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ISSN 2282-1694
Tempo di lettura:  7 minuti
Argomento:  Teoria politica
data:  30 marzo 2020

Il Terzo settore e l'impresa sociale nella cultura politica del Paese

Massimo Novarino

Gli attacchi al Terzo settore dei mesi scorsi rappresentano un elemento non secondario di una strategia che si propone di sradicare le propensioni alla solidarietà dal nostro corpo sociale.


Qual è la percezione dell’impresa sociale e del terzo settore nella cultura politica del nostro Paese? Come sono e sono state considerate dai protagonisti della politica le cooperative sociali, le associazioni, il volontariato? E come possiamo inserire tale considerazione nel più generale discorso politico?

In premessa va segnalato che la risposta a tale interrogativo risulta dallo scontro tra due diverse e per certi versi opposte tendenze emerse nel corso degli ultimi anni; non deve sorprendere pertanto che emergano da una parte attestazioni di apprezzamento verso i settori della società civile organizzata che operano nei settori di interesse generale e dall’altra voci aspramente ad essi ostili.

Ma andiamo con ordine.

Nel corso dei decenni il fatto di occuparsi del bene comune si è affermato come valore universalmente positivo, riconosciuto anche nell’ambito di culture politiche molto diverse fra loro. Non è una caso che le “grandi leggi” di inizio anni Novanta, su volontariato e cooperazione sociale, siano state approvato con l’assenso di tutte le principali forze politiche del tempo, tra cui la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano: sono state leggi fatte proprie da quello che era allora definito l’Arco Costituzionale, cioè le forze che avevano a suo tempo approvato la Costituzione e i valori che la impregnavano, tra cui il “dovere inderogabile di solidarietà politica, economica e sociale” dell’articolo 2, opportunamente richiamato da Marco Revelli nella sua intervista a Impresa sociale.

Insomma, chi opera per l’interesse generale in una impresa sociale, in una organizzazione di volontariato o in una associazione di promozione sociale è stato in questi decenni inteso come un attuatore di principi che rappresentano un patrimonio comune del nostro corpo sociale.

Ciò evidentemente non supera ogni distinguo o polemica: vi può essere ad esempio, chi, da sinistra, ha messo in luce che un terzo settore meramente “riparativo” altro non fa che confermare le strutture sociali ingiuste che generano sofferenza e discriminazioni; ma si tratta di critiche, per così dire, “dall’interno”: si condivide la bontà della scelta di operare per l’interesse generale, ma si afferma che facendolo in un certo modo si ottengono risultati discutibili; non è incrinata la natura del Terzo settore, ma determinati modi di agire all’interno di esso. Così come sono “dall’interno” critiche – anche indignate – per chi ha tenuto, entro Enti di Terzo settore, condotte riprovevoli: anche in questo caso, si tratta dello scandalo che nasce dalla condivisione di un’opinione alta e positiva del Terzo settore, che fa apparire ancor più sacrilego l’atto di chi entro tali organizzazioni tiene condotte deprecabili e inammissibili.

Questo generale assenso ha prodotto, tra le altre cose, un esteso atteggiamento favorevole al Terzo settore in ampi strati della società. Per fare due esempi, l’Eurispes da anni svolge un sondaggio ad ampio raggio circa il grado di apprezzamento delle istituzioni (Parlamento, Governo, etc.) e dei principali attori sociali (partiti, sindacati, etc.); ebbene, il volontariato risulta stabilmente ai primi posti nel gradimento dei cittadini. Ma forse ancor più rilevante è quella sorta di “censimento annuale” rappresentato dai contribuenti che devolvono il 5x1000 a enti del Terzo settore: ormai da più di 10 anni oltre 15 milioni di contribuenti (circa i 2/3 del totale) fanno questa scelta.

Quindi, entro un certo discorso politico, il Terzo settore fa parte di quel patrimonio valoriale fondativo e condiviso che dà forma al modo d’essere di una collettività: aborriamo le discriminazioni e combattiamo le disuguaglianze, garantiamo le libertà e sosteniamo la democrazia, ripudiamo la guerra – tanto per citare alcuni valori Costituzionali – e stimiamo cosa positiva l’unirsi per agire per il bene comune.

Se per decenni – con le cautele sopra ricordate – vi è stato un consenso e apprezzamento amplissimo su questa prospettiva, da un certo punto in poi qualcosa si è incrinato.

