare come i propri comportamenti rispettino la visione condivisa.
In secondo luogo, hanno bisogno di chiedere agli altri attori che operano con loro nel sistema di valore di raggiungere lo stesso livello di esposizione. La visione sulla cui base gli stakeholder sono mobilitati, infatti, va al di là di ogni singolo passaggio della filiera produttiva in maniera tale da abbracciare tutto il sistema di valore. Questo perché gli stakeholder non accetterebbero come un comportamento coerente l'unione/co-presenza di attività legittime con attività illeggittime all'interno dell'impresa o da parte dei suoi partner. Dunque, al fine di creare effettivamente valore, l'impresa deve chiedere anche agli attori che occupano le altre posizioni nel sistema di valore di rendere trasparenti i propri processi.
Infine, il terzo e ultimo elemento della global openness che abbiamo identificato riguarda il bisogno di una maggiore cooperazione tra gli attori che fanno parte del sistema di valore. La visione condivisa, infatti, è necessariamente creata insieme dagli attori che operano nel sistema di valore. Senza questa cooperazione la visione non può essere condivisa, perché gli attori hanno bisogno di appropriarsi di parte della visione e di portarla al livello dei propri processi e attività al fine di condividerla. Ad esempio, un’impresa sociale che crea valore grazie al significato legato alle proprie attività ha bisogno di coinvolgere i consumatori più attivi, eventualmente uniti nei gruppi di acquisto, in modo da produrre insieme la visione alla base della produzione di valore. È questa produzione condivisa che crea il legame tra l’impresa e i consumatori e che sostiene la visione comune. La cooperazione e il coinvolgimento del consumatore sono qui strumentali non solo, come detto prima, per la verifica dei comportamenti, ma anche per il bisogno di espandere, mantenere in vita, e diffondere la visione condivisa. I consumatori diventano parte del processo di produzione dei significati, condividendo la visione (Di Maria, Finotto, 2008).
Un’interessante illustrazione di questa idea può nuovamente venire dal caso Open Source Software. Nell’Open Source Software parte degli utilizzatori esperti del prodotto ne sono anche sviluppatori, sviluppando insieme i programmi che usano e che poi distribuiscono liberamente su Internet. Le imprese partecipano a questa produzione (Fosfuri, Giarratana, Luzzi, 2008) e rivelano selettivamente (Henkel, 2006) il codice che producono. Questa tipologia di apertura è particolare perché le regole formali (e.g. licenze) e informali (e.g. il non sfruttare il lavoro degli sviluppatori), su cui la comunità di sviluppatori Open Source Software è fondata, implicano che per riuscire a coinvolgere la comunità stessa il codice che l’impresa decide di condividere deve essere distribuito apertamente. Il fatto importante è che le imprese possono comunque provare a sviluppare strategie di massimizzazione del profitto, come in effetti fanno, ma il loro successo è possibile solo nella misura in cui questo non entri in conflitto con le regole formali e informali della comunità, e per mostrare che sia così, l’operato dell’impresa deve divenire trasparente (O’Mahony, West, 2008). L’impresa può essere quindi accettata come partner del circuito di produzione del valore solo se mostra di aver applicato le regole di condotta della comunità, e tratta la comunità come un partner piuttosto che come una semplice risorsa. Per fare questo le imprese devono comportarsi coerentemente non solo all’interno dei progetti specifici a cui partecipano attivamente, ma in generale in tutti i comportamenti che la comunità potrebbe sottoporre a verifica.
Il commercio equosolidale è un altro esempio concreto che ci permette di fare un passo avanti nella definizione del concetto di global openess. Nel commercio equosolidale il consumatore paga un prezzo più alto per assicurarsi che ogni partecipante del processo produttivo riceva un giusto contributo e sia trattato giustamente sul posto di lavoro. I consumatori accettano il prezzo maggiorato ma solo a patto di essere certi del fatto che nessuno dei soggetti coinvolti abbia prodotto il semilavorato in violazione di questa visione. Di conseguenza l’intera filiera produttiva, dalle materie prime al mercato, deve essere globalmente aperta e ogni attore deve essere sicuro che anche tutti gli altri attori della catena del valore rispettino tale visione nei loro comportamenti. Essere globalmente aperti significa, dunque, non solo essere aperti relativamente ad un maggiore numero di dimensioni e processi, ma anche essere aperti verso un più ampio insieme di attori, e aspettarsi lo stesso tipo di apertura da tutti gli altri attori parte del network.
