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Fondata da CGM / Edita e realizzata da Iris Network
ISSN 2282-1694
Tempo di lettura:  5 minuti
Argomento:  Impresa sociale
data:  15 giugno 2024

Il lavoro sociale, tra fatiche opportunità

Georges Tabacchi

Come si lavora n servizi burocratizzati, definanziati, evoluti in logica riparativa ed emergenziale, spezzettati e trasformati in prestazioni, in cui il cittadino diventa controparte e non coprotagonista del proprio cambiamento? E, per giunta, malpagato. Dalla comprensione della crisi, la direzione verso cui ripartire.


La voce del sociale di oggi è la voce di chi oggi lavora nei servizi, che si racconta agli amici, ai parenti, che racconta le fragilità e le incoerenze dei nostri mondi. È chiaro che meno gli operatori sono curati e valorizzati nei loro percorsi professionali, accompagnati al lavoro dalle varie organizzazioni e meno saranno capaci di esprimere una narrazione del sociale costruttiva, evolutiva e attraente. Quindi la domanda è “cosa dicono oggi gli operatori del lavoro nel sociale”?

Dalla trasformazione sociale all’erogazione di prestazioni

Partiamo dagli elementi del lavoro sociale che si sono sostanzialmente modificati e stanno influenzando negativamente la voglia di approdare alle nostre professioni. C’è un cambio di cultura nell’operatore sociale. Negli anni Ottanta, quando molti degli attuali operatori sociali oggi alle soglie della pensione hanno iniziato a lavorare, vi era la sensazione di lavorare in un ambito di grandi trasformazioni: si attuava la deistituzionalizzazione dei servizi intrapresa a partire dal decennio precedente, si scopriva che gli interventi potevano essere personalizzati, la cooperazione sociale cresceva in modo sostenuto, venivano inventati nuovi servizi.

Non vi è bisogno di argomentare più di tanto quanto sia difficile che un operatore sociale oggi avverta le stesse sensazioni di trovarsi protagonista di una stagione di cambiamento. I servizi, burocratizzati e definanziati, sono spesso evoluti in logica riparativa ed emergenziale, i lavoratori sono retrocessi da protagonisti all’anonimo ruolo di ingranaggi in una macchina di cui difficilmente possono contribuire a definire la direzione. Possono accendersi talvolta delle luci mediatiche positive, come nel caso degli infermieri divenuti eroi in epoca di Covid o per altre temporanee enfasi comunicative su storie vendibili ai media, ma si tratta di fenomeni di breve durata, dopo i quali si ritorna nell’invisibilità o, peggio, ad essere coinvolti in polemiche politiche che svalutano e denigrano apertamente il lavoro sociale, come nel caso dei servizi rivolti a migranti.

Se si passa a considerare le condizioni di lavoro, vi sono situazioni diverse. Vi sono casi di servizi di imprese sociali ben strutturate dal punto di vista organizzativo, che lavorano su grandi numeri e che conseguono margini di redditività significativi; e questo consente anche di corrispondere ai lavoratori remunerazioni un po’ più adeguate rispetto alla media degli stipendi in ambito sociale, e questo è indubbiamente avvertito come un vantaggio immediato dall’operatore. D’altra parte, si tratta di situazioni lavorative spesso caratterizzate da impoverimento professionale e poca consapevolezza del proprio ruolo sociale, che alla lunga abbattono l’autostima di chi lavora e generano frustrazione nel momento che i servizi in cui operano tendono a diventare resistenti al cambiamento e a rendere passivo l’utente. In una concezione sempre più burocratizzata, l’utente perde l’identità – perde il suo nome e cognome, la sua storia – diventa oggetto dell’erogazione di una prestazione da fatturare al committente. E questo trasforma a propria volta il cittadino in una sorta di “controparte” che richiede (o pretende) una prestazione: si è adattato, non si rivolge all’operatore per essere sostenuto in un progetto trasformativo, ma per esigere una prestazione assistenziale, che è richiesta all’operatore anche quando questi ha ben chiaro come essa in ultima analisi confermi lo stato assistito e passivo del cittadino che la richiede. A ciò possono aggiungersi altre complessità, ad esempio la provenienza etnico culturale dell’utente straniero, che si rivolge all’operatore a partire da codici valoriali e comportamentali differenti; e in un contesto fortemente orientato alla produzione, con tempi e prestazioni definite, è difficile far sì che questa differenza si trasformi in risorsa e contaminazione arricchente, mentre facilmente alimenta ulteriori incomprensioni. Si tratta di fenomeni recenti, su cui la riflessione culturale è ancora tutta da sviluppare; e non pare esserci il tempo e la lucidità per farlo.

