Nonostante gli evidenti limiti dei mercati e le responsabilità della finanza nella crisi globale iniziata nel 2007, a distanza di quasi dieci anni dall’esplosione della bolla immobiliare alimentata dai mutui subprime, sono sempre più presenti nell’agenda politica di diversi Paesi europei soluzioni che utilizzano modelli di mercato per cercare di rendere più efficienti i sistemi di welfare, impoveriti dalla contrazione dei principali programmi di spesa pubblica (sanità, pensioni, assistenza sociale).
In Italia grande attenzione è stata riservata nel dibattito pubblico alla finanza ad impatto sociale ed agli schemi Payment by Results (PbR), temi che hanno accompagnato anche il percorso di riforma del Terzo settore e dell’impresa sociale.
I sostenitori della finanza a impatto sociale propongono soluzioni per fronteggiare la contrazione delle risorse pubbliche destinate al welfare. In particolar modo, come esplicitato nei documenti finali della taskforce sul social impact investment, si punta sull’attrazione dei capitali privati per fronteggiare il contenimento delle risorse pubbliche. Nel rapporto della taskforce italiana intitolato in modo evocativo La finanza che include: gli investimenti a impatto sociale per una nuova economia, si stima in circa 150 miliardi di euro la spesa sociale non coperta dal pubblico in Italia nel periodo 2014-2020. Questo gap di risorse si concentra in settori come la salute, la disabilità il supporto alla famiglia e alla natalità, l’housing e l’inclusione sociale.
La diffusione del social impact investment e dei meccanismi payment by results (PbR) potrà avere conseguenze anche sulle imprese sociali, tali conseguenze sono state sino ad ora poco studiate. Con questo lavoro iniziamo un percorso di ricerca che vuole indagare il rapporto tra Social Impact Bond (SIB), PbR e imprese sociali.
Ma che cosa è la finanza a impatto sociale? Il dibattito è molto aperto, a volte confuso. Per i loro sostenitori, i Social Impact Bond (SIB) rappresentano un nuovo meccanismo per il finanziamento e la fornitura dei servizi pubblici che permette di apportare imprenditorialità nel settore pubblico collegando il settore finanziario con il welfare (Mulgan et al.). In sostanza l’Ente pubblico responsabile di un servizio non corrisponde, come si è detto, un pagamento per le prestazioni rese, ma si impegna a pagare un compenso qualora l’esito dell’intervento risulti positivo; ciò crea la necessità per il soggetto che realizza l’intervento di individuare un intermediario finanziario che, scommettendo nella positività del risultato, finanzi il progetto collocando sul mercato delle obbligazioni e facendo leva quindi sullo stesso criterio che si utilizza quando si decide di investire in un’impresa confidando nel suo buon andamento di mercato; in caso di esito positivo dell’intervento, gli investitori vedranno il proprio investimento remunerato.
Per fare chiarezza utilizziamo un’esperienza spesso citata quando si analizza il social impact investment, quella dei Peterborough social impact bond (Disley ed al. 2011); si tratta di un progetto sostenuto dalla Rockefeller Foundation finalizzato al reinserimento sociale dei detenuti del carcere di Peterborough in modo da ridurre il tasso di recidiva. In questa esperienza gli investitori sono remunerati dal Ministero della giustizia in base al tasso di recidiva degli ex-detenuti coinvolti nel programma. Minore è la recidiva, maggiore sarà la remunerazione. L’idea di fondo è che i risparmi per la finanza pubblica derivanti da una minore recidiva dei detenuti sono utilizzati per remunerare gli investitori che hanno sottoscritto il social impact bond.
In questo schema sono coinvolti diversi attori. Le amministrazioni pubbliche che non hanno le risorse per gestire in modo adeguato un intervento sociale, nel nostro esempio i programmi di inserimento degli ex detenuti, i fornitori di un servizio o gestori dell’intervento sociale stesso, gli investitori che finanziano l’intervento, un operatore finanziario specializzato nell'emissione di un SIB e nella raccolta di capitale e, infine, un soggetto indipendente incaricato della valutazione del risultato finale e della misurazione del suo impatto, nel nostro esempio il tasso di recidiva.
