Casal di Principe luogo di camorra e "i Casalesi" che evocano un clan malavitoso e non gli abitanti. Ma qualcosa è già cambiato, grazie anche alle pratiche di riuso dei beni confiscati, per costruire un modello basato sulla solidarietà e sullo sviluppo grazie alla rete di economia sociale del territorio.
Nell’immaginario collettivo pochi luoghi di questo nostro amato Paese sono considerati così male come Casal di Principe, in provincia di Caserta: è ritenuto ancora oggi luogo di camorra per eccellenza. Sarà il clamore di Gomorra, la risonanza che hanno avuto arresti e processi o, semplicemente, il fatto che “casalesi”, anche per colpa di attori della comunicazione spregiudicati e superficiali, ha finito per indicare un clan e non i cittadini di un piccolo centro del casertano. Eppure, da un po’ di anni quel territorio è attraversato da fermenti di riscatto importanti che solo la tendenza a guardare sempre con pessimismo e negatività anche le esperienze positive e, talvolta, eroiche che maturano laddove non te le aspetti, non rende altrettanto famosi come le gesta criminali di quei malviventi che sono ormai da tanti anni in ritirata. Bene, allora, ha fatto il CSV di Caserta a dare conto in un Rapporto (Beni liberati. Buone pratiche di riuso dei beni confiscati nel Comune di Casal di Principe) dello stato dell’arte oggi nell’applicazione di quella bella legge che rende possibile il riuso a fini sociali dei beni sottratti alle mafie.
Il Rapporto contiene alcune considerazioni generali, suffragate da dati e informazioni quantitative, che confermano quanto e come su questo fronte lo Stato potrebbe fare meglio e di più, attrezzandosi (vedi le proposte che in questi anni la Fondazione con il Sud ha lanciato, spesso inascoltata) a gestire in modo meno estemporaneo beni immobili, quando non imprese potenzialmente profittevoli, che potrebbero davvero essere un volano di sviluppo per territori che hanno vissuto tempi difficili a causa di una capillare diffusione di fenomeni di criminalità che intacca(vano) cultura locale e comportamenti sociali. Un solo dato: meno del 50% dei beni confiscati è oggi utilizzato nonostante l’impegno di tanti e dello stesso Comune con il suo Sindaco Renato Natale. Anche sul fronte di chi riutilizza oggi i beni, va sottolineato che poco meno del 50% di essi sono gestiti da realtà del terzo settore che con grande fatica e, spesso, con aiuti limitati, realizzano comunque importanti progetti sociali offrendo servizi, anche innovativi, in aree dove di questi servizi c’è bisogno. Anche le sperimentazioni nel campo dell’agricoltura sociale meritano di essere ricordate per il tentativo di confrontarsi con il mercato e con le novità di produzioni etiche e attente all’ambiente.
Vi è poi il capitolo dedicato alle “buone pratiche di riuso sociale” dove, attraverso le sintetiche ed efficaci schede riferite alle singole iniziative, si racconta di un Terzo settore impegnato a far crescere nella Comunità di Casal di Principe i valori della solidarietà, non dimenticando, però, l’importanza di dar vita ad iniziative economiche e produttive che mettano in moto i fermenti positivi di un popolo, il popolo di Don Peppe Diana, che vuole insegnare al Paese, anche dopo la pandemia, che ripartire si può e si deve. Vengono riportate le esperienze di “La forza del silenzio”, “Casa Lorena e il Punto luce”, “La Nuova Cucina Organizzata”, “Il centro di agricoltura sociale”, la cioccolateria “Dulcis in fundo”, “Casa don Diana”, “La sede della Croce Rossa Italiana”. Emerge chiara la varietà di esperienze che sono nate a Casal di Principe sui beni sottratti alla criminalità e al malaffare.
Al tentativo di ricostruire il “modello Casal di Principe” è dedicato il IV capitolo. Rete dell’economia sociale, utilizzazione di strumenti innovativi di partenariato pubblico-privato (per es. budget di salute), ricerca delle risorse idiosincratiche del territorio, sono i punti di forza di questo modello che speriamo venga presto conosciuto dagli italiani di più e meglio e scalzi definitivamente l’idea di un territorio e una comunità vocate al malaffare.
E io, nel rileggere queste poche righe, penso al verso di una canzone di De Gregori “la storia siamo noi” e così mi vengono in mente le tante persone e i tanti volti che in questi anni ho incontrato sui beni confiscati e che hanno reso possibile il miracolo di cui si racconta nel Rapporto, penso al Festival “dell’impegno civile”, rivedo l’entusiasmo e la voglia di esserci di tanti, di esserci nonostante le difficoltà di un luogo del Sud di Italia dove assenza di lavoro, servizi inefficienti e tante altre difficoltà rendono tutto faticosissimo. E tra questi volti e persone non può non venirmi in mente il ricordo di una persona a cui si deve molto: Valerio Taglione. La serietà e l’impegno appassionato di Valerio (che io ho conosciuto soprattutto come motore del Comitato Don Peppe Diana) che poco più di un anno fa ci ha lasciato, hanno avuto un ruolo importante nella storia che il CSV di Caserta racconta: troppo presto è stato portato via alla sua famiglia e ad un territorio che avevano ancora tanto bisogno di lui, ma che sapranno onorare la sua memoria e portare avanti i suoi progetti.
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