La conclusione è che, mentre le imprese possono migliorare l’innovazione tecnica rendendo permeabili i propri confini e diventare localmente aperte alle collaborazioni tecniche con i propri partner (Chesbrough, 2003), esse hanno bisogno di aprirsi ulteriormente per diventare globalmente aperte e trasparenti (O’Mahony, West, 2008) in modo da attivare gli stakeholder attorno alla conoscenza simbolica (Di Maria, Finotto, 2008) che permette di realizzare l’impatto sociale.
Il concetto di imprenditorialità sociale viene direttamente investito da queste considerazioni. La definizione di impresa sociale deve essere legata alle attività che l’intero network mobilitato dall’impresa svolge, e non soltanto alla forma giuridica o all’azione singola dell’impresa. Quando le imprese sociali sono considerate come imprese parte di un network più ampio le cui attività hanno un impatto sociale positivo, è possibile considerare come impresa sociale una serie di istanze che altrimenti sfuggirebbero alla definizione.
Anche la letteratura sull’impatto della conoscenza come fattore produttivo sui confini dell’impresa può beneficiare dall’argomentazione sin qui esposta. Abbiamo offerto un punto di vista nel quale distinguiamo tra apertura locale e globale, e abbiamo mostrato come il primo tipo di apertura sia quello studiato fino ad ora dalla letteratura su Open Innovation e su Network, mentre il secondo tipo diventa importante quando la conoscenza è di tipo non tecnologico, ma riguarda dunque principi e simboli condivisi tra l’impresa e i consumatori. L’apertura realizzata per mettere a valore questo tipo di conoscenza deve essere quindi globale, cioè a) relativa ad un più ampio set di attività, b) verso tutti i partecipanti alla creazione di valore, e c) richiesta a tutti quei soggetti che partecipano alla produzione di valore.
I due filoni di ricerca convergono nel momento cui si riconosca che l’impresa sociale come precedentemente definita deve applicare i principi della global openness per poter realizzare i suoi fini sociali, in quanto è solo attraverso il coinvolgimento di un numero importante di stakeholder che può creare valore economico ed anche sociale.
Nel seguito dell’articolo sostanziamo questi contributi analizzando un caso in cui diversi attori, tra cui imprese formalmente non sociali, creano una linea di prodotti biologici ed equosolidali, quindi con un importante impatto sociale. Lo scopo dell’analisi è mostrare come questo possa avvenire grazie all’implementazione di pratiche di global openness.
Lo scopo principale di questo articolo è investigare come i confini dell’impresa cambiano quando essa produce valore (e ha un impatto sociale) all’interno di un più ampio network di stakeholder, soprattutto quando l’impresa è in grado di costruire nuove relazioni grazie al suo grado di apertura. Data la natura esplorativa della nostra domanda di ricerca, abbiamo deciso di utilizzare un approccio qualitativo ed in particolare un approccio basato sull’analisi di un caso studio che ci permetta di capire l’unicità della relazione tra gli imprenditori e gli stakeholder all’interno dei processi di creazione del valore. In questo caso, l’adozione di un approccio qualitativo, attraverso interviste semi strutturate, è la metodologia più indicata per costruire nuova teoria partendo dall’osservazione di un fenomeno (Glaser, Strauss, 1967; Eisenhardt, 1989; Eisenhardt, Graebner, 2007; Yin, 2003). La scelta di un approccio di studio qualitativo è anche coerente con il fatto che il nostro punto di vista sfoca la distinzione tra il fenomeno (l’impresa) e il contesto (il network di stakeholder), rendendo questa metodologia preferibile alle altre (Yin, 2003).