Tra prossimità, necessità di fare sistema e parcellizzazione dei servizi

E dire che, a ben vedere, il lavoro sociale oggi richiederebbe proprio una dose aggiuntiva di consapevolezza e lucidità per affrontare cambiamenti per nulla banali.

Una parte del lavoro sociale oggi è volto a ricreare prossimità. L’operatore sociale in una periferia urbana degli anni Ottanta aveva a che fare con famiglie numerose, dove quattro o cinque figli condividevano luoghi talvolta angusti e dove in generale la vita si svolgeva – anche quando dal proprio alloggio si scendeva in strada – in un contesto di naturale socialità e relazionalità, con tutti gli aspetti positivi e problematici che l’operatore ben ricorda.

Oggi, invece, spesso gli utenti sono in una condizione di isolamento, sono come figli unici alla ricerca del proprio fratello; talvolta aspirano alla relazione, ma fanno i conti con le scarse competenze relazionali e sociali acquisite in famiglia o a scuola.

In questa situazione, a chi fa lavoro sociale è richiesto di lavorare per ricreare legami di prossimità, di essere in grado di operare nel creare e gestire gruppi oltre che di lavorare con un singolo individuo. Questo richiede agli operatori una disponibilità a cambiare i propri modi di affrontare le questioni in una logica individuale. Questo cambiamento di approccio è lento e va allenato di continuo, spesso richiede un lavoro a più mani, la necessità di superare il personalismo e di reinterpretare il proprio protagonismo nella costruzione di reti piuttosto che nella sola relazione con il singolo utente. In parte ciò toglie la spinta salvifica in chi nel lavoro sociale cercava il bisogno di sentirsi importante, determinante. Sempre di più l’approccio necessario per venire incontro alla necessità delle persone richiede un lavoro concertato tra più attori portatori di punti di vista e di competenze diverse. E tutto ciò, paradossalmente, avviene in un contesto organizzativo caratterizzato da una sempre maggiore parcellizzazione dei servizi e in cui quindi acquisire la consapevolezza e la capacità di fare sistema richiede tempo e dedizione.

Tutto ciò traccia un ambito in cui le professioni sociali potrebbero svilupparsi, innovare, trovare nuovi stimoli; cosa che talvolta avviene, anche se in molti altri casi, invece, i ritmi serrati e i mandati prestazionali non offrono lo spazio per farlo.

Pochi strumenti, molta pressione

La pressione ad affrontare e risolvere i problemi è notevole. L’operatore – immaginiamo un assistente sociale o l’operatore di un qualche sportello di una delle nostre città - si trova spesso di fronte ad una pluralità di istanze – espresse e inespresse – oggettivamente complesse, si trova di fronte a persone e famiglie che chiedono la casa, il lavoro, il soddisfacimento di bisogni primari come il cibo o le cure mediche: diritti fondamentali, che se non sono soddisfatti fanno percepire l’intervento come parziale e poco significativo, ma che al tempo stesso risultano spesso un miraggio di difficile attuazione. L’operatore avverte chiaramente di avere attrezzi limitati con cui dovrebbe avventurarsi in una “missione impossibile”. Talvolta fugge, cerca sicurezze, si protegge dentro gli uffici, in contesti in cui si sente meno esposto rispetto ai suoi utenti, sente il disagio della relazione.

