Il concetto di resilienza, oggi sempre più frequentemente utilizzato nel dibattito sull’innovazione dei modelli di intervento per lo sviluppo del territorio, riguarda molto da vicino anche le organizzazioni di terzo settore, soprattutto quelle impegnate ad attivarsi assieme alle comunità locali per risolvere problemi e bisogni emergenti. Il termine resilienza si ricollega infatti al mutamento di approccio ritenuto necessario per continuare a garantire prospettive di sostenibilità, a fronte dei cambiamenti ambientali, economici, sociali che hanno rapidamente investito (e continuano ad investire) il contesto di vita delle comunità locali. Questo articolo[1] riprende ed anticipa alcuni degli spunti forniti, a questo proposito, dal REsilienceLAB - rete di accademici e professionisti della pianificazione territoriale nata per promuovere strategie integrate di resilienza alla scala urbana e territoriale - nell’ambito di un lavoro più ampio[2] che, muovendo da un’interpretazione multidisciplinare della complessità del tema, mira a sollecitare e supportare la promozione, da parte delle organizzazioni del terzo settore, di “imprese sociali” nella logica della resilienza.
The concept of resilience, which is more and more used to describe the innovation of intervention models for territorial development, concerns third sectors organizations as well, in particular those that are engaged with local communities to solve problems and emerging needs. The term resilience, in fact, is strictly connected to the changes in the approach, which are considered fundamental to ensure a perspective of sustainability against the environmental, economic and social transformation that has rapidly stricken (and is still striking) the living context of local communities. This essay anticipates some of the hints emerged on the occasion of the ResilienceLAB – a network of academics and professionals of territorial planning which was created with the aim to promote integrated strategies of resilience on an urban and territorial level – as part of a wider project which, starting from a multidisciplinary interpretation of such a complex subject, aims at enhancing and supporting the promotion of resilient “social enterprises” on the part of third sector organizations.
Negli ultimi anni il concetto di resilienza associato ai temi dello sviluppo dei sistemi urbani e territoriali ha avuto una diffusione molto ampia (Colucci, 2012) e rappresenta un pensiero chiave in molte politiche internazionali e comunitarie[3] (es. campagna “ResilientCities” promossa dall’UNISDR). Riferimento comune per queste politiche è il concetto di resilienza ecosistemica intesa quale proprietà dei sistemi complessi di reagire ai fenomeni di stress, attivando strategie di risposta e di adattamento al fine di ripristinare i meccanismi di funzionamento. I sistemi resilienti, a fronte di uno stress, reagiscono rinnovandosi ma mantenendo la funzionalità e la riconoscibilità dei sistemi stessi (Gunderson, Holling, 2002). La resilienza non implica quindi il ripristino di uno stato iniziale, ma il ripristino della funzionalità attraverso il mutamento e l’adattamento.
Tra i concetti chiave condivisi da molti autori, alcuni rappresentano aspetti di innovazione per il progetto di territorio: la diversità creativa, la ridondanza, il riconoscimento delle variabili lente (e l’attenzione alle variabili temporali associate alle soglie ovvero le strategie connesse a scenari di ripristino, adattamento ed evoluzione), le interconnessioni e interdipendenze tra i molteplici livelli (di complessità) delle componenti e livelli gerarchici dei sistemi complessi, la flessibilità e l’innovazione (intese come capacità di apprendimento, sperimentazione e sviluppo di regole/progettualità locali capaci di abbracciare i mutamenti), la memoria e le molteplici forme di conoscenza.
La diffusione del termine “resilienza” (utilizzato quale way of salvation o solution to all problems come sottolineano Hopkins (Hopkins, 2008) e altri autori) è certamente dovuta alla capacità del concetto di proiettare visioni pro-attive e positive e quindi di reagire in modo strategico rispetto a potenziali fattori di crisi (economici, ambientali, sociali e di governo).