Le informazioni utili per lo sviluppo del caso sono state raccolte attraverso due fonti di dati: interviste dirette ai principali soggetti che fanno parte del network del progetto in esame e materiali secondari, per lo più informazioni presenti sui siti internet, articoli di giornale e documenti di lavoro. Le interviste sono state programmate secondo una logica di tipo semi-aperta (Yin, 2003): in particolare il protocollo delle interviste è stato preparato dagli autori e le domande sono state poste agli intervistati secondo lo schema del protocollo. In ogni intervista sono emersi spunti di riflessione e ulteriori domande sono state poste nel corso del colloquio. Le interviste sono state registrate e gli autori hanno preso appunti. In una seconda fase si è provveduto a riscrivere testualmente i contenuti delle interviste ed in una terza fase gli autori hanno elaborato i contenuti delle interviste ai fini di questo articolo. Da un punto di vista strettamente metodologico, i contenuti delle interviste sono stati rielaborati secondo una logica di story telling (Bailey, Tilley, 2002).
Le interviste sono state rivolte ai tre principali soggetti del progetto che, come vedremo successivamente nel dettaglio, sono l’azienda Gb Di Bruzzese G. E C. Snc (intervistato: Gianluca Bruzzese, imprenditore e gestore dell’impresa), FairCoop (cooperativa sociale di tipo A, intervistati: Deborah Lucchetti, fondatrice, e Monica Di Sisto, co-fondatrice) e Emme3 Snc (intervistato: Fabrizio Miaton, imprenditore). Lo scopo principale delle interviste era quello di capire in che modo il progetto è nato e come si è sviluppato attraverso un’attenta analisi delle modalità di inclusione di nuovi soggetti nella catena del valore attivata dal progetto. Il focus delle interviste si concentrava sulla modalità attraverso cui i diversi attori coinvolti hanno favorito il lancio dei nuovi prodotti ed in che modo l’allargamento del network di stakeholder ha facilitato lo sviluppo del progetto. Partendo quindi dalle interviste, abbiamo accostato le informazioni ottenute con quanto ricavato dalla lettura dei siti internet, degli articoli e dei documenti attraverso un processo iterativo. Man mano che ottenevamo informazioni importanti per il caso in questione, riscrivevamo la parte della narrazione della storia estendendo il livello di astrazione e generalizzazione dei nostri risultati, come evidenziamo nella parte delle conclusioni, seguendo l’intuizione di Eisenhardt e Graebner (Eisenhardt, Graebner, 2007).
La scelta del caso nasce dall’esigenza di identificare un network il cui sistema di attori, popolato di imprese e di altre organizzazioni, fosse in grado di produrre valore economico e impatto sociale. Abbiamo pensato che l’ambiente culturale dei distretti italiani potesse offrire tale possibilità, essendo le dimensioni sia sociale che economica strettamente connesse in tali contesti (Becattini, 2001). I distretti italiani sono composti prevalentemente da medie e piccole imprese, ognuna specializzata in una parte della catena del valore. La maggior parte di queste imprese sono a base famigliare e le relazioni tra di esse si sviluppano all’interno del contesto della città e dei gruppi sociali che danno forma alla vita giornaliera di imprenditori e dipendenti. Nei distretti i processi di formazione dell’identità, le relazioni sociali e l’organizzazione economica non possono essere chiaramente separati e si sviluppano a stretto contatto. Per questa ragione abbiamo deciso di cercare un caso all’interno dell’economia dei distretti. Abbiamo identificato un caso interessante all’interno di un distretto tessile dell’Italia settentrionale, anche se, come vedremo, la pressione della competizione globale e le condizioni avverse di mercato hanno spinto le imprese protagoniste del nostro caso a creare nuove connessioni anche con soggetti al di fuori della propria area geografica.
