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ISSN 2282-1694
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Numero 14 / 2019

Casi studio

Quale cooperazione di comunità in Sardegna (per non dover piangere sul latte versato)?

Maria Lucia Piga, Daniela Pisu

Abstract

La recente protesta dei pastori in Sardegna vede il suo incipit in giuste motivazioni: gli industriali caseari pagano il latte ai pastori solo 60,00/lt per trasformarlo in formaggio da esportazione. La protesta, sfociata in manifestazioni distruttive, esprime una rabbia ed un’esasperazione che potrebbero essere indirizzate verso nuove forme di lealtà nei confronti del bene comune. Considerato che il sussidio non può risolvere la crisi del latte, si ipotizza che l’impresa sociale di comunità e/o la cooperativa di comunità possano, almeno in parte, offrire vie d’uscita alternative a Stato e Mercato. Perché nel settore ovino non si è riusciti a costruire una rete simile a quella che gli allevatori del settore bovino, in periodo di crisi, hanno costruito fin dagli anni Cinquanta ad Arborea (provincia di Oristano) con la Cooperativa 3A? Dall’analisi di questo caso emerge che è possibile mettere insieme le risorse primarie, in questo caso il latte vaccino, per trasformarle e commercializzarle. Inserita in un sistema territoriale e promotrice di iniziative di responsabilità sociale di impresa, welfare aziendale e partecipazione al sistema finanziario, questa cooperativa è leva di una economia che esprime successo aziendale.

L’analisi sociologica delle crisi di ieri e di oggi mira a far luce sulle fragilità/capacità in ambito rurale. A partire dalle opportune comparazioni tra settori del latte bovino/ovino, ci si domanda come l’imprenditorialità sociale possa aiutare a ricostruire il senso del bene comune nel mondo pastorale. A