Al tempo stesso, si fa sempre più forte una domanda sociale di interventi risolutivi. Le domande su cui ci si sente valutati fanno riferimento ai risultati, quanti utenti si sono salvati, quanti hanno cambiato vita, quanti hanno superato i loro problemi, con l’implicito assunto che se tutto ciò non avviene il lavoro sociale è da considerarsi inutile. L’idea che il lavoro sociale possa costruire percorsi, opportunità da cogliere oggi o magari in un futuro nemmeno troppo vicino appare troppo indeterminata. Il fatto che si lavori su atteggiamenti, valori e consapevolezza di un ragazzo o una famiglia, che si offrano elementi di crescita che potranno essere utilizzati quando saranno maturati a sufficienza (anche con la possibilità che ciò non avvenga mai), rischia di definire uno statuto troppo debole per il lavoro sociale, una sorta di patente di inutilità che lo delegittima. Se il lavoro sociale non risolve, se non cambia la situazione delle persone in un tempo dato, allora è, ben che vada, relegato in quell’orizzonte di azioni opzionali e accessorie da svolgere se e quando vi è tempo per farlo. Il definire obiettivi di cambiamento a medio termine, l’essere a supporto della persona per come è, con i limiti che oggi ha, appare avere uno statuto troppo debole tanto nei confronti dei committenti – pubblici o filantropici –, quanto nella considerazione della comunità scientifica e dei media (generalisti e di settore), che chiedono risultati tangibili e non percorsi.

Questa tensione tra obiettivi oggettivamente difficili da perseguire nel contesto dato e pressione culturale al risultato immediato produce nell’operatore, oltre ad una buona dose di frustrazione, una domanda persistente. Anche solo limitandosi ai cambiamenti delle persone – e tralasciando i diritti negati nell’attuale sistema di welfare – è ricorrente nell’operatore la domanda su “come si fa?”: come si fa, si chiede, come ci si rapporta con situazioni critiche, come si interviene su comportamenti dannosi, abitudini radicate, convinzioni e sistemi valoriali non adeguati. Su come gestire questa tensione emerge un bisogno formativo significativo, si tratta di lavorare sia sugli strumenti, sia su come gestire i propri vissuti; c’è bisogno di supervisione, di accompagnamento e crescita professionale. Il lavoro sociale richiederebbe manutenzione costante della forza lavoro, cosa non sempre agevole sia per motivi di tempo, sia per la pressione al contenimento dei costi, quasi che le risorse impiegate per scopi diversi dall’ora lavoro diretta con i destinatari rappresentino una spesa inutile e improduttiva.

Di fronte alla disumanizzazione

Uno degli aspetti più evidenti dell’evoluzione del lavoro sociale negli ultimi anni è rappresentata da un aumento esponenziale dell’attività burocratica e rendicontativa. Moduli online e cartacei, flag da crocettare, dati, relazioni, misurazioni. Contemporaneamente c’è meno tempo per fare e ancora meno per pensare. Questo assetto origina servizi erogatori di prestazioni, che difficilmente sono in grado di generare innovazione o semplicemente di individuare bisogni e immaginare risposte. La contrapposizione tra un approccio “storico” dell’operatore sociale prevalentemente relazionale di contatto e un approccio che si considera efficientistico perché inquadrabile in parametri misurabili è tra gli elementi che creano disaffezione verso il lavoro. Come dichiarava un’assistente sociale in sede di supervisione, “Alcune assistenti sociali, in base al carico di lavoro, non hanno il tempo materiale per incontrare le persone. Capita che dei minorenni siano inviati in comunità senza avere incontrato la loro Assistente sociale. Il tempo della relazione, che sappiamo quanto sia determinante, viene a meno.”

Spesso la ricerca di efficienza spinge ad organizzare i servizi nell’ottica dell’ottimizzazione dei tempi e metodi di lavoro, poi recepiti e cristallizzate in sede di accreditamento. Il caso paradigmatico è quello dei minutaggi nelle residenze per anziani, dove il lavoro sociale è scomposto in prestazioni elementari – lavare, accompagnare a tavola, ecc. - cui è assegnato un tempo dato in minuti, da cui si compone, sulla base del numero di utenti cui applicare tali azioni, la consistenza dell’organico. Da queste organizzazioni scompare non solo il tempo, ma l’idea stessa dello spazio mentale per la relazione, per rilevare e ragionare sugli elementi evolutivi e involutivi della persona. Abituarci alle soluzioni e ai loro esiti e non ai percorsi riduce la complessità esistente e atrofizza la progettualità; tutto ciò costituisce la peggior pubblicità possibile al lavoro sociale.