All’interno della regione Piemonte si trova il più importante distretto tessile italiano, che ha il proprio epicentro nella città di Biella. All’interno del distretto tessile piemontese varie aree hanno sviluppato diverse specializzazioni: in particolare le imprese situate nella parte sud-orientale della regione si sono tradizionalmente specializzate nella produzione di intimo e costumi da bagno, al punto da creare quello che può essere considerato un comparto dedicato. Il distretto, che comprende la provincia di Novara e le città di Oleggio e Varallo Pombia, nasce negli anni ‘60 sulla scia di alcune grandi imprese produttrici di intimo e costumi e degli investimenti fatti per creare una cultura distrettuale nel territorio. Con il passare del tempo sono nate nuove aziende, prevalentemente dalla volontà di ex impiegati delle prime imprese di mettersi in proprio, mantenendo saldo tuttavia il legame con l’impresa originaria, che è rimasta la fornitrice principale di commesse. L’attività in questione è quindi definibile come produzione per conto terzi o come outsourcing.
Con il passare del tempo alcune di queste imprese hanno iniziato a produrre propri marchi. Nel 1996 il distretto tessile di Novara contava 230 imprese con 2.500 addetti (dati Camera di Commercio di Novara). Il distretto era formato prevalentemente da piccole imprese che davano lavoro al 46% della forza lavoro tessile nell’area. La maggior parte di queste imprese erano di micro dimensioni: il 70% di esse contava meno di 10 persone impiegate, e solo 4 imprese all’interno del distretto contavano più di 100 addetti. Dal punto di vista qualitativo, la grande maggioranza di queste imprese erano tipicamente piccole imprese tradizionali a conduzione famigliare che lavoravano per imprese più grandi in outsourcing a vari livelli della catena del valore dell’intimo e dei costumi da bagno.
Questo tipo di accordo produttivo rendeva le imprese del distretto estremamente dipendenti dalla domanda delle imprese per cui producevano. Quando le poche grandi imprese dell’area hanno iniziato a spostare la produzione al di fuori dei confini nazionali, la maggior parte delle piccole imprese non sono state in grado di convertirsi a nuovi tipologie di produzione, e sono fallite. Il trend decrescente era già iniziato alla fine degli anni ‘90 ma il colpo di grazia è arrivato alla fine dell’Accordo Multifibre[4], nel 2005, in seguito al quale le piccole imprese tessili del distretto si sono trovate completamente esposte alla competizione internazionale contro imprese tessili di paesi capaci di politiche di prezzo fortemente aggressive come Cina e India.
In effetti negli ultimi anni tutti i distretti italiani hanno sentito l’enorme pressione derivante dall’espansione dei mercati globali. Le economie emergenti erano in grado di offrire prodotti altamente competitivi in termini di prezzo. Allo stesso tempo, il differenziale in termini di costo del lavoro ha spinto molte imprese a rilocare la propria produzione in questi paesi. La pressione sul distretto tessile di Novara è stata drammatica: le imprese maggiori hanno iniziato a delocalizzare a fornitori esteri molte fasi della filiera produttiva che prima si svolgevano nel distretto e questo ha fortemente diminuito la possibilità di creare valore per le imprese della regione. Del gruppo di imprese tessili del distretto di Novara solo una manciata sono sopravvissute fino ad anni recenti.
Applicando una prospettiva industriale, sappiamo che il potenziale di crescita dipende dalle capacità di investimento in cambiamenti tecnologici e organizzativi al fine di specializzare la produzione (Antonelli, Marchionatti, 1998). In questo senso, nell’industria tessile la sopravvivenza dipende in maniera importante dalle capacità di aggiustamento e rinnovamento dei processi strategici (Burgelman, 1991). Di conseguenza l’innovazione è necessaria per rispondere a strategie aggressive come le strategie di costo descritte precedentemente. Su questa linea, una delle principali risposte alla pressione della competizione globale è il riposizionamento dei distretti attorno a una specializzazione e diversificazione (Puig, Marques, Ghauri, Puig, 2009) che permetta di raggiungere un segmento a più alto valore aggiunto. Le piccole imprese che non sono in grado di produrre questo spostamento verso una produzione a più alto valore sono dunque destinate a chiudere le proprie attività.
