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Fondata da CGM / Edita e realizzata da Iris Network
ISSN 2282-1694
Tempo di lettura:  4 minuti
Argomento:  Interviste
data:  17 marzo 2023

Lavorare sulle relazioni per liberare la creatività

Andrea Tittarelli

Non è più tempo di organizzazioni ingessate, burocratiche e gerarchiche, la sfida è quella di lavorare sulle relazioni per liberare l'intelligenza e la creatività collettive: questa l'idea centrale che emerge dall'intervista di Andrea Tittarelli a Melania Biagi, co-fondatrice di TARA Facilitazione.


Melania Bigi, 40 anni, da Castelfiorentino, architetto. Almeno, per un po’. Dopo gli studi e l’avvio della professione, comprende presto il proprio proposito: ai tramezzi e ai muri preferisce spazi di condivisione e ponti da costruire con la facilitazione. Collabora per 6 anni al progetto Comunitazione, dedicato a processi di community building e nel 2019 fonda con Ilaria Magagna TARA Facilitazione, un’impresa di consulenza che porta nelle aziende l’approccio sistemico e la psicologia orientata al processo. Si impegna così a supportare la trasformazione delle imprese in comunità, luoghi di condivisione non solo del lavoro ma anche di un obiettivo comune, unificante. Per realizzarle, spiega, è necessario aumentare la partecipazione, lo strumento più potente per affrontare le sfide che si incontrano nelle organizzazioni. Tra le fondatrici della Scuola di Arte del Processo – Process Work Italia - ha pubblicato con Martina Francesca e Deborah Rim Moiso ‘Facilitiamoci!’, edito da la Meridiana.

1) Melania, cosa c’è agli albori di uno spirito come il tuo, così appassionato al segno/disegno da una parte e alla dimensione umana/relazionale dall’altra?

Mia madre mi racconta che le mie attività preferite quando ero una bambina erano due: disegnare, stavo le ore immersa davanti ai fogli a “dirigere le altre bambine”. Adoravo inventare giochi collaborativi, insegnarli e farli con le mie compagne. Mi ricordo l’orchestra: ognuna sceglieva uno strumento (immaginario) e dovevamo arrivare a una ‘sinfonia’ armonica! Negli anni ho affinato un po’ le tecniche, diciamo che ci ho lavorato su, e ho mescolato gli ambiti. Mi appassiona buttarmi a capofitto nel design di una formazione, sempre su misura del cliente come un abito sartoriale, tanto quanto trovarmi in un gruppo e creare le condizioni perché tutti e tutte possano suonare insieme la migliore musica possibile. L’approccio di TARA è esperienziale e maieutico: quando lavoriamo con un’impresa facciamo emergere gli strumenti che il team già ha, costruiamo spazi sicuri perché generino una musica che sia bella, per loro e per chi la ascolterà.

2) Fai parte di una folta schiera di professionisti emergenti fortemente orientati alla promozione dell’intelligenza collettiva: tendenza o disciplina avvalorata da risultati concreti e ricerche scientifiche?

Di sicuro l’intelligenza collettiva sta diventando di tendenza, come i temi della felicità a lavoro, della gentilezza, dell’impatto etico delle società benefit. I fondamenti di questo approccio, però, sono solidi: sono pilastri concettuali che ritroviamo in diverse discipline, dalla biologia, alla fisica quantistica, alla botanica. Cosa accomuna le scienze naturali con quelle sociali? Qual è il fondamento delle scienze sistemiche? La capacità di molti di collaborare per un fine comune, sia esso la sopravvivenza o la ricerca di soluzioni creative. E il mondo interconnesso di oggi si configura come uno stato di alta complessità, in cui ogni azione su una variabile ha potenzialmente impatto sull’intero sistema: l’azione pensata e agita solo come “locale” non esiste più. I numeri possono aiutarci a capire meglio. Secondo una ricerca di Atlassian “Time wasting at work” almeno il 40% del tempo speso al lavoro è improduttivo e ogni mese un team perde 31 ore in riunioni inutili: di fronte all’incertezza e alla complessità esterna spesso rispondiamo con un’ipercomplicazione interna. Secondo un’indagine del Boston Consulting Group, nel corso degli ultimi 15 anni il numero delle procedure e delle strutture è cresciuto ogni anno del 6,7%. Sappiamo oggi che i sistemi complessi (dalle cellule alle organizzazioni) sono caratterizzati dal fenomeno dell’emergenza, da aspetti evolutivi che non scaturiscono dalle caratteristiche e dalla natura delle singole variabili (una proteina come una persona), ma nascono dall’interazione delle stesse. Detto in altre parole, quello che fa evolvere un sistema, ovvero rispondere nei momenti di crisi, non sono i singoli, ma le relazioni tra questi. E se provassimo quindi a cambiare strategia? Se invece che imbrigliare il team in complicati processi provassimo a liberare la sua creatività emergente? Recenti ricerche scientifiche (come quella co-condotta nel 2010 da MIT, Carnegie Mellon University e Union College) hanno confermato come l’intelligenza collettiva può produrre delle variazioni positive fino al 40% nelle performance cognitive di un gruppo. Fritjof Capra, che analizza da oltre 50 anni il concetto di sistema vivente e le sue caratteristiche, illustra con molta chiarezza che l’universo è una fitta rete di relazioni e che possiamo considerare le organizzazioni come sistemi viventi: ma è necessario ripensare la governance delle nostre imprese e i processi, che necessariamente saranno sempre più co-progettati. Alessandro Cravera, esperto di organizzazione, gestione e strategia d’impresa, nel suo libro Allenarsi alla complessità, scrive che “nella complessità è importante affiancare all’intelligenza del singolo l’intelligenza collettiva, e alla strategia deliberata in modo top-down strategie emergenti ed esplorative”.