Come nel caso di Peterborough, spesso i SIB sono utilizzati per finanziare iniziative volte a ridurre o prevenire problemi sociali complessi (Rudd et al., 2013; Goodall, 2014; Tan et all. 2015). In questi schemi i finanziatori che hanno sottoscritto i SIB saranno remunerati, in tutto o in parte, grazie ai risparmi generati dai servizi realizzati con le risorse del SIB, nel nostro caso il minor tasso di recidiva genera minori oneri per le casse pubbliche dovuti a minori spese per polizia, tribunali, carceri eccetera. In questa prospettiva i SIB posso offrire soluzioni “win-win” a governi, investitori, fornitori di servizi di welfare e beneficiari dei servizi stessi.
A una prima analisi i SIB sembrano offrire le risposte giuste per un welfare che ha a disposizione sempre meno risorse e che non sempre utilizza al meglio le risorse disponibili. Nei SIB c’è un collegamento diretto tra il finanziamento dell’intervento sociale e il risultato (l’impatto sociale misurabile). Con i SIB si superano le inefficienze della gestione diretta del pubblico di alcuni interventi sociali e le opacità dei quasi-mercati in cui operano le organizzazioni del Terzo settore. L’idea di fondo è utilizzare gli strumenti di mercato per massimizzare l’efficienza del welfare e sostituire le risorse pubbliche insufficienti a soddisfare la domanda di servizi di welfare dei cittadini.
Per i sostenitori dei SIB, inoltre, questo nuovo meccanismo di finanziamento è coerente con un più ampio processo di riforma del settore pubblico (Warner, 2012) che permette di aumentare l’efficienza della spesa pubblica acquistando risultati piuttosto che prestazioni, per questo motivo i SIB sono strettamente collegati agli schemi payment by results (PbR).
Esemplificando, secondo una logica tradizionale, un contratto tra la Pubblica amministrazione e il soggetto chiamato a erogare il servizio di accompagnamento al lavoro potrebbe prevedere un pagamento proporzionato alle ore di counseling offerte o di formazione erogate, oppure al numero di beneficiari accompagnati in un percorso professionalizzante. Secondo la logica payment by results la Pubblica amministrazione paga il soggetto erogatore sulla base di obiettivi definiti e misurabili, ad esempio il numero di persone inserite al lavoro in un dato periodo. Un SIB emesso per finanziare il servizio di accompagnamento al lavoro potrebbe fissare dei target misurabili di risultato fissando il tasso persone inserire al lavoro nei 12 mesi.
I PbR sono presentati nel dibatti pubblico come strumenti di innovazione del welfare, ma sono veramente nuovi nel panorama italiano? No, non del tutto. Ad esempio, anche senza considerare il caso sui generis di payment by result costituito dai regimi di incentivazione alle assunzioni, tra cui la fiscalizzazione degli oneri sociali delle cooperative di inserimento lavorativo (che ricevono appunto il beneficio della fiscalizzazione qualora l’assunzione del lavoratore svantaggiato sia effettivamente avvenuta), nei servizi per l’impiego rivolti alle fasce deboli il payment by result è un sistema comunemente in uso, in forme diverse, negli ultimi vent’anni. Sono diffusi casi in cui si prevede il pagamento di corrispettivi per le azioni di accompagnamento solo qualora esse portino al reperimento dell’occupazione o, in forma più soft, prevedendo un pagamento base molto limitato e una premialità solo in caso di esito positivo.
Tra l’altro in questi casi il risultato è abbastanza facile da appurare: una persona, a seguito delle azioni messe in atto, “lavora” o “non lavora”, quindi il fatto che l’intervento sia coronato o meno da successo non implica particolari costi per valutatori indipendenti o contenziosi sui pronunciamenti di questi ultimi. Se una persona è stata assunta (o, se l’obiettivo è diverso, se è stata inserita in un tirocinio o altro) è un fattore immediatamente riscontrabile.