Nella presente analisi ci siamo concentrati sul caso di una rete di imprese nel distretto di Novara che sono invece state in grado di riposizionare efficacemente il proprio business in un segmento di nicchia ma a maggior valore aggiunto: i prodotti del commercio biologico ed equosolidale. Per raggiungere quest’obiettivo le imprese coinvolte hanno attivato collaborazioni con soggetti di diversa natura così da mobilitare un network di stakeholder attorno alla propria visione. Hanno poi aperto globalmente le proprie attività, attraverso un processo di legittimazione volto a mobilitare risorse utili per lo sviluppo di una nuova forma imprenditoriale (Desa, 2012). La global openness emerge come un requisito fondamentale per il funzionamento del progetto perché il mercato di nicchia in cui le imprese si sono spostate è basato sulla condivisione dei principi del commercio equosolidale e delle produzioni biologiche tra i diversi operatori e consumatori. Sarebbe stato impossibile garantire il rispetto dei principi che davano valore al prodotto senza l’implementazione di pratiche partecipative in grado di assicurare la totale trasparenza dell’intera filiera produttiva.
MadeInNo unisce diversi soggetti impegnati nella produzione e vendita di una linea di vestiti completamente biologica, sviluppata in una filiera produttiva equosolidale. Il progetto è iniziato ufficialmente nel 2006 con la presentazione alla regione Piemonte al fine di ottenere supporto finanziario, ma l’idea era nata qualche tempo prima dall’incontro tra Gianluca Bruzzese (imprenditore a capo della Gb Di Bruzzese G. E C. Snc) e Deborah Lucchetti (presidente di FairCoop, un’organizzazione non profit da tempo impegnata negli scambi equosolidali). Nel 2005 Gianluca Bruzzese aveva capito che con la cessazione dell’Accordo Multifibre la sua piccola impresa familiare specializzata in intimo e costumi da bagno, già indebolita dalla delocalizzazione sofferta negli anni precedenti, era destinata a chiudere. A una conferenza sul settore tessile italiano Gianluca Bruzzese incontra Deborah Lucchetti, e insieme elaborano l’idea iniziale di creare un network che potesse funzionare rispettando a pieno i valori equosolidali e ambientali che condividevano. Bruzzese riteneva opportuno sviluppare un nuovo modello produttivo basandosi proprio su aspetti valoriali nuovi, che sono alla base del suo progetto denominato MadeInNo. La sartoria Gb Di Bruzzese G. E C. era in grado di mettere sul tavolo la propria conoscenza in fatto di manifattura di intimo e costumi da bagno ed anche la propria filiera; dall’altro lato, FairCoop aveva accesso ad un network internazionale di fornitori di cotone equosolidale e aveva già buona esperienza nella commercializzazione di prodotti bio-equosolidali. Inoltre FairCoop era in grado di fornire l’accesso alla comunità italiana del commercio equosolidale, nella quale era profondamente inserita, ed in particolare poteva svolgere un ruolo fondamentale nel coinvolgere i gruppi di acquisto solidale[5] spina dorsale del progetto.
I gruppi di acquisto solidale (GAS) si organizzano autonomamente e spontaneamente per gestire in maniera collettiva la gestione di acquisti di prodotti (specialmente prodotti alimentari), partendo da un approccio di consumo critico e di valori come equità e solidarietà (Montagnini, Reggiani, 2010; Saroldi, 2001; Valera, 2005). L’idea di Bruzzese e di Lucchetti era quindi quella di utilizzare il modello dei GAS e cercare di convertirlo ad una nuova filiera di prodotti che non fosse quella alimentare, ma tessile. L’idea aveva una solida base nel fatto che il modello italiano dei GAS si poteva considerare un’interessante nicchia in crescita: secondo Albanese e Penco (Albanese, Penco, 2010), in Italia si stima per il 2013 la presenza di circa 900-1000 gruppi e che ogni GAS è composto in media da 44 consumatori (aumento del 123% rispetto alle rilevazioni del 2004). Ogni gruppo spende in media 20 mila euro l’anno.