3) Non trovi che le dinamiche dello sviluppo occidentale, per cui potremmo individuare una prima scintilla nella rivoluzione scientifica e una maturazione piena nella modernità, abbiano generato un paradossale quanto inesorabile e doloroso isolamento sociale? Come è possibile?

Purtroppo non è così paradossale, ma insito a sottolineare le fragilità del modello meccanicistico. Nel momento in cui consideriamo l’impresa come una macchina, attraverso un approccio funzionalista e razionalista, finiamo per considerare le sue parti come semplici meccanismi, pezzi di macchina, assolutamente rimpiazzabili e sostituibili. E i processi che determinano la buona riuscita della macchina infinitamente replicabili e controllabili. E come può sentirsi un bullone quando viene trattato come un pezzo rimpiazzabile in ogni momento? L’isolamento è uno dei sistemi di difesa di ogni persona ridotta a bullone, che per sopravvivere ad un sistema massimamente estrattivo, si chiude, si difende come può. La nostra sfida, come TARA Facilitazione, è riportare l’attenzione all’umanità delle organizzazioni, che consideriamo sistemi viventi, come tutte le sue parti, e l’ambiente in cui sono inserite. Possiamo prendere ispirazione dalle piante e dalla loro struttura a rete, la struttura distribuita, che risulta creativa e sostenibile: è infatti il modo in cui il mondo vegetale, che è sul pianeta da circa 450 milioni di anni, è sopravvissuto. Per dare un’idea l’homo sapiens è comparso 200.000 anni fa.

4) Tre delle tue terre ideali - miniere di punti di vista e strumenti che usi nel lavoro – sono la Sociocrazia, l’Art of Hosting e le Liberating structures, ce le racconti?

Gli strumenti che usiamo nella facilitazione sono tanti: spesso ci descriviamo entrare nell’azienda con una valigetta degli attrezzi, che usiamo a seconda dei casi. Iniziamo sempre con un momento di diagnostico, di assessment, in cui, attraverso il triangolo SCOPI-RELAZIONI-PROCESSI, andiamo a individuare quali sono i nodi che stanno bloccando l’evoluzione dell’organizzazione. Se ci rendiamo conto che il problema è nella governance, usiamo la Sociocrazia, che permette di organizzare i processi decisionali in maniera trasparente e consapevole. Quando abbiamo bisogno di far dialogare le persone, l’Art of Hosting e le Liberating Structures sono un insieme di metodi che fanno incontrare le persone intorno a domande significative e trasformative: rompiamo frontalità e verticalità e alimentiamo la partecipazione! Usiamo il corpo, lo spazio, il gioco, la musica, tantissimi post-it. Ascoltiamo il messaggio che proviene da ogni canale di comunicazione, oltre a quello verbale, per aumentare la diversità di punti di vista e arrivare a idee e decisioni più sostenibili.

5) Parlaci di un’esperienza concreta inerente alla facilitazione nell’ambito di un’Impresa Sociale.

Evitando di fare nomi, ne racconto due. L’anno scorso abbiamo facilitato l’evento di una grande impresa, con le centinaia di dipendenti che si incontravano dal vivo per la prima volta dopo il periodo pandemico. Alcuni collaboravano quotidianamente senza essersi mai visti dal vivo. Le parole chiave erano leggerezza, valori, relazione: attraverso attività costruite su misura dei valori aziendali, le persone si sono incontrate in maniera giocosa e partecipata. Lo smart working ci ha insegnato molto, ha supportato spesso una riconciliazione vita-lavoro, ma va usato con consapevolezza. In un’altra impresa, più piccola ma non meno complessa, abbiamo co-costruito il manuale sul conflitto: spesso nei lavori ad alto impatto sociale e chi crede molto nel lavoro che fa è sopraffatto dalle tensioni. Fare formazione su comunicazione e feedback e scrivere insieme procedure che aiutino nei momenti di conflitto, può essere una chiave per il benessere psicologico di chi lavora in team. 

6) Una considerazione libera sul Terzo Settore. Vola e di cosa vedi.

Credo che, così come le imprese abbiano bisogno di umanizzarsi, il terzo settore abbia bisogno di empowerment, diventare più capace di fare impresa, più organizzato, più innovativo. Questi due mondi, che spesso non dialogano, hanno bisogno di ibridarsi, profondamente. A volte paragono la vita delle imprese a quella delle persone. Quando siamo giovani abbiamo forte l’esigenza di distinguerci e di diventare con convinzione una cosa sola. Le organizzazioni fanno lo stesso: crescono e consolidano alcuni tratti dominanti. Nel tempo però abbiamo bisogno di accogliere quello cui abbiamo rinunciato perché ci completa, ci permette di maturare. Lo stesso avviene per le imprese e gli enti. A un certo punto notare cosa manca e provare a integrarlo è un atto di salute che permette di evolversi pienamente.

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Andrea Tittarelli

Università di Perugia

Imprenditore sociale con l'incarico di Presidente presso la cooperativa "La Semente" e manager del nonprofit nel ruolo di Direttore Generale in seno alla Federazione di Angsa (Associazione Nazionale Genitori di Soggetti Autistici). Insegna "Impresa sociale e service design" presso il Dipartimento di Scienza Politiche dell'Università degli Studi di Perugia.

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