Una recente sentenza del TAR Toscana affronta in modo discutibile il tema delle convenzioni con il volontariato. L'onda lunga dell'approssimativo parere del Consiglio di Stato del 2018 e l'assenza della politica generano una situazione confusa che azzoppa la Riforma
Una dei maestri del diritto civile e, in particolare, del diritto delle associazioni – Maria Vita De Giorgi – scriveva, qualche tempo fa, a proposito della disciplina giuridica dei partiti politici, che la legge è uguale per tutti, ma la giurisprudenza no (M.V. De Giorgi, La legge è uguale per tutti, la giurisprudenza no, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 6, 2017, 871ss.). Mutatis mutandis, quanto sta avvenendo a proposito della co-programmazione, co-progettazione e convenzioni, è esattamente questo. Tanti sono i giudici chiamati a pronunciarsi su scelte delle pubbliche amministrazioni in tema di rapporti fra P.A. e Terzo settore, ma l’esito è quello di una polifonia di pronunciamenti, originati a partire da singoli casi.
Certamente, tre anni non ancora compiuti di vigenza delle norme del Codice del Terzo settore possono risultare troppo pochi affinché si sedimenti un orientamento giurisprudenziale, ma è indubbio che la “tempesta” interpretativa che ha riguardato gli artt. 55 e 56 del Codice del Terzo settore abbia creato confusione e disorientamento.
L’ultimo caso, a mio giudizio, in Toscana. Il TAR Toscana, con la sentenza 1° giugno 2020, n. 666, ha annullato l’atto col quale è stata indetta, da un Comune, una procedura per la selezione di una ODV o APS per la conclusione di una convenzione di corsi di lingua straniera. La motivazione, stringatissima, si fonda interamente sulla “rilettura” dell’art. 56 del Codice del Terzo settore alla luce del parere del Consiglio di Stato n. 2052 del 2018: a giudizio del TAR, l’affidamento in convenzione ad ODV o APS è consentito, alla luce della normativa euro-unitaria, solo se la prestazione è resa in base ad un principio di gratuità che non è intesa come “assenza di corrispettivo” ma come «“non economicità” del rapporto, ovvero non idoneità dello stesso a coprire il valore dei fattori di produzione e, in particolare, della manodopera, la cui prestazione viene sorretta non da un interesse economico (come normalmente accade) ma dal un puro scopo di solidarietà sociale (che connota il fenomeno del volontariato)». In realtà, l’art. 56 del Codice del Terzo settore afferma altro: le convenzioni, infatti, possono prevedere esclusivamente il rimborso alle organizzazioni di volontariato e alle associazioni di promozione sociale delle spese effettivamente sostenute e documentate; trattandosi di attività svolta da ODV ed APS, l’attività deve essere svolta prevalentemente da volontari associati (in questo modo esprimendo un particolare valore solidaristico: TAR Lazio, sez. III-bis, 8 novembre 2018, n. 10809); spetta alla convenzione definire l’apporto dell’attività dei volontari ed eventualmente dei lavoratori, quali fattori che esprimono la «capacità tecnica e professionale, intesa come concreta capacità di operare e realizzare l'attività oggetto di convenzione».
Nulla esclude, quindi, che possa esservi anche un apporto di lavoratori, nei limiti in cui ciò è consentito dalla legge, e che tale costo possa essere dedotto a rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate, con esclusione di qualsiasi attribuzione a titolo di maggiorazione, accantonamento, ricarico o simili, e con la limitazione del rimborso dei costi indiretti alla quota parte imputabile direttamente all'attività oggetto della convenzione. Ma nulla si dice a proposito di una presunta “non economicità”, come interpretata dal TAR, sull’onda lunga dell’interpretazione del Consiglio di Stato. Tale non economicità, infatti, è proposta dal giudice amministrativo come divieto di rimborso di tutto ciò che non sia ascrivibile al novero delle spese dirette e vive, con l’esclusione «di tutti i fattori della produzione altrui (capitale e lavoro)»: solo in tal modo, si ricade in «un contesto di servizio di interesse generale non economico, non interferente, in quanto tale, con la disciplina del codice dei contratti pubblici». Per pervenire a tale risultato – va ricordato – il Consiglio di Stato utilizza lo strumento “drammatico” della disapplicazione delle norme di diritto interno in contrasto col diritto dell’Unione.