La resilienza intesa come approccio culturale verso la complessità riprende i principi e le proprietà alla base della resilienza ecosistemica. Si sottolineano alcuni caratteri che dovrebbero appartenere e contraddistinguere i processi (e dunque le strategie di progetto) di trasformazione urbana e territoriale che mirano ad un rafforzamento delle proprietà di resilienza dei sistemi complessi:
La resilienza è un concetto di notevole ricchezza che, se affrontato con la corretta complessità, può essere la chiave per un effettivo processo di innovazione culturale e di approccio alla costruzione dei processi di progettazione e gestione delle soluzioni territoriali e urbane. Pertanto la riflessione sulla resilienza urbana andrebbe indirizzata ad affrontare le molteplici dimensioni dei processi di transizione e adattamento, le notevoli vulnerabilità dei sistemi socio-ecologici urbani, le relazioni tra equità sociale e sostenibilità ambientale e prevendendo una valutazione dei possibili effetti (diretti ed indiretti) che vengono attivati sia nelle componenti sociali, di governance, ambientali e economiche. Invece, nell’attuale panorama delle pratiche si riscontra un’applicazione che richiama più le dimensioni “ingegneristiche”, tendendo a sviluppare strategie mirate a questioni e problematiche specifiche (cambiamento climatico, soluzione di specifiche vulnerabilità ambientali) attraverso l’ottimizzazione dei metabolismi urbani ed una maggiore attenzione al “build environmnet” ed agli aspetti di innovazione tecnologica. È dunque verso un’ottica di maggiore complessità ed integrazione che possono essere trovati spazi per la costruzione di modelli di sviluppo innovativi, intendendo in questo modo la resilienza come espressione di un insieme di capacità proprie dei sistemi complessi e che quindi, applicandosi all’ambito urbano, debba necessariamente avere come fulcro il potenziamento delle capacità delle persone (singole e come “collettività” o “comunità”).
In un’interessante rassegna della letteratura sulla resilienza come area di studio, Prati e Pietrantoni (Prati, Pietrantoni, 2009) evidenziano come l’ottica ecologica abbia contribuito fin dagli anni Ottanta a spostare l’attenzione dall’individuo (dai suoi adattamenti evolutivi) alla comunità, ed in particolare alle comunità esposte ad eventi avversi (intesi come catalizzatori di cambiamento). In particolare, negli studi sulle comunità resilienti si evidenzia innanzitutto una contrapposizione essenziale tra la tradizione di interventi orientati al cosiddetto “modello clinico” (che si fondano sull’assunzione prevalente che le comunità siano incapaci di gestire una crisi senza aiuti provenienti dall’esterno) e una visione opposta, quella della “comunità competente” (in base alla quale le persone vengono concettualizzate come capaci di catalizzare le risorse necessarie per affrontare le sfide).
Il lavoro di Prati e Pietrantoni si pone esplicitamente l’obiettivo di introdurre una nuova prospettiva di riflessione orientata a teorizzare la resilienza come processo di “coping orientato al problema”. Con esso si intende un processo di adattamento che mette in relazione reciproca, capacità e risorse adattive di diversa natura e specie e che – in un’ottica ecologica - non tiene conto solamente di fattori interni alla comunità ma anche di quelli esterni. Gli autori sostengono che “al di là dei problemi ancora irrisolti, sul piano teorico come su quello degli interventi pratici, questa prospettiva ha il vantaggio di basarsi su un’ottica positiva centrata sull’analisi delle risorse piuttosto che delle carenze” (Prati, Pietrantoni, 2009). E’ tuttavia pur vero che questo tipo di analisi risulta essere un’operazione tutt’altro che scontata. Una risorsa, infatti, non esiste mai in astratto e non può essere definita tale in assoluto: al contrario essa può rivelarsi solo e soltanto in relazione all’organizzazione di una qualche ipotesi di intervento, in base alla quale individuare i potenziali e le ricchezze presenti in un contesto e promuovere il coinvolgimento dei loro portatori. Chi - e in che modo - può contribuire allora a questo processo di “disvelamento”? Quali risorse per fare cosa?
Su questo fronte, un importante contributo è fornito dalla letteratura dedicata allo studio dei processi organizzativi. In particolare, una serie di spunti interessanti provengono dagli studi dedicati ad osservare le modalità con cui le società si organizzano per fronteggiare le situazioni catastrofiche, che vengono riguardate come vere e priorie “opportunità di apprendimento” e come possibile occasioni di innovazione delle routines organizzative (Lanzara, 1993). Dalla metafora legata ai processi catastrofici, ne esce rafforzata l’interpretazione del processo (e del progetto) di resilienza come uno spazio di apprendimento sociale, in cui contano le capacità individuali preesistenti, ma ancora di più la competenza collettiva (community capability), che può essere sviluppata in base ad un approccio di tipo cooperativo. La resilienza sociale, da questo punto di vista, identifica, più che una soluzione, una approccio di lavoro orientato a gestire efficacemente il processo di “transizione” da intuizioni di minoranze attive che colgono elementi di valore dalla discontinuità, a veri e propri modelli organizzativi in cui si ritrova e si riconosce la comunità stessa.