Dal punto di vista dell’imprenditore coinvolto l’interazione con i GAS poteva essere un’interessante occasione per modificare il modello di business e un’opportunità di entrata in un nuovo mercato. Riorientare l’azienda in questa prospettiva voleva dire incorporare nel proprio modello produttivo, e quindi nei prodotti finali, l’attenzione al sociale e al biologico, ed in generale la prospettiva manageriale etica, che era già parte del bagaglio culturale dell’imprenditore (Margolis, Walsh, 2003). Questo avrebbe permesso di accedere a un mercato ad alto valore aggiunto, sebbene esiguo nelle dimensioni, ma proprio a partire dall’universo di principi dell’imprenditore e dalla condivisione degli stessi con una più ampia comunità di produttori e consumatori, capace di tramutarli in valore economico. Ma per fare ciò il nuovo modello imprenditoriale della sartoria doveva orientarsi verso un mercato trasparente, eticamente definito, cogliendo elementi nuovi che caratterizzassero, oltre al prodotto, anche il rapporto con i clienti. Coerentemente con questa impostazione, il network del commercio equosolidale era lo sbocco ideale nel quale cercare di realizzare il progetto MadeInNo. Gianluca Bruzzese ha quindi aperto i confini della sua impresa, mettendo in gioco le sue competenze e rendendo del tutto trasparente il suo processo produttivo. La trasparenza e l’apertura è avvenuta sia a monte che a valle: a monte verso produttori di cotone biologico con cui Bruzzese, insieme a FairCoop, ha curato lo sviluppo di nuovi processi di produzione del cotone stesso; a valle, attraverso il coinvolgimento dei GAS nella progettazione dei prodotti stessi.
In seguito alla presentazione alla provincia di Novara, la quale ha fornito a MadeInNo i primi fondi, il progetto ha iniziato a sviluppare la prima linea di prodotti: il cotone era fornito da Remei, un produttore di cotone indiano con cui FairCoop aveva già lavorato in precedenza, mentre la sartoria Gb Di Bruzzese G. E C., con la collaborazione di alcune imprese provenienti dalla sua precedente filiera produttiva, si occupava della parte manifatturiera. FairCoop commercializzava poi i prodotti all’interno della rete dei GAS italiana. La caratteristica più importante di questo sistema era la grande interdipendenza creatasi tra i vari attori i quali condividevano i processi decisionali in maniera importante: i GAS avevano parte attiva nello sviluppo dei prodotti e avevano reso possibile lo start up grazie al pre-ordine (e pagamento anticipato) di grandi quantità di capi, di fatto finanziando il progetto MadeInNo. La Gb Di Bruzzese G. E C. e FairCoop condividevano la maggior parte dei loro processi decisionali, mentre le decisioni relative al prezzo e alla produzione erano prese di concerto insieme agli altri attori posizionati a vari livelli nella filiera di fornitori, in modo da assicurarsi che ogni soggetto potesse richiedere una parte equa del valore creato.
La distribuzione delle competenze è stata gestita da subito in maniera aperta, secondo la logica che abbiamo denominato global openness, evidenziando e mettendo a disposizione l’uno dell’altro le proprie competenze specifiche di settore. Gianluca Bruzzese ha dimostrato da subito le sue capacità nella produzione di capi di biancheria intima, dato il suo background nel campo dei costumi (prodotti tipici del suo distretto di provenienza), mentre FairCoop ha messo in campo competenze sia nel settore del commercio equosolidale che competenze nelle relazioni con i GAS per lo sviluppo di una linea di abbigliamento. Proprio rispetto a questo punto, FairCoop aveva da poco concluso un’esperienza con un GAS della provincia di Genova per la progettazione e produzione di una felpa prodotta con cotone biologico. La complementarità delle risorse messe in campo da Gb Di Bruzzese G. E C. e FairCoop e il continuo scambio di informazioni tra le due realtà ha rappresentato il punto di partenza del progetto MadeInNo, che si è potuto sviluppare grazie alla capacità di apertura e trasparenza che Gb Di Bruzzese G. E C. e FairCoop hanno voluto e potuto garantire.