Le norme sostanziali su ODV ed APS dettate dal Codice non escludono affatto che tali enti possano avvalersi, seppur entro certi limiti, di lavoratori (sugli effetti paradossali del ricorso ai volontari nelle procedure previste dai Codice dei contratti pubblici, TAR Calabria, n. 1534 del 2019 a proposito dell’affidamento della gestione di un CARA ad una ODV, prescelta a causa dei minori costi assicurati dall’impiego di volontari). Nell’argomentazione del TAR, infatti, sembra quasi leggersi una contestazione della qualifica di ODV o APS del soggetto che ha stipulato la convenzione. Ma – come è facile intuire – si tratta di tutt’altra questione che attiene al profilo soggettivo, e non al profilo oggettivo dell’attività dedotta in convenzione.
Nessun facile entusiasmo, quindi, dopo che il Consiglio di Stato ha rinviato all’ANAC la bozza di Linee guida per l’affidamento dei servizi sociali (parere n. 3235 del 29 dicembre 2019). Al contrario, l’assenza di quelle Linee guida – per quanto proposte da una Autorità che, effettivamente, non dovrebbe occuparsi direttamente della questione – rischia implicitamente di riconfermare – quale unico punto di riferimento interpretativo – gli argomenti del parere n. 2052 del 2018. In questo, ho condiviso sin dall’inizio l’impostazione di chi ha visto, nello stop allo schema di Linee guida, un inciampo che avrebbe acuito la difficoltà interpretativa delle disposizioni del Codice del Terzo settore, anziché facilitato la soluzione.
Nel frattempo, il lavorio giurisprudenziale continua, con risultati di segno diverso, sugli artt. 55 e 56 CTS. Da ultimo, il TAR Lombardia, I sez., 3 aprile 2020, n. 593, ha offerto un ulteriore “tassello” per definire la nozione propria di co-progettazione. Infatti, a proposito di Comune che qualificava una procedura come «co-progettazione», osserva che «al di là del nomen iuris, e di talune espressioni letterali contenute nell’Avviso, con la procedura che ne ha formato oggetto, il Comune resistente ha in sostanza dato luogo ad un confronto competitivo, per l’affidamento di un incarico di progettazione definitiva, e di gestione del relativo servizio, a titolo oneroso, sebbene connotato da talune peculiarità, come detto, consistenti nella redazione congiunta del progetto, ad opera del concorrente vincitore e dell’Ente Locale, sulla base della “proposta progettuale” e del quadro economico presentati dai concorrenti in sede di gara». Ma si veda pure la posizione sviluppata dal TAR Campania, Napoli, sez. III, 02 luglio 2019, n. 3620 che ha proposto una ricostruzione alternativa a quella del Consiglio di Stato (sebbene la sentenza campana sia attualmente appellata al Consiglio di Stato).
La questione è approdata pure alla Corte costituzionale in sede di ricorso in via principale del Governo su una legge regionale dell’Umbria (L.R. Umbria, n. 2 del 2019) che ha esteso tali modalità di coinvolgimento attivo anche ad altri soggetti (le c.d. imprese di comunità) che non necessariamente sono enti del Terzo settore, così per come definiti nell’ambito della riforma. La discussione della questione è avvenuta il 20 maggio u.s. e – speriamo – la sentenza offrirà a breve qualche elemento di ulteriore chiarimento.
Insomma, molti giudici investiti delle questioni, a “valle” di scelte compiute dalle amministrazioni; minore attenzione, invero, da parte del legislatore, statale e regionale. Perché dopo la novità degli artt. 55, 56 e 57 CTS, la questione sembra essere rimasta un po’ in sospeso: a fronte dei dubbi avanzati da parte della giurisprudenza, non sarebbe forse il caso di introdurre le famose «tre parole del legislatore», per chiudere un dibattito che sta divenendo davvero difficile da comprendere, nella prospettiva dell’attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale? Eventualmente, su quelle «tre parole», potrà poi essere adita la Corte costituzionale o la Corte di Giustizia al fine di verificare la compatibilità con la Costituzione e con l’ordinamento euro-unitario. In tal modo, il paventato conflitto di compatibilità fra ordinamento interno ed ordinamento europeo potrebbe finalmente trovare un momento di chiarimento. Continuare ad avanzare così, per tentativi ed errori, attraverso una giurisprudenza frammentata, non pare davvero auspicabile.
Qualche Regione ha avviato dei percorsi interessanti di adeguamento dell’ordinamento interno a quanto previsto dalla riforma (L.R. Toscana n. 58 del 2018 ed il successivo disegno di legge n. 400 del 2019, attualmente in discussione nel Consiglio regionale toscano; L.R. Marche n. 8 del 2019). Lo stesso legislatore statale, nel mezzo dell’emergenza Covid, ha “evocato” la co-progettazione come possibile rimedio alla necessità di rimodellare servizi ed attività in alcuni settori di attività (art. 48, decreto-legge n. 18 del 2020, convertito dalla legge n. 27 del 2020).
Insomma, la questione è politica e, come tale, è il legislatore a doversene occupare.
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