Vero è che il sistema non è stato spesso utilizzato in altri ambiti citati come esemplari con riferimento ad esperienze estere, come i programmi di reinserimento socio lavorativo dei detenuti tesi ad abbattere le recidive; ma non è corretto affermare che il payment by result sia sconosciuto nel nostro Paese. Constatare che negli ultimi decenni interventi sul modello dei PbR sono stati applicati, anche con successo, in Italia permette cambiare l’impianto del dibattito pubblico sull’evoluzione del welfare che è spesso impostato sul modello “innovazione Vs conservazione”. In questa narrazione, lontana dalla realtà, si contrappongono innovatori e conservatori. I primi sono descritti come coloro che vogliono innovare il welfare applicando modelli e strumenti, come i SIB e i PbR, provenienti dal più avanzato e dinamico mondo anglosassone con l’obiettivo di innalzare il livello di benessere dei cittadini, mentre i secondi sono presentati come coloro che intendono frenare il cambiamento difendendo un modello di welfare arretrato, assistenziale e non più in grado di dare risposte adeguate ai bisogni delle persone negli anni Duemila.
Se invece si cambia setting di discussione, riconoscendo che si tratta di strumenti noti e sperimentati, la questione è inquadrata in termini diversi e più fecondi. In questa nuova prospettiva è giusto chiedersi quali siano i vantaggi e gli svantaggi che, sulla base dell’esperienza e delle evidenze, possono essere attribuiti ai PbR ed ai SIB. È in questo secondo setting che vogliamo posizionarci con questo paper.
Sia i SIB che i PbR sono strumenti molto seducenti che però presentano diverse criticità sia di natura economica e morale, sia più direttamente collegate alle caratteristiche tecniche degli strumenti.
In primo luogo, il mercato del welfare è un settore molto distante dal mercato di concorrenza perfetta di cui parlano i politici e gli economisti quando evocano gli effetti positivi per i consumatori della concorrenza e del mercato. Nel welfare i beni scambiati sono estremamente diversificati, anzi in molti casi sono servizi personalizzati, vi sono grandi asimmetrie informative tra produttori e acquirenti come anche significative barriere all’entrata che favoriscono la creazione di oligopoli. Per queste ragioni non ci sono solide basi teoriche per ritenere che l’utilizzo degli strumenti di mercato aumenti l’efficienza del welfare.
In secondo luogo, i capitali privati, anche se a impatto sociale, non si possono sostituire alle risorse pubbliche nel garantire alcuni diritti fondamentali ai cittadini. Non sono infatti gli investitori privati che si devono fare carico delle implicazioni etiche, morali e di giustizia sociale di un programma di welfare: tali responsabilità rientrano a pieno titolo nel perimetro dello Stato e delle amministrazioni decentrate. Che cosa succede se i SIB emessi da un soggetto pubblico non sono sottoscritti dal mercato? Il programma pubblico che quei SIB avrebbero dovuto finanziare viene sospeso?
In terzo luogo, i SIB generano degli extra costi rispetto agli interventi tradizionali. Questi costi sono rappresentati dalle commissioni pagate agli operatori finanziari, dai costi per le società di consulenza incaricate della misurazione degli impatti e dallo spread tra rendimento di un SIB e il rendimento di un tradizionale bond emesso dallo Stato. Nell’asta del 14 gennaio 2018, ad esempio, lo Stato Italiano ha emesso BOT annuali a tassi negativi (-0,42%). Ha senso pagare rendimenti ben più alti agli eventuali sottoscrittori dei SIB emessi sempre dallo Stato o da sue amministrazioni decentrate? Inoltre, ad una lettura della normativa nazionale ed internazionale in materia di finanza pubblica, i SIB emessi dallo Stato o da sue amministrazioni decentrate rientrano nel perimetro del debito pubblico come i BOT e gli altri titoli di debito.
In quarto luogo, nei SIB i finanziatori sono remunerati, in tutto o in parte, sulla base dell’impatto sociale generato. Questo aspetto rende evidente che il processo di misurazione dei risultati sociali raggiunti deve essere affidabile, condiviso, chiaro e trasparente. Ora, in molti casi, come ad esempio per i servizi a supporto dei minori, i risultati possono essere apprezzati solo a distanza di anni, ma l’impatto di questi servizi dovrà essere valutato nel breve termine, in modo da permettere alla Pubblica amministrazione di remunerare i finanziatori. In questi casi si corre il rischio di alterare le logiche di fondo di alcuni servizi, concentrando l’attenzione su elementi immediatamente rilevabili e facilmente misurabili.
In quinto luogo, analisi internazionali hanno osservato che ad oggi vi sono limitate evidenze empiriche che mostrano come il finanziamento di un servizio pubblico utilizzando SIB e schemi PbR garantisca il raggiungimento di migliori performance rispetto servizi pubblici finanziati con le modalità tradizionali (Lagarde et al., 2013).
In sesto luogo, in un settore caratterizzato da forti asimmetrie informative, la diffusione dei SIB e dei PbR può ridurre l’efficacia degli interventi, introducendo incentivi impliciti, a includere nei programmi finanziati con i SIB o remunerati sulla base di meccanismi PbR persone con disabilità meno gravi che permettono di raggiungere più agevolmente i target fissati.
Un esempio può aiutare a comprendere meglio questo aspetto. Pagare un servizio per l’impiego solo se la persona trova lavoro può stimolare chi vi opera ad impegnarsi maggiormente, ma anche a cercare vie facili per riscuotere il beneficio; a far passare strumentalmente dal proprio servizio chi di fatto è già stato assunto; o, senza scadere in tali aspetti censurabili, nel prendere in carico chi mostra maggiore possibilità di esito positivo, insomma il fenomeno di “scrematura del mercato” ben noto agli economisti. Si può obiettare che è possibile commisurare l’entità del payment alla difficoltà del result: corrispondere una cifra maggiore per avere intermediato l’assunzione di una persona con disabilità psichica rispetto a quella prevista per un giovane laureato in cerca di prima occupazione; ma questi meccanismi non possono che agire per categorie generali, mentre il prestatore è ben in grado di individuare strategie selettive per massimizzare la ricompensa e minimizzare lo sforzo, strategia che però porta ad esiti contrari a quelli che il servizio generalmente si pone, cioè il dare risposta primariamente alle situazioni più difficili. A ben vedere, anche ulteriori strategie correttive che è possibile mettere in campo, dalla cogenza di presa in carico alla verifica dell’effort, non sono immuni in un contesto di asimmetria informativa dalle controindicazioni sopra citate.
Infine, il social impact investment e gli schemi payment by results spingono gli attori coinvolti, inclusi i soggetti pubblici, a focalizzare l’attenzione e l’eventuale misurazione dell’impatto su singoli interventi, quando invece per migliorare l’operatività degli attori pubblici sarebbero necessari interventi di sistema che valutino l’efficacia, l’efficienza e l’equità delle politiche pubbliche.
La diffusione del social impact investment può avere delle conseguenze anche sulle imprese sociali operando una radicale trasformazione del modello di finanziamento ed erogazione di alcune tipologie di servizi di welfare a cui è collegata anche la trasformazione del modello regolazione del mercato dei servizi di welfare.
In primo luogo, la finanza a impatto sociale può trasformare il modello organizzativo dei servizi di welfare attribuendo un ruolo centrale agli operatori finanziari e alle società di consulenza incaricate di misurare l’impatto sociale degli interventi, relegando le imprese sociali al ruolo di provider, sostituibili e intercambiabili, e sottraendo alle amministrazioni pubbliche il controllo dei processi di erogazione dei servizi. Nel caso di un intervento finanziato con un SIB chi sceglierà il soggetto erogatore del servizio, l’amministrazione pubblica che emette il SIB, la società finanziaria che lo colloca sul mercato o i soggetti privati che lo sottoscrivono?
In secondo luogo, nell’esperienza italiana il welfare sociale e socio-sanitario è fortemente legato ai territori e alle comunità con una molteplicità di soggetti, molti di dimensione media e piccola, che operano con successo nelle realtà locali. In particolar modo le imprese sociali e le organizzazioni del Terzo settore si sono caratterizzate per un modello di sviluppo botton up, che parte dai bisogni e dalle risorse dei territori. I SIB e gli schemi di payment by results, invece, per essere efficaci e sostenibili da un punto di vista economico richiedono adeguate economie di scala e propongono un modello di intervento top down.
In terzo luogo, c’è il tema del rischio. Sia nella finanza a impatto sociale sia nei contratti payment by results i rischi possono essere scaricati, in tutto o in parte, sui soggetti erogatori degli interventi, che potrebbero erogare i servizi senza avere certezze rispetto al prezzo che riceveranno. Questo prezzo, infatti, è legato alle performance sociali del servizio e può essere condizionato da una pluralità di fattori anche esterni al soggetto erogatore. Questo introduce un livello di rischio aggiuntivo a carico delle imprese sociali che non sembra compatibile con la marginalità estremamente contenuta tipica di questa forma di impresa e che, come già evidenziato, spinge imprese e finanziatori verso un patto implicito alla ricerca di azioni con rischi minori, che, rispetto all’intervento sociale, coincide con l’esimersi dall’affrontare i problemi sociali più complessi.
In quarto luogo, anche se non ci sono sufficienti evidenze che permettono di capire quale potrebbe essere l’effetto della diffusione su larga scala del social impact investment sulle imprese sociali, recenti ricerche empiriche (Maier et al., 2016) hanno evidenziato come un maggior orientamento al mercato delle organizzazioni del Terzo settore produce un potenziamento delle capacità imprenditoriali a discapito di una marcata riduzione delle funzioni di advocacy, di un indebolimento delle relazioni con la comunità e di un allineamento con gli obiettivi e le pratiche delle imprese for profit.
Infine, nel definire il rapporto tra finanza e impresa sociale bisogna tenere presente che, indipendentemente dalla forma tecnica utilizzata (social impact bond, capitali pazienti, eccetera), i grandi player finanziari impongono la standardizzazione degli interventi ed attraverso le tecnicalità (i contratti, i covenant ai finanziamenti, gli strumenti di misurazione degli impatti, eccetera) acquisiscono il controllo della catena del valore dei servizi welfare, facendo pagare al pubblico, alle famiglie o ai lavoratori la marginalità che trattengono. Inoltre, come accaduto negli ultimi trent’anni per altri sistemi imprenditoriali, la finanziarizzazione delle imprese sociali rischia di “slegare” questa forma di impresa dai territori e dalle comunità in cui sono nate e dove si sono sviluppate (Bernardoni e Picciotti, 2017). Standardizzazione e finanziarizzazione rischiano di mettere sullo sfondo le persone, sia i beneficiari dei servizi di welfare che gli operatori sociali, replicando dinamiche di crescita e di sviluppo che, in altri settori, si sono dimostrate fallimentari.
Il PbR non è solo un meccanismo amministrativo, ma anche un fattore culturale sulle cui conseguenze è necessario riflettere. Facciamo un esempio. Che vi siano scuole “migliori” e “peggiori” è noto; in ogni città le famiglie della buona società fanno a gara per iscrivere il proprio figlio in quel liceo che ha sfornato generazioni di menti brillanti.
Ma oggi tutto questo è elevato a potenza. Avete un figlio per il quale dovete scegliere una scuola media o superiore? Bene, se siete genitori coscienziosi e andate agli open day delle varie scuole sarete bersagliati da slide che vantano medie Invalsi superiori ad ogni altra. E, visto che comunque qualche cognizione di statistica ce l’avete, vi chiedete: ma se tutti sono sopra la media, dove sono quelli “sotto”? Il quesito rimane senza risposta, ma non è quello il problema.
Il problema è: se veramente tutti siamo affamati di medie Invalsi più alte per le scuole dei nostri figli, quale scuola vorrà quei traditori abbassa media – figli di stranieri e di genitori ignoranti – che rischiano di mettere in cattiva luce quella scuola, e quindi la sua appetibilità, e quindi i suoi finanziamenti? Quanto, nel lungo periodo, questo meccanismo si tradurrà in un maggiore impegno e preparazione dei docenti, quanto invece in pratiche discriminatorie? E, soprattutto, manca una riflessione seria su cosa ciò comporti non tanto per la singola famiglia, ma a livello complessivo sul livello di istruzione e di integrazione del paese. Ecco, questa sì sarebbe una questione appropriata per una seria analisi di impatto.
Di nuovo, non si sta affermando che l’attenzione ai risultati o la ricerca di strumenti di valutazione che consentano la comparazione sia sbagliata; ma che è in atto una semplificazione che equipara “nuovo” e “giusto” così evitando di valutare in modo equilibrato e sulla base dell’esperienza, i pro e i contro.
Ritornando a lavoro sociale, cosa implicherebbe una diffusione di meccanismi PbR? Quali conseguenze avrebbe?
Preliminarmente, va ricordato che alcuni ambiti di servizio hanno un esito facilmente e oggettivamente constatabile, mentre in altri sono chiamate in causa dimensioni assai più complesse e opinabili; di conseguenza una valutazione, pur di un terzo qualificato, che neghi la remunerazione di un ente sulla base di valutazioni sulla bontà dei risultati educativi conseguiti – pensiamo ad esempio ad un gruppo di minori o di persone con disabilità – sarebbe oggetto di infiniti ricorsi, tanto sul merito della valutazione, quanto su come variabili esterne per le quali l’ente è incolpevole abbiano influenzato il risultato.
Insomma, oltre ad interrogarci sul fatto che il PbR applicato al sociale sia auspicabile, dovremmo chiederci entro quali confini sia concretamente realizzabile. Se sia concepibile, cioè, al di fuori dei limitati casi ad esito binario appurabile in un periodo medio - breve come “lavora – non lavora”, “recidiva – non recidiva”, “assume sostanza – è astinente”. Tanto più che questi casi – pur sicuramente importanti – rappresentano una frazione minima degli interventi sociali, e comunque contengano anch’essi nella realtà una molteplicità di aspetti ulteriori e aggiuntivi che rendono spesso mortificante la semplice valutazione binaria sopra richiamata.
Va anche messa in questione la convinzione che l’essere spinti dal PbR porti gli operatori di settore a migliorarsi. È invece verosimile che, in un contesto di asimmetria informativa, anche enti partiti con le migliori intenzioni siano portati ad assumere comportamenti opportunistici, magari a seguito di interventi che – come ragionevolmente può avvenire nel sociale – incontrano delle difficoltà.
Infine, può essere utile chiedersi se i SIB ed i PbR disvelino un pregiudizio sul lavoro sociale.
Molte professioni portano con sé l’incertezza del risultato e una situazione di asimmetria informativa a favore di chi presta il servizio verso chi ne fruisce.
Ma difficilmente si sente sostenere che il medico va pagato solo se il paziente guarisce, lo psicologo solo se il cliente ritrova la serenità, l’insegnante se l’allievo intraprende una brillante carriera professionale e così via. Tra l’altro, come e più dell’operatore sociale, è difficile per chi fruisce di un servizio valutarne la qualità; io non so se il medico sta operando nel modo migliore, al massimo saprò (dopo) se grazie a suo intervento sono guarito; ma lo pago subito. Perché nessuno si sognerebbe di dire ad un professore di scuola superiore che sarà pagato (forse) se il suo studente diventerà un brillante ingegnere? È solo per la forza corporativa di alcune professioni rispetto allo scarso potere contrattuale di chi lavora nel sociale?
No, non è solo per quello. È anche perché si dà pacificamente atto che l’esito finale dipende solo in parte dal lavoro del professionista e assai di più da circostanze che gli sono esterne e che non sarebbe giusto collocare sul professionista il rischio; e si conviene anche sul fatto che il risultato stesso – pensiamo al benessere della persona a seguito di una consulenza psicologica – sia almeno in parte insondabile, anche perché ad esempio non sempre l’intervento che pare portare migliori esiti nel breve periodo non è quello che ha offerto fondamenta sufficienti per assicurarli nel medio lungo.
Questo vuol dire che medico, psicologo, insegnante e tanti altri professionisti sono sciolti da ogni forma di valutazione?
Certamente no. Al di là delle conseguenze disciplinari da parte degli organi di autogoverno della professione – o, nei casi estremi, delle conseguenze penali – il professionista è continuamente sottoposto alla valutazione di una pluralità di stakeholder. Si dice che una certa persona è (o non è) un buon medico, psicologo, insegnante (avvocato, ingegnere, architetto, ecc.) o che quella è (o non è) una buona scuola, un buon ospedale, un buono studio professionale; lo dicono i clienti, che informano altri cittadini che si rivolgono a loro per sapere come si sono trovati con un certo professionista; lo dicono altri professionisti che operano in ambiti affini o nello stesso ambito ma su altri territori, che, per fare una buona figura con i propri clienti, li indirizzano verso i colleghi che ritengono migliori. Insomma, anche se tutte queste persone / organizzazioni sono pagate per la prestazione e non a seguito di una valutazione terza dell’impatto prodotto, tutti sono sottoposti a valutazione e si consolidano nel corso del tempo una reputazione positiva o negativa.
I Social Impact Bond e gli schemi payment by results anziché essere strumenti per innovare e migliorare il welfare redendolo più appropriato alle esigenze della società rischiano di essere dei cavalli di Troia per accelerare il processo di standardizzazione, mercatizzazione e finanziarizzazione del welfare (Bernardoni, 2017), in particolar modo del welfare sociale e sanitario.
Un recente studio (Fraser et al., 2018) in cui viene effettuata una review della letteratura in materia di Social Impact Bond analizzando sia le pubblicazioni scientifiche (38) che le pubblicazioni “grigie” dei principali think-thank che si sono occupati del tema (63) raccomanda cautela nell’utilizzo di questi strumenti che possono orientare gli obiettivi e l’operatività dei programmi pubblici di welfare subordinandoli agli interessi dei capitali privati. In particolar modo gli autori evidenziano le limitate evidenze a sostegno dei benefici prodotti dai SIB ed i rischi collegati all’utilizzo di tali strumenti.
È auspicabile che nel corso dei prossimi anni si intensifichino gli studi sui SIB sul PbR in modo da verificare con solide evidenze empiriche la capacità di questi strumenti di generare i benefici attesi, allo stesso modo è importante che le decisioni dei policy maker siano supportate dai dati piuttosto che sull’onda di “narrazioni esaltanti”.
Probabilmente in taluni casi un utilizzo bilanciato del PbR può essere utile (anche se è un caso di PbR non canonico, la fiscalizzazione degli oneri sociali delle cooperative di inserimento lavorativo si è rivelato sicuramente un meccanismo con esiti apprezzabili), ma le eventuali sperimentazioni in questo senso vanno introdotte con la piena consapevolezza delle criticità e dei limiti di questo strumento, cosa che spesso i sostenitori del PbR ritengono di non dover fare, nella convinzione che la supposta dirompente novità dello strumento autorizzi a proporne la sperimentazione senza ulteriori valutazioni.
Per quanto riguarda le imprese sociali sarà importante studiare in che modo, ed a quali condizioni, queste organizzazioni potranno utilizzare la finanza (anche quella a impatto sociale) restando autonome ed indipendenti, mantenendo un profilo identitario orientalo all’inclusione ed alla giustizia sociale.
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