I prodotti di MadeInNo hanno iniziato ad essere commercializzati nella prima metà del 2008. La maggior parte è stata venduta ai GAS, parte alle botteghe equosolidali, e la restante parte in apposite esibizioni e fiere sul territorio. In questo periodo sono anche avvenuti alcuni cambiamenti all’interno della composizione della rete di MadeInNo: la maggior parte del cotone ha iniziato ad essere fornito dal network di produttori equosolidali brasiliani della cooperativa Justa Trama, preferito all’indiana Remei in virtù del suo migliore impatto sociale. Allo stesso tempo, mentre alcuni collaboratori (per lo più piccoli fornitori di servizi o contoterzisti del network di Bruzzese) abbandonavano il progetto MadeInNo, un nuovo attore, Emme3, entrava nel network. Emme3, come la sartoria Bruzzese, è una piccola impresa manifatturiera tradizionale a conduzione familiare, specializzata però in vestiti per bambini. Emme3 è entrata nel network desiderosa di cooperare e condividere pienamente decisioni e rischi.
Lo snodo che questa aggiunta ha generato è particolarmente interessante. La produzione della prima linea di abbigliamento per bambini ha portato alcune complicazioni dovute soprattutto alle diverse necessità che una linea di abbigliamento del genere richiede. Da parte dei GAS sono emerse necessità diverse rispetto a quelle che erano emerse per il lancio della biancheria intima. In particolare uno dei principali elementi che non ha favorito l’affermarsi dei prodotti per bambini è stato la mancanza di abiti colorati. In risposta a questo problema, si è andata rivedendo la relazione tra i diversi attori coinvolti e l’apertura globale dei confini delle imprese. Per far sì che le esigenze dei GAS siano soddisfatte, sempre in un’ottica di rispetto dell’origine biologica dei prodotti, la sartoria Gb Di Bruzzese G. E C., Emme3 e Faircoop stanno lavorando per includere un nuovo soggetto che si dedicherà alla coloritura dei capi. Questa operazione si sta dimostrando complessa perché la coloritura dei capi deve essere fatta attraverso dei sistemi di colorazione particolari che non alterino l’aspetto biologico. Dato che la filiera produttiva è caratterizzata da un forte legame valoriale tra tutti i soggetti coinvolti, dalla produzione al consumo, sarebbe stato impossibile colorare i capi semplicemente affidandosi a soggetti che lo facessero senza garantire che le procedure applicate fossero in linea con i significati dati ai prodotti MadeInNo. In questo senso, la global openness ha reso impossibile l’affidamento della colorazione ad un meccanismo di mercato anonimo, ed ha invece imposto di richiedere la piena trasparenza anche ai nuovi attori coinvolti nel processo.
Attualmente MadeInNo sta entrando in una nuova fase: è stata raggiunta la maturità della prima linea di biancheria intima ed è dunque in sviluppo una nuova linea che aggiungerà nuove caratteristiche ai vestiti interamente biologici, la compagine centrale è in profonda mutazione, e si sta provando ad esplorare nuovi mercati al di fuori della consolidata rete dei GAS.