Due aspetti fondamentali qualificano questo approccio: in primo luogo si tratta di un processo che avviene in corso d’opera sviluppandosi sia in senso incrementale (dall’intuizione al progetto), sia in direzione bottom-up (dal micro al macro). In secondo luogo si tratta di un tipo di apprendimento che è sempre relativo e strategico, nel senso che tiene conto delle condizioni di partenza (le risorse a disposizione e i dati di contesto) e del tipo di sfida (la specifica challenge) da affrontare, focalizzando le caratteristiche del problema ma anche le opportunità che possono derivarne per reinventare l’ambiente operando negli spazi lasciati liberi dallo status quo compromesso. D’altra parte, proprio in quanto approccio particolarmente adatto alle situazioni caratterizzate da problematiche complesse e intrecciate e da un significativo grado di incertezza rispetto alle soluzioni da adottare, la resilienza sociale (o resilienza di comunità) presuppone un forte orientamento alla sperimentazione e una significativa disponibilità a gestire in modo flessibile il processo.
A differenza delle logiche di intervento adatte a situazioni problematiche note e a contesti d’interazione stereotipati, nei quali “si sa da dove partire e verso dove si va” (Cottino, 2009a), in questo genere di circostanze la “transizione” che ci si propone di governare attraverso la mobilitazione della comunità, è infatti quella tra una situazione problematica nota, ma di difficile interpretazione, e una visione del futuro che è destinata ad assumere connotati più chiari solo in corso d’opera. Da questo punto di vista, il processo di resilienza di comunità si lega meno ai consueti modelli di programmazione e progettazione sociale e più alla logica “imprenditoriale”, intesa come attivazione pionieristica per provare a trasformare in progetto un’intuizione. Pare, pertanto, particolarmente appropriato in questo caso parlare di “impresa sociale”: non solo e non tanto in relazione alla capacità (potenziale) dell’iniziativa di affrontare un problema sociale ma per via della capacità (effettiva) dell’iniziativa di attivare molteplici componenti della società locale. Impresa sociale come intrapresa collettiva, dunque, anche e soprattutto perché presuppone una socializzazione del rischio prima che (e in funzione de) una socializzazione dei benefici.
Sono molteplici i possibili punti di innesco dei processi di resilienza di comunità: in anni recenti, ad esempio, hanno preso a diffondersi e moltiplicarsi iniziative locali, progetti e politiche esplicitamente rivolti alla creazione di processi di questo genere attorno alla prospettiva della rigenerazione urbana. Si allude alle situazioni nelle quali il processo è stato sviluppato a partire dalla promozione di iniziative di riattivazione di spazi e/o di strutture dismesse presenti in un determinato contesto; ciò è avvenuto tramite l’organizzazione di forme di collaborazione tra attori locali e attori esterni, l’impiego di risorse molteplici e facendo attenzione ad impattare sul più ampio sistema delle relazioni sociali locali e incidere sulla valorizzazione dell’ambiente naturale circostante.
Per citarne soltanto alcuni, il programma Bollenti Spiriti della Regione Puglia, il progetto Spazi Opportunità promosso da Manifetso2020 nella città di Trieste, le piattaforme su scala regionale/nazionale Impossible Living e Pophub (un progetto di ricerca vincitore del bando Smart Cities and Social Innovation nell’ambito del PON “Ricerca e Competitività” 2007-2013): una catalogazione più ampia e articolata di queste esperienze è contenuta nel volume di recentissima pubblicazione di Adriano Paolella (Paolella, 2015). Nel frattempo ricerche e studi fondati sull’analisi e l’interpretazione di casi e buone pratiche in Italia e all’estero, hanno fornito sia contributi per la modellizzazione dell’approccio progettuale che è utile seguire a supporto dei processi di community reuse, che raccomandazioni per gli attori interessati a promuovere questo genere di processi. In particolare, il data-base generato attraverso il progetto URBAN REUSE indirizzato a raccogliere e analizzare buone pratiche di governance locale per il riuso sociale e creativo di aree dismesse (www.urban-reuse.eu) ha fornito gli spunti per una riflessione[4] in merito al tipo di supporto che può essere offerto da istituzioni e donors, assumendo un innovativo ruolo di enabler di processi aperti al coinvolgimento delle diverse anime della comunità per promuovere iniziative ispirate alla logica della sussidiarietà orizzontale (Cottino, Zeppetella, 2009).
