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ISSN 2282-1694
Tempo di lettura:  3 minuti
Argomento:  Diritto
data:  06 dicembre 2021

Sul coinvolgimento di beneficiari e stakeholder nella governance delle cooperative sociali: brevi riflessioni in occasione dei trent’anni della legge 381

Antonio Fici

La 381/1991 lascia aperte due questioni, che nemmeno la Riforma è stata poi in grado di affroantare: la limitazione degli ambiti di attività, solo molto parzialmente ampliati dal d.lgs. 112/2017 e la questione della rappresentanza, solo facoltativa, di stakeholder - volontari e utenti - diversi dai soci lavoratori.


La legge 381/1991 festeggia quest’anno i suoi trent’anni, che tuttavia – a differenza di quanto vale per la coeva legge 266/1991 – potrebbero anche non essere gli ultimi. La riforma del terzo settore, infatti, non ha abrogato la legge 381/1991, ma l’ha anzi rinvigorita, da un lato riconoscendo le cooperative sociali come imprese sociali “di diritto” e dunque come soggetti del terzo settore, dall’altro riformulando l’art. 1, comma, lettera a), nel quale adesso sono espressamente ricomprese diverse attività di interesse generale di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. 112/2017.

Sui meriti della legge 381/1991 v’è poco da aggiungere rispetto a quanto già da altri sottolineato. Essi sono indiscutibili. Le cooperative sociali sono state la prima, e per molto tempo anche l’unica forma giuridica ad hoc di impresa sociale; hanno costituito un modello per numerosi legislatori stranieri (europei e non), che alla legge italiana si sono palesemente ispirati; hanno altresì profondamente influenzato il legislatore italiano, dapprima nell’introdurre la figura dell’impresa sociale nel 2006 e poi nel riformarla nel 2017.

Vi sono tuttavia due aspetti della legge 381/1991 che rimangono poco convincenti, ed alla cui soluzione, peraltro, la riforma del terzo settore del 2017 ha solo in parte fornito un contributo positivo.

Il primo riguarda la delimitazione del campo di attività delle cooperative sociali di tipo a), in particolare rispetto all’elenco più lungo delle attività esercitabili dalle altre imprese sociali, incluse quelle costituite in forma di società cooperativa (non “sociale” ex legge 381/1991). Questo disallineamento tra l’art. 1, comma 1, lettera a), della legge 381/1991, e l’art. 2, comma 1, del d.lgs. 112/2017, seppur attenuato dalla nuova formulazione del primo dopo la riforma del terzo settore, è difficilmente comprensibile, e qualora trovi la propria ragion d’essere in preoccupazioni di natura fiscale, è importante sottolineare che queste ultime potrebbero risolversi in maniera diversa.

A ben vedere, peraltro, analoga valutazione può svolgersi con riferimento al rapporto tra cooperative sociali di tipo b) ed imprese sociali di inserimento lavorativo (di cui all’art. 2, comma 4, d.lgs. 112/2017), non essendovi apparente ragione per cui le persone da inserire non debbano essere le medesime per entrambe le categorie di organizzazioni.

Il secondo – su cui intendo qui soffermarmi – riguarda il tema della governance delle cooperative sociali.

Sul punto ricordo qui un commento “a caldo” alla legge 381/1991 di un autorevole giurista, prematuramente scomparso. Da simpatizzante della materia, Disiano Preite intitolò tuttavia “Un’occasione mancata” un suo articolo pubblicato, proprio nel 1991, nella rivista Impresa sociale. Egli intendeva così sottolineare “il rammarico per la mancata occasione di creare finalmente una disciplina adeguata delle imprese produttrici di servizi alla persona nell’interesse di soggetti svantaggiati”.

Il nodo critico era proprio la governance, giudicata poco coerente rispetto ad una forma organizzativa con scopi di interesse generale (e non già mutualistici). Le legge 381/1991 ometteva infatti di rendere effettivamente partecipi i diversi portatori di interesse delle cooperative sociali, delineando per legge una governance inclusiva di beneficiari e stakeholder, o addirittura multi-stakeholder, tale da poter garantire l’effettivo ed efficace perseguimento degli obiettivi istituzionali (che sono, lo ribadisco, “di interesse generale”) di questa particolare forma giuridica d’impresa.

Nella legge 381/91, infatti, si ammette la presenza di soci volontari, ma tale presenza è solo autorizzata e non obbligatoria, essendo demandata ad una scelta di autonomia privata (art. 2, comma 1, l. 381/91), mentre il ruolo dei volontari può essere importante per il successo dell’organizzazione produttiva di beni e servizi di utilità sociale sia perché consente di mitigare i conflitti interni tra i diversi portatori di interessi sia perché offre garanzia contro eventuali comportamenti opportunistici a danno degli utenti.

Lo stesso vale con riguardo alle persone giuridiche pubbliche o private che svolgano attività di supporto alle cooperative sociali: anch’esse costituiscono una categoria sociale eventuale perché “possono” ma non già “devono” essere ammesse (art. 11, l. 381/91).

Anche la rappresentanza interna dei soggetti beneficiari nelle cooperative di tipo b) è solo eventuale, dal momento che le persone svantaggiate devono essere ammesse come socie solo ove ciò sia compatibile con il loro stato soggettivo (cfr. art. 4, comma 2, l. 381/91), non prevedendosi alcuna forma di rappresentanza dei loro interessi nel caso in cui l’incompatibilità (come spesso accade) sussista.

Le appurate carenze della legge 381/1991 sotto il profilo della partecipazione degli stakeholder permettono alle cooperative sociali di avere una governance tutta incentrata sui soci (anche se non “beneficiari”), il che, in certi casi (ancorché non in tutti), può di fatto mettere a rischio la mission di interesse generale che l’art. 1, comma 1, della legge istitutiva loro assegna. La cooperativa sociale potrebbe così finire col comportarsi come un’ordinaria cooperativa di lavoro il cui (legittimo) obiettivo (mutualistico) sia massimizzare il benessere dei soci lavoratori.

La riforma del terzo settore, come già anticipato, non risolve il problema.

Le cooperative sociali, infatti, sono considerate imprese sociali di diritto, sicché, a rigore, esse non sono tenute al rispetto dei diversi oneri organizzativi previsti dal d.lgs. 112/2017. Per di più, a fugare ogni dubbio, l’art. 11, comma 5, d.lgs. 112/2017, stabilisce che l’art. 11 sul coinvolgimento degli stakeholder nella governance delle imprese sociali, “non si applica alle imprese sociali costituite nella forma di società cooperativa a mutualità prevalente”, e dunque anche alle cooperative sociali, che, com’è noto, sono tali ex lege (art. 111-septies, disp. att. e trans. c.c.).

In assenza di norme imperative di legge, la realizzazione di un modello di governance capace di coniugare gli interessi (legittimi) dei soci con quelli (parimenti legittimi) dei beneficiari delle cooperative sociali e dei suoi altri stakeholder non soci, coerentemente alle finalità di interesse generale perseguite, rimane dunque affidata a scelte di autonomia statutaria.

Da questo punto di vista, l’unico precetto che sembra emergere è quello relativo all’obbligo di redazione (secondo le linee guida ministeriali) del bilancio sociale di cui all’art. 9, comma 2, d.lgs. 112/2017, che parrebbe gravare anche sulle cooperative sociali quali imprese sociali di diritto, sebbene non contemplato nella legge 381/1991. Su questa tesi nutro personalmente forti dubbi, ma essa è sostenuta e difesa sia dalle centrali cooperative sia dal Ministero del lavoro, ed in fondo realizza un effetto capace di controbilanciare le carenze che la legge 381/1991 ha sotto il profilo della governance. Il risultato è dunque positivo, nonostante ad esso si giunga per vie traverse, estendendo alle cooperative sociali una disposizione del d.lgs. 112/2017, piuttosto che modificando la legge 381/1991, come ben si sarebbe potuto fare in sede di riforma del terzo settore, sia al fine specifico di introdurre l’obbligo del bilancio sociale per le cooperative sociali sia al fine più generale di disciplinare la loro governance in modo più incisivo, e coerente con le loro finalità.

Rivista-impresa-sociale-Antonio Fici Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” - Terzjus

Antonio Fici

Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” - Terzjus

Professore Associato di Diritto privato nell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Direttore scientifico di Terzjus. Componente del Comitato scientifico sul terzo settore di Cattolica Assicurazioni.

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