I primi bersagli non sono stati gli enti del Terzo settore, ma alcune persone fragile sostenute dal nostro sistema di welfare. Come giustamente notava ai tempi Cristiano Gori, la battaglia intrapresa da Tremonti contro i “falsi invalidi” nel 2010 (che ciclicamente riemerge) è stata una prima avvisaglia di un clima culturale diverso: per anni si era ritenuto, pur con accenti diversi, positivo il fatto di dedicare risorse ai cittadini più deboli – semmai divergendo sul fatto che ciò fosse o meno sostenibile o su quale gruppo sociale avesse più di altri diritto alle attenzioni delle istituzioni. Quella del 2010 contro i falsi invalidi è stata la prima campagna di opinione esplicitamente antisolidarista: il messaggio che si voleva comunicare non era certo che “taluni opportunisticamente godono di una prestazione cui non hanno diritto” (che non è nemmeno una “notizia” dal punto di vista politico: è questione di individuare dei singoli cittadini e di sanzionarli come è giusto fare): è che il welfare, in quanto tale, è spreco perché dà soldi ai “soliti furbi” che in realtà stanno meglio di altri, come il cieco che guida e lo zoppo che corre. Destinare risorse pubbliche agli altri è male: tutt’al più se ne occupino gli enti privati caritatevoli, se ne hanno le forze (ricordiamo che era stato lo stesso Tremonti a istituire il 5x1000 nel 2006). Poi è stata la volta di altri soggetti fragili, a partire dagli immigrati, in un crescendo teso a individuare il “nemico” reo e responsabile delle inquietudini e difficoltà che attraversa il nostro Paese, eliminati i quali ci sarebbe un nuovo “miracolo italiano” (dimenticando che il primo miracolo degli anni ‘50-60 fu anche propiziato da rilevante quantità di rimesse che – a nostra volta - milioni di emigranti italiani in Europa e nel mondo mandavano a casa,  cosa mai abbastanza ricordata).

L’ondata di risentimento che sta attraversando il nostro paese in questi ultimi anni ha però prodotto effetti più profondi. Vi è stato una sorta di  “salto di qualità”. Nel mirino sono entrati direttamente gli enti che si occupano di assistere gli ultimi, visto come una sorta di “quinta colonna” che lavora a favore del “nemico” di turno. 

Il male sono diventate allora le ONG tacciate di essere “taxi del mare”, sono i sostenitori dell’accoglienza che si professano solidaristi perché sui migranti ci si guadagna (da qui il “business dell’immigrazione”). E poi sono coloro che si occupano di minori, perché sicuramente vogliono compiere l’odioso crimine di togliere i bambini alle proprie madri (il “business delle case di accoglienza”) e via discorrendo.

Non si tratta più di esecrare il singolo che profana valori condivisi, compiendo azioni riprovevoli sotto i vestiti del volontario o del cooperatore sociale; ma si tratta di portare a termine un attacco frontale e distruttivo secondo cui il privato non profit che opera per l’interesse generale è un male, non può che essere ispirato da secondi fini (quasi a dire che è più apprezzabile il privato profit poiché sono palesi i suoi scopi: fare profitto). Proporre e agire per una società aperta, inclusiva, solidale è visto come un male, in un mondo ostile e incattivito: chi fa dell’impegno sociale la sua quotidianità come volontario o come operatore è considerato sicuramente incoerente (non si prende i migranti a casa sua), è accusato di avere motivi economici per farlo e di guadagnarci molti soldi, di usare i suoi falsi valori per interessi personali.

Perché questo attacco frontale? Perché non era più semplice, per i portatori di una visione altra della società, glissare su chi opera per l’interesse generale, magari blandirlo con un apprezzamento di facciata, anziché attaccarlo con questa determinazione?

Gli studiosi di storia militare convengono sul fatto che per Hitler, che nel 1942 era penetrato in vaste aree dell’Unione Sovietica, Stalingrado – pur essendo un significativo centro industriale - non fosse un obiettivo così rilevante da un punto di vista strategico o almeno non così importante come lo sarebbe stato puntare più direttamente sui bacini petroliferi del Caucaso; ciononostante, il dittatore volle impegnare la sua sesta armata nella conquista della “città di Stalin”, perseverando nell’intento anche allorquando l’operazione si profilava come tragica sconfitta. Gli storici sottolineano come tale folle ostinazione fosse motivata da motivi simbolici, connessi al nome della città e al valore di “battaglia finale” che via via essa stava assumendo, come sforzo definitivo per superare le ultime residue resistenze di un nemico che, se lì sconfitto, sarebbe stato definitivamente vinto.

Perché, a differenza del passato quando il mondo politico e quello sociale condividevano lo stesso sistema di valori e una visione della società, ora vi è il confronto sui valori fondamentali.  Per coloro che sostengono una cultura dell’isolamento e del risentimento, una società chiusa e ed escludente, che oggi cercano di affermarsi, piegare culturalmente il terzo settore rappresenta la battaglia finale, l’annientamento di una ultima insidiosa sacca di resistenza.  

