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ISSN 2282-1694
Tempo di lettura:  5 minuti
Argomento:  Impresa sociale
data:  08 gennaio 2021

Coprogettazione: dal cofinanziamento alla corresponsabilità

Gianfranco Marocchi

Nelle coprogettazioni e non solo è spesso richiesto il "cofinanziamento". Si propone un superamento di questo concetto, inadeguato a inquadrare l'apporto di una impresa sociale, a vantaggio di quello di corresponsabilità. Ad una impresa sociale va chiesto di contribuire investendo su un progetto comune.


Il teatro del cofinanziamento

Cofinanziamento: lo chiedono agli enti di Terzo settore molti avvisi di coprogettazione e talvolta anche i bandi di gara per la gestione di servizi: il fatto che un Ente di Terzo settore contribuisca “con risorse proprie” alla realizzazione di un intervento di interesse generale sembra da una parte rimarcare l’alterità del soggetto di Terzo settore rispetto agli enti di mercato, dall’altra l’accuratezza dell’Amministrazione nel perseguire l’interesse pubblico, giacché riesce ad individuare soggetti privati disponibili a contribuire al finanziamento dei servizi. Ma forse varrebbe la pena di interrogarsi un po’ più a fondo su natura e significato del cofinanziamento e verificare a che condizioni rivesta effettivamente le valenze che gli vengono attribuite.

Vale la pena, anche perché in molti casi si denomina “cofinanziamento” un tacito patto tra un ente pubblico che chiede quello che non dovrebbe chiedere e un terzo settore che lo asseconda con risposte di circostanza: quote di buste paga di coordinatori, contabili, segretarie comandati all’occasione per un certo numero di ore come incaricati del progetto finanziato al fine di poter soddisfare la richiesta impropria del soggetto pubblico. Il risultato effettivo in termini di risorse aggiuntive a disposizione per l’intervento in questione è nullo. Tutta carta, tutto teatro finalizzato alla rendicontazione, tutte, in realtà, risorse sottratte (quelle per soddisfare il teatro amministrativo, appunto) all’intervento vero e proprio. O, in altri casi, il “cofinanziamento”, magari espresso in “servizi aggiuntivi” è reale, ma diventa un equivalente implicito del ribasso di prezzo, reintroducendo con un manto di apparente nobiltà pratiche che vorremmo non dover più vedere, ma a cui l’impresa sociale deve adattarsi se non vuole uscire dal mercato.

Quando la richiesta dell’ente pubblico diventa impropria? Lo diventa quando chiede una moneta diversa da quella che il partner possiede, quando lo spinge a simulare un atto che chiaramente non è nella sua natura per adempiere ad una condizione necessaria per partecipare ad un intervento nelle modalità che gli sono invece consone. Insomma, quando si dice, nella realtà “se vuoi partecipare a questo progetto, devi anche simulare una cosa che non farai, che mi potrai giustificare in modo poco credibile e che io comunque accetterò”.

La corresponsabilità

La corresponsabilità è un concetto diverso, coerente con il riconoscimento del ruolo del Terzo settore nel contribuire alla realizzazione dell’interesse generale e con il conseguente assetto collaborativo dei rapporti con la pubblica amministrazione: un rapporto tra pari, che si riconoscono reciprocamente, volendo entrambi realizzare un determinato obiettivo e che condividono la strada per realizzare tale intento comune.

Si tratta di un presupposto chiaramente diverso rispetto a quello conseguente ad una tradizionale visione in cui l’ente pubblico è unico depositario dell’interesse generale e il Terzo settore viene coinvolto strumentalmente, come fornitore individuato tramite un processo competitivo, per mettere in atto specifiche porzioni del disegno delineato dall’amministrazione.

Facciamo un esempio. Se in un territorio vi sono mille anziani che necessitano di interventi e vi sono risorse solo per ottocento, nell’ambito di un rapporto cliente - fornitore il problema è tutto dell’ente pubblico. Il fornitore (privato o di Terzo settore) non può che prendere atto di essere pagato per intervenire su ottocento destinatari e farlo nel modo migliore possibile, i bisogni insoddisfatti degli altri duecento riguardano l’ente pubblico, è un suo problema. Se ci collochiamo invece entro un contesto autenticamente sussidiario, se ci si riconosce come soggetti alleati per una finalità comune e di conseguenza si condividono poteri e responsabilità, è un problema di tutti. Tutti sono in qualche modo chiamati a ragionare su come soddisfare l’insieme dei bisogni di quel territorio, tutti ne sono corresponsabili.

Questo può in primo luogo portare a riorganizzazioni complessive del servizio che portano a rafforzare la capacità di presa in carico, ma, in ogni caso, ciò non esclude che ci si possa trovare nella situazione in cui per rispondere ai bisogni individuati, sia necessario reperire risorse aggiuntive che i partner sono quindi chiamati insieme a tentare di individuare.

Certo, bisogna essere consapevoli che questo commitment non fa sorgere come per incanto risorse che non esistono. Ci si può sentire corresponsabili nel tentare di rispondere ad un bisogno e non riuscire comunque a farlo. Ma ciò non toglie che l’assetto collaborativo, nel comportare un impegno comune e di ciascuno, sia radicalmente diverso rispetto alla tradizionale impostazione basata sulla competizione.

Fare la propria parte

“Fare la propria parte” per individuare risorse aggiuntive significa mettere a frutto la propria specifica vocazione – diversa per una cooperativa sociale, un’organizzazione di volontariato, un’associazione di promozione sociale, una fondazione e via dicendo – e il modo di operare che caratterizza il proprio ente per la realizzazione del progetto condiviso.

Questa affermazione non è priva di implicazioni rilevanti. “Per la realizzazione del progetto condiviso” rimanda senza dubbio ad un’ottica di coprogettazione, in cui si è effettivamente lavorato in modo paritario. Non si sta parlando di una sorta di “sconto” accordato da un fornitore terzo al proprio cliente, ma dell’esito di un processo collaborativo per conseguire un risultato che tutti vorrebbero realizzare.

Il riferimento alla vocazione di ciascun soggetto riguarda invece le forme con cui si collabora a tale esito. Se tutti contribuiscono alla progettazione con la propria intelligenza, competenza e sensibilità, vi possono poi essere forme specifiche che caratterizzano l’apporto operativo di ciascun soggetto.

Una organizzazione di volontariato potrà contribuire con disponibilità volontarie di propri associati, una fondazione con risorse economiche aggiuntive, un’associazione di promozione sociale con un’attività di sensibilizzazione e animazione, un ente pubblico o di Terzo settore che dispone di un immobile offrendolo per le attività progettuali, e così via, sempre ovviamente considerando queste azioni come tra loro integrate, frutto di un pensiero comune; e un’impresa sociale, in specifico, cosa può fare?

Ha senso chiedere all’impresa sociale di realizzare una parte di prestazioni in forma di gratuità o di far lavorare senza costi una parte dei propri soci lavoratori (come nel caso evocato in apertura delle buste paga di personale comandato all’attività di progetto) senza chiedere corrispettivi? La risposta, in generale, è negativa. Certo, possono esserci casi di cooperative sociali con una significativa quota di soci volontari e che possono pertanto gestire a titolo gratuito o con costi minimi taluni interventi, ma si tratta di una sorta di (apprezzabile) coincidenza, non il modo ordinario dell’impresa di contribuire al bene comune. Perché mai, in sostanza, ci si dovrebbe attendere che un’impresa sociale “doni” risorse ad un progetto? Cosa ha a che fare questa aspettativa con la sua natura? Nulla!

Ma questo non significa che in una coprogettazione l’impresa sociale si limiti a prestare i propri servizi ricevendo un pagamento, pur se non meramente a rimborso delle spese sostenute. Per dirla in modo semplice: ad un’impresa va chiesto di fare l’impresa. Di affrontare, assumendo un rischio di impresa, lo sforzo per recuperare risorse aggiuntive, mettendo a disposizione del progetto comune quanto di meglio può fare secondo la sua natura e vocazione: investire.

Facciamo alcuni esempi: il fatto di mettere a disposizione la propria struttura di progettazione, generalmente più solida rispetto a quella di una piccola associazione, per reperire risorse aggiuntive su un bando comunitario o di un ente filantropico, configurando ciò non come azione autonoma, ma in coerenza con una progettualità frutto del lavoro comune e destinando le risorse reperite oltre che alla copertura dei propri costi, alle azioni definite nel gruppo di lavoro. Oppure, nella stessa logica, investire in un’attività di impresa, ad esempio un’attività di ristorazione entro un parco o un immobile recuperato, così da favorire la sostenibilità generale del progetto. In sostanza la struttura imprenditoriale – che deve la sua solidità, ricordiamolo, anche al patrimonio intergenerazionale delle riserve cioè dal valore aggiunto non fruito dai soci come ricchezza personale, ma trasformato in risorsa non più appropriabile da nessun singolo individuo – è messa a servizio di obiettivi comuni.

È la stessa cosa che un’impresa sociale farebbe ordinariamente? Assolutamente no. L’impresa sociale potrebbe, al di fuori di un procedimento collaborativo, governare autonomamente le proprie strategie e l’uso delle proprie risorse, fatti salvi i vincoli connaturati all’essere impresa sociale; negli esempi sopra citati, le strategie di investimento, gli indirizzi di gestione e la definizione dei partenariati sono invece frutto di un lavoro comune e la destinazione delle eventuali risorse eccedenti è integrata all’interno del progetto.

In conclusione

Le concrete esperienze di coprogettazione mettono in luce come le risorse mobilitate per gli interventi sociali siano assai superiori a quelle messe a disposizione dell’amministrazione procedente e questo è uno dei motivi per cui l’opzione collaborativa è degna di considerazione. La scelta di conferire risorse ad un progetto frutto di uno sforzo collaborativo non deve però assumere le caratteristiche di una sorta di scelta obbligata, da adempiere nel modo più indolore possibile, per poter accedere ad una commessa di lavoro, ma derivare da un’autentica condivisione del ruolo di ciascuno in un disegno condiviso. La scelta, pertanto, di mettere a servizio le proprie capacità di impresa non è vista come limitazione della propria autonomia, ma come strada per realizzare nel modo migliore ciò che anche la stessa impresa sociale desidera, potendo tra l’altro avvalersi di un supporto esteso da parte degli altri soggetti che compongono il tavolo.

Certo questo richiede a tutti di abbandonare una concezione formale del cofinanziamento e di scegliere di condividere le responsabilità (e i poteri), accordandosi fiducia reciproca e considerando gli altri partecipanti al tavolo come risorse. Ma, anche se ciò richiede un po’ di flessibilità in più agli apparati amministrativi, non vi sono dubbi che si realizzi un maggior beneficio per il proprio territorio quando un’impresa sociale riesce a reperire qualche centinaio di migliaia di euro per il progetto condiviso piuttosto che quando consegna una busta paga del proprio addetto alla contabilità.

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Gianfranco Marocchi

Impresa Sociale

Nel gruppo di direzione di Impresa sociale, è anche vicedirettore di Welforum.it. Cooperatore sociale e ricercatore, si occupa di welfare, impresa sociale, collaborazione tra enti pubblici e Terzo settore.

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