Il progetto MadeInNo è nato dalla condivisione all’interno di un ampio network che comprendeva imprese e soggetti di diversa natura di visioni e principi ispirati al commercio equosolidale e al consumo biologico. La dimensione sociale, dunque, era strettamente legata all’azione economica, e permetteva alle imprese parte del network di avere un impatto sociale non direttamente (e non de iure) ma indirettamente (de facto) come ingranaggi parte di un meccanismo più ampio. Emme3 e Gb Di Bruzzese G. E C., a nostro avviso, possono essere definite come imprese sociali in quanto realizzano la propria sostenibilità economica attraverso un business model incentrato su un network di stakeholder capace di migliorare la condizione lavorativa dei alcuni lavoratori brasiliani e indiani, e di sostenere la produzione e il consumo di prodotti biologici. Inoltre, quando si sono trovati ad affrontare situazioni particolari, come è avvenuto relativamente alla linea per bambini, il nodo è stato sciolto non contravvenendo ai principi guida dell’azione (per esempio avvalendosi in outsourcing di fornitori non trasparenti), ma aumentando la collaborazione, ascoltando i suggerimenti dei GAS, e cercando ulteriori collaboratori che potessero entrare a far parte del network senza snaturarne i principi. Il modello imprenditoriale che emerge è quindi chiaramente basato sulla continua collaborazione tra gli attori, i quali collettivamente costruiscono, adattano e negoziano i propri obiettivi e strategie in modo da costruire nuovi prodotti che si leghino ai principi (condivisi) che guidano dell’azione e alle nuove opportunità di mercato (Sarasvathy, 2005). Il circuito di produzione del valore e dell’impatto sociale si estende dunque ben al di là dei confini dell’impresa e depone a favore della concezione dell’impresa sociale come soggetto più esteso della singola impresa. Inoltre, l’elemento che caratterizza la socialità del progetto MadeInNo dipende proprio dal legame valoriale che ha favorito lo sviluppo di una filiera produttiva globalmente aperta e trasparente. Lo sviluppo di un modello imprenditoriale sociale come viene qui inteso si basa su un set condiviso di valori e simboli (Munir, Philips, 2005) che ha permesso lo sviluppo di un progetto sociale nel quale imprese for profit collaborano con organizzazioni non profit in una nuova ottica di social business (Tracey, Philips, Jarvis, 2011). Inoltre MadeInNo mostra come queste opportunità possano essere create solo se l’intera filiera produttiva diventa trasparente, in quanto questo è l’unico modo di mobilitare alcune categorie di stakeholder.
Un imprenditore che voglia intraprendere una strada simile deve inserire i propri stakeholder nella definizione di un nuovo ambiente organizzativo in cui vengono condivisi valori che servono da base per la costruzione di un nuovo contesto istituzionale (Tracey, Phillips, Jarvis, 2011; Greenwood, Subbady, 2006) i cui principi sono direttamente percepiti e valorizzati dai consumatori. Poiché tali principi possono raggiungere i clienti ed essere valutati solo se c’è l’adozione di una sostanziale trasparenza in tutto il network, abbiamo un sostanziale cambiamento di prospettiva: l’impresa non si preoccupa più solo delle attività che porta avanti essa stessa e del valore creato, ma il suo orizzonte strategico e organizzativo è definito a livello del network degli stakeholder che partecipano attivamente alla progettazione, sviluppo, distribuzione e consumo dei nuovi prodotti.
Da un punto di vista prettamente manageriale, questo articolo pone degli interessanti spunti di riflessione e dei suggerimenti per gli operatori del settore. In particolare, a nostro avviso, si possono trarre alcune implicazioni utili per i manager, o aspiranti tali, del terzo settore.
Per concludere, in questo articolo abbiamo sottolineato come un elemento determinante di un progetto di imprenditoria sociale sia la capacità di mobilitare un network di attori che condividono un insieme di valori. In questo senso il concetto di impresa sociale dovrebbe essere rivisto, ampliato, e la prospettiva dell’intero network mobilitato dall’impresa dovrebbe essere adottata per identificare i network capaci di impatto sociale positivo (e quindi generati da imprese che possono essere considerate de facto sociali) e network che invece non sono in grado di realizzare tale impatto, non aggiungendo quindi nulla all’attività economica delle imprese che li hanno generati. Nella misura in cui l’impatto sociale si aggancia anche alla condivisione di valori tra i diversi attori coinvolti, come di solito accade nell’impresa sociale, la mobilitazione del network implica livello di apertura più globale, permettendo così ai diversi stakeholder di percepire che ogni attore si comporta coerentemente con i principi condivisi.
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