Non è questa la sede per approfondire i motivi per cui altri attori sociali portatori dei valori Costituzionali siano in palese affanno. I partiti (che si sarebbero identificati un tempo con l’Arco costituzionale), i sindacati (come rappresentanza di un settore sociale vocato a lottare nel senso di una maggiore uguaglianza tra i cittadini e della protezione degli strati più fragili) sono  soggetti che, come risulta da anni dagli impietosi dati dell’istituto Eurispses,  riscuotono una bassa fiducia da parte dei cittadini nel cementare intorno a sé una cultura Costituzionale. Per molti motivi che qui non si approfondiscono, purtroppo sono oggi in difficoltà nel rilanciare messaggi in grado di trainare e incanalare energie sociali.

Il Terzo settore tiene, anzi cresce. In particolare, il Terzo settore imprenditoriale, l’impresa sociale, ha dimostrato una singolare tenuta economica nella lunga crisi che ha messo in ginocchio il Paese. I numeri dell’Istat hanno via via evidenziato una proliferazione di enti e un coinvolgimento di milioni di cittadini tanto nella cooperazione sociale, quanto nel volontariato e nell’associazionismo. Ciò non esclude che si possano intravvedere, nell’una o nell’altra forma di Terzo settore, motivi di affaticamento, difficoltà nei processi di rinnovamento, ecc. Ma tutto ciò non cancella i dati incontrovertibili sopra ricordati.

Si aggiunga – era di nuovo Cristiano Gori a evidenziarlo ricostruendo il processo che ha portato ad un’inedita attenzione rispetto alla povertà – che la svolta nella Chiesa cattolica impressa da Papa Francesco ha contribuito ad orientare in modo deciso energie di vaste fasce di cittadini attivi verso l’impegno nel sociale; e non a caso basta frequentare sporadicamente i social per rabbrividire di fronte a critiche deliranti rivolte al Papa da sedicenti cattolici tradizionalisti che lo accusano di svendere la Chiesa di volta in volta ai protestanti, agli ebrei, agli islamici e così via.

Il Terzo settore è, quindi, una fastidiosa sacca di resistenza sociale che si frappone all’egemonia culturale di una visione sociale e politica che si coagula sul rifiuto dei valori fondanti della nostra Carta costituzionale. È il nemico che, entro un disegno di creazione di un “uomo nuovo” chiuso ed escludente, operoso e risentito, amante del proprio cortile, della propria famiglia e ostile verso l’esterno, va soffocato per avere finalmente campo libero. Il Terzo settore va delegittimato mostrando il presunto lato oscuro della solidarietà, alimentando la “cultura del sospetto”, così da poter affermare che non esiste chi veramente agisca per il bene comune, esistono solo persone che fanno i propri interessi.

Coscientemente o istintivamente, i promotori di questa visione antropologica hanno in questi mesi ingaggiato battaglia contro il Terzo settore.

Le reazioni sono molteplici; come ricorda Carlo Borzaga, ben comprendendo la valenza di questo scontro, si è ripetutamente espresso a difesa dei valori Costituzionali connaturati all’azione del Terzo settore lo stesso Presidente della Repubblica, con parole per nulla usuali.

Quale sarà l’esito, dipenderà dalla capacità degli attori in campo di interpretare al meglio questa difficile fase. Certamente il Terzo settore risulta poco attrezzato per far fronte ad attacchi così diretti e rischia sicuramente di ripiegarsi su se stesso, di scegliere la strategia del silenzio in attesa che passi la tempesta, di limitarsi a tenere posizioni defilate concentrati su aspetti tecnico operativi, senza comprendere che non di attacco episodico si tratta, ma di vera e propria battaglia frontale che mira all’annientamento culturale o all’asservimento ad una paradossale cultura della “solidarietà escludente”.

Ma bisogna d’altro canto essere consapevoli che dalla capacità di interpretare questa fase, di essere attori attivi, propositivi e interpreti credibili dei valori costituzionali, deriva non solo il futuro del Terzo settore – la sua capacità di essere un portatore di senso e non solo un gestore di servizi – ma anche, almeno in parte, la possibilità della nostra società di non sfaldarsi e di non ripiegarsi su se stessa, riscoprendo nei propri elementi fondanti una direzione per un futuro possibile.

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Massimo Novarino

Forum del Terzo settore

Coordinatore dell'Ufficio studi del Forum Nazionale del Terzo settore.

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