E’ pur vero che interlocutore primo e necessario per le istituzioni interessate ad attivare questo genere di processi è comunque il terzo settore, che per configurazione giuridica (nonprofit) e competenze (gestionali) costituisce il perno indispensabile dell’architettura organizzativa per qualsiasi iniziativa che intenda rimettere in gioco beni pubblici e/o attivare nuovi beni comuni. Le sperimentazioni che oggi - sostenute prevalentemente da finanziamenti legati a bandi promossi da fondazioni e/o da programmi di sviluppo straordinari - coinvolgono le organizzazioni e le associazioni nonprofit costituiscono il “banco di prova” per verificare e dimostrare l’efficacia dell’approccio comunitario quale volano per un nuovo modello di rivitalizzazione territoriale.
Tuttavia l’impegno nel campo delle politiche integrate di rigenerazione urbana presuppone per il terzo settore un cambiamento di prospettiva molto rilevante rispetto alla tradizione dell’intervento a servizio e/o a completamento delle politiche pubbliche settoriali. Il cambiamento richiesto per affrontare la gestione di processi di riuso di beni immobili e spazi abbandonati o sottoutilizzati presenta una duplice sfaccettatura: oltre al passaggio ad una logica imprenditoriale, che aggiunge rischi e incertezze, va considerata anche la necessità di affrontare nodi progettuali più complessi e articolati.
Il problema, infatti, non è solo quello di individuare nuove funzioni in qualche modo auto-sostenibili con cui riempire di nuovi contenuti spazi disponibili: per quanto quest’ultima rappresenti la condizione minima e anche il pretesto per l’innesco dei processi di cui parliamo, l’effetto di “rigenerazione” che si intende produrre ha a che fare con la produzione di impatti (diretti e/o indiretti) sul contesto territoriale, in termini di riattivazione economica, promozione sociale, valorizzazione ambientale, rivitalizzazione culturale, etc.
Detto altrimenti, l’impresa della riconversione di beni e proprietà immobiliari dismessi o sottoutilizzati del riuso si connette alla sfida della rigenerazione urbana se il progetto sviluppa la capacità di sollecitare in modo strategico il contesto territoriale, rappresentando uno strumento (pur non esclusivo) di controllo delle diverse dimensioni legate alla sua trasformazione. Proprio per questo si tratta di una sfida difficilmente risolvibile con il solo impiego del bagaglio di strumenti progettuali tradizionalmente nelle corde del mondo della cooperazione. L’innovazione richiede di aprirsi all’intersezione con punti di vista e competenze plurime e volgersi ad accogliere anche stimoli e proposte metodologiche solitamente non incluse nel campo della progettazione sociale.
Un’intersezione sperimentata a più riprese in anni recenti[5], in occasione delle iniziative progettuali avviate per alcune candidature a bandi di finanziamento innovativi, è quella tra la cultura della progettazione sociale con il mondo del design strategico delle politiche pubbliche (Howlett, 2011), ed in particolare con l’approccio e le metodologie dell’urban policy design, (Cottino, 2009b), nell’ambito del quale:
Tra i tanti nodi operativi rilevanti che questa intersezione ha contribuito a far emergere dell’innovazione metodologica necessaria per la costruzione di progetti d’impresa sociale, in questa sede se ne evidenziano sinteticamente tre:
Qualunque politica pubblica che interviene su un contesto locale rispecchia il modo in cui quello stesso contesto è stato osservato. La lettura di un territorio non è mai un’operazione scontata e neutrale: l’individuazione delle caratteristiche di un contesto, infatti, è sempre e comunque un atto di interpretazione e dunque scelta di enfatizzazione di alcuni aspetti a discapito di altri. Si pensi, ad esempio, a un tipico territorio target degli interventi di tipo sociale: le periferie. Mentre più abitualmente la progettazione degli interventi sociali in questi contesti è orientata da descrizioni della periferia fondate sulla rilevazione e l’interpretazione dei bisogni di chi la abita, uno sguardo più originale è quello rivolto ad esplorarne le potenzialità e le qualità nascoste con riferimento alle reali possibilità di riabilitazioni di questi luoghi nell’equilibrio urbano. In un caso il territorio della periferia è inteso come un “dato”: viene descritto con l’insieme delle informazioni disponibili che, attraverso il ricorso ad una serie di indicatori del disagio, segnalano la differenza tra quel contesto e il resto della città e che secondo la logica amministrativa si traducono in “bisogni”. Nell’altro caso il territorio della periferia viene riguardato come un “progetto”: viene cioè descritto con l’insieme delle opportunità che, adeguatamente colte, potrebbero entrare a far parte di un’ipotesi di azione collettiva localizzata.
In questo senso lo sviluppo di progetti di impresa sociale è indirizzato ad aprire inediti spazi di lavoro che sappiano da una parte promuovere sviluppo secondo modalità non consuete e dall’altra catalizzare interessi e mobilitare uno spettro più ampio di attori. Un contributo in questo senso è dato, nella metodologia dell’urban policy design, dalla costruzione di rappresentazioni del territorio da sottoporre agli attori (a quelli già in campo e a quelli potenziali) che li sollecitino a vedere la situazione attuale “come se fosse altrimenti” e a riconoscere la convenienza reciproca dell’azione congiunta (giochi a somma positiva, in cui tutti gli attori coinvolti traggono il loro vantaggio). Si tratta di descrizioni del territorio “per come potrebbe essere”, funzionali a rendere evidenti a diversi attori, pur con obiettivi diversi, i vantaggi derivanti dal mobilitare le loro risorse all’interno di progetti comuni.
L’attenzione per gli spazi ha tradizionalmente avuto una funzione residuale nella progettazione sociale: più frequentemente gli spazi vengono considerati come i semplici contenitori entro cui far ricadere gli esiti di progettualità sviluppate in modo astratto e secondo criteri a-spaziali. Diversamente, l’uso degli spazi potrebbe assumere un ruolo importante per lo sviluppo di un approccio incrementale e sperimentale al progetto, anche nel campo delle politiche di welfare. Un’evidente opportunità per procedere in tal senso è data dalla prospettiva del riuso. Lo spunto per una riflessione in proposito viene dall’osservazione di alcune esperienze di riutilizzo “sociale” degli spazi disponibili, iniziative che hanno promosso cioè processi di mobilitazione e implicazione diretta di gruppi di abitanti e “comunità di pratiche” nella reinvenzione della funzione attribuita a certi spazi inutilizzati o sottoutilizzati (Cottino, Zeppetella, 2009). Progetti innovativi di impresa sociale che sono emersi nel corso (e grazie a) pratiche progressive di adattamento di spazi dismessi e a partire dalle possibilità di sperimentazione che hanno consentito. La rilevanza del riuso degli spazi è legata anche a fattori di sostenibilità dell’innovazione sociale, a condizione che sia le pratiche che le politiche vengano elaborate ed implementate come occasione e momento propizio per mettere al lavoro le risorse e le capacità di fare della società locale (un certo “uso del riuso” dunque).
Ciò che interessa, in altre parole, è l’esperienza che la dismissione rende possibile: l’attivazione di un processo di riflessione progettuale attraverso la sperimentazione pratica. In questo senso gli spazi dismessi possono essere funzionali a ospitare veri e propri laboratori per la formazione di nuove competenze sociali, ossia ambiti capaci di funzionare da magneti delle energie sociali presenti sul territorio, a contrastare la loro dispersione e a potenziare la loro capacità progettuale per rielaborare l’interesse collettivo.
Innanzitutto perché, in una situazione caratterizzata da tendenze individualizzanti che riguardano la società, la condivisione di spazi fisici tra le persone stimola la ricerca di possibili sinergie e interdipendenze, che costituiscono la base per lo sviluppo di progettualità comuni.
In secondo luogo, l’esperienza del riuso risulta rilevante perché facilita l’immaginazione e consente di ottimizzare tempo e risorse: rapportarsi con uno spazio è spesso una condizione vincolante per verificare la fattibilità di un’idea di progetto, per fare delle prove ed eventualmente riconoscere possibilità e occasioni per “correggere il tiro”. Gli spazi rendono infatti visibili le possibilità d’azione, sollecitano l’ideazione di soluzioni creative a fronte di vincoli pratici e strutturali, sostenendo forme di bricolage socio-organizzativo, dalle quali dipendono interessanti materiali di innovazione.
In terzo luogo perché lavorando sugli spazi le organizzazioni coinvolte sono costantemente presenti sul territorio, con il vantaggio di mantenere lo sguardo rivolto a intercettare stimoli e opportunità da sviluppare in chiave progettuale. Uno spazio da riutilizzare rappresenta quindi una sfida aperta, nella misura in cui viene concepito come un cantiere permanente aperto a sollecitazioni esterne da ospitare e rafforzare.
Infine, il riuso degli spazi rappresenta un fattore strategico rispetto alla costruzione di partenariati di progetto, in quanto gli spazi rendono visibile “la posta in gioco” dei processi negoziali all’interno dei quali diversi attori con diversi interessi sono chiamati a collaborare e quindi a ricercare modelli di relazione nei quali i vantaggi degli uni siano direttamente o indirettamente associati ai vantaggi degli altri. L’uso progettuale degli spazi può essere dunque favorito e facilitato in base ad “un certo modo” di affrontare l’azione progettuale.
Un progetto di impresa sociale per essere tale deve saper coniugare la soddisfazione degli obiettivi molteplici e multidimensionali legati allo sviluppo della comunità locale, con la sostenibilità (tecnica, politica, economica) degli interventi. Ciò rende a tutti gli effetti la progettazione un’attività tanto complicata e quanto “costosa”, soprattutto nelle situazioni (sempre più diffuse) contraddistinte da una generale scarsità di risorse pubbliche disponibili per l’innovazione in campo sociale. In alcuni casi questo spinge i promotori delle innovazioni nel campo del welfare a ridurre le loro ambizioni attestando i progetti a ridosso di modelli più consueti e consolidati; in altri casi, invece, li sollecita a riconoscere le strategie e le modalità più efficaci per mobilitare (anche) risorse di altra natura e di altra provenienza, che possano integrare o sostituire quelle già disponibili per lo sviluppo dei progetti. Questa seconda opzione, unitamente all’orientamento “politico” a promuovere il protagonismo delle comunità locali nei processi che le riguardano, da qualche tempo sostiene all’interno del dibattito sulla fattibilità delle iniziative di impresa sociale posizioni volte a problematizzare il tema delle risorse.
La progettazione, da questo punto di vista, da esercizio di adattamento al sistema delle risorse disponibili (inteso come vincolo) si riconfigura come attività esplorativa rivolta all’individuazione e alla costruzione delle condizioni di attivazione di potenziali inespressi o di coinvolgimento e mobilitazione di altri stakeholder rispetto a quelli già coinvolti. A tal fine diviene cruciale la prefigurazione di una qualche intenzione o idea di progetto che sia sufficientemente puntuale da permettere l’identificazione di un primo spettro di interlocutori, ma anche sufficientemente flessibile da poter essere modificata in base alle condizioni che regolano l’acquisizione e l’impiego delle risorse di cui essi sono portatori.
L’approfondimento di tali condizioni costituisce l’oggetto principale dell’attività progettuale che, nell’ottica del policy design, viene intesa come “indagine di fattibilità”: i risultati delle interlocuzioni con gli attori a proposito della prima idea di progetto devono essere utilizzati per prefigurare scenari alternativi d’azione, nuove rappresentazioni del problema su cui si intende intervenire e soluzioni che si potrebbero attivare che, concepite tenendo conto degli elementi emersi, comincino a rappresentare un possibile spazio di accordo tra gli attori.
Per poter reagire in modo efficace agli shock determinati a livello locale dai cambiamenti sistemici, un’interpretazione in senso sociale del concetto di resilienza può essere di stimolo alle organizzazioni di terzo settore nell’essere reali promotrici di cambiamento, sia al proprio interno, che per (e con) le comunità locali. Ciò potrà avvenire da una parte assumendo un profilo imprenditoriale in senso stretto (con tutti i rischi connessi), dall’altra facendo propri strumenti progettuali e metodologie meno tradizionali.
Le iniziative e le opportunità nel campo della rigenerazione urbana e l’appropriarsi di approcci e metodologie propri dell’urban policy design, definiscono una possibile strada operativa con la quale diverse organizzazioni nonprofit si stanno cimentando e attorno alla quale potrebbe essere interessante organizzare percorsi di integrazione più strutturati. L’innovazione richiede di aprirsi all’intersezione con punti di vista e competenze plurime e volgersi ad accogliere anche stimoli e proposte metodologiche solitamente non incluse nel bagaglio di strumenti progettuali tradizionalmente nelle corde del mondo della cooperazione.
Questo rafforza oltremodo la visione della resilienza, non solo e non tanto come capacità adattiva nei confronti dei cambiamenti indotti da dinamiche esterne, ma soprattutto come atteggiamento culturale con cui una parte del nonprofit può affrontare - e affronta - proattivamente la crisi, cogliendola come stimolo per mettere in discussione i tradizionali modelli di intervento e innescare processi di rigenerazione nei contesti territoriali.
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