Un lavoro disarticolato

Il potere d’acquisto degli operatori si è eroso negli anni; sino al recente aumento, i contratti collettivi di categoria erano rimasti a lungo fermi, mentre le gare al ribasso non hanno fatto altro che svalorizzare il lavoro, riducendo il personale al minimo necessario per svolgere quasi esclusivamente le incombenze prestazionali più urgenti. Paradossalmente, questo si verifica nel momento in cui gli accreditamenti richiedono sempre di più figure professionali laureate ad alta specializzazione, prevedendo al tempo stesso risorse che generano remunerazioni non adeguate. Difficile pensare ad un altro settore di attività con queste contraddizioni!

La ricerca di ottimizzazione necessaria alla sostenibilità economica in tali condizioni produce soluzioni organizzative discutibili. Lavoro frammentato, magari con orari spezzati tra un servizio e l’altro, lavoratore spalmato su più servizi anche differenti tra di loro, con la duplice conseguenza di non maturare competenze professionali specifiche e di non sentirsi a pieno titolo parte di un’equipe, di un servizio, di una cooperativa.  La professionalità dell’operatore si impoverisce, ma si fa fatica a trovare, da parte delle cooperative, le parole giuste per argomentare gli effetti distruttivi della competitività estremizzata.

Al tempo stesso si sviluppa una concezione del lavoro sociale depauperato di contenuti professionali, diventa una occupazione che chiunque, con un po’ di buona volontà e altruismo, può svolgere; l’operatore è concepito talvolta in temini custodialistici – un badante, un baby-sitter – talvolta in termini agiografici ed edificanti – il volontario e il missionario – mentre sfuma la consapevolezza del lavoro sociale con azione professionale e qualificata volta al cambiamento sociale. In una logica prestazionale e competitiva, il lavoro sociale è sempre più visto come residuale.

Dove sono finiti i maestri?

In tale situazione, viene da chiedersi, dove sono finiti maestri? Che ruolo hanno, cosa dicono le scuole, i luoghi di pensiero, le aggregazioni di imprese sociali? Sicuramente si è assistito in questi decenni ad un orientamento teso a superare la concezione “romantica” del lavoro sociale per una professionale; alla fine ci ritroviamo con un lavoro sociale spogliato degli elementi trasformativi e privato anche del riconoscimento professionale.

Intorno al lavoro sociale, chi produce cultura è stato in grado di produrre parole d’ordine condivise - accoglienza, inclusione, mediazione, solidarietà – che se però non vengono calate in pratiche professionali rimangono slogan incapaci di produrre una base solida sul quale poggiare senso, identità e concretezza del lavoro sociale.

Se è vero che si matura l’interesse per una carriera professionale già in giovane età anche in base agli stimoli ricevuti, ci dobbiamo chiedere quali sono le istituzioni ad oggi che riescono a stare vicini alle nuove generazioni e ad aiutarle a costruirsi delle basi solide sulle quali alimentare la sensibilità che porta all’impegno professionale nel sociale. Quali organizzazioni nazionali sentono su di sé il ruolo di formare nuove generazioni attente a considerare nel proprio futuro la possibilità di sperimentarsi nel lavoro sociale? Quante sentono come parte integrante della propria mission - e poi effettivamente praticano – questa responsabilità educativa?

Alla ricerca di soluzioni

Accanto a tutte queste complessità, vi sono al tempo stesso potenzialità da cui provare a ripartire. La nuova enfasi su coprogrammazione e coprogettazione, pur con tutte le fatiche che talune applicazioni di tali strumenti comportano, apre spazi inediti per costruire un lavoro sociale capace di andare oltre l’emergenza.

Sia nel caso, auspicato, di diffusione di questi strumenti, sia più in generale nelle relazioni con i committenti, è ora di rivedere i criteri di allocazione delle risorse, contrastando le spinte al ribasso e assumendo la necessità comune di un progressivo adeguamento delle retribuzioni.

Va acquisita consapevolezza circa la necessità di sviluppare servizi con valenza trasformativa e capace di evolversi in relazione con il contesto e pertanto su figure professionali, in parte nuove, capaci di attivare i territori per renderli luoghi inclusivi.

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Georges Tabacchi

Consorzio Sociale Abele Lavoro

Torinese, già presidente del Consorzio Sociale Abele Lavoro e co-direttore della Biennale della prossimità, opera come supervisore di numerose equipes di operatori sociali in varie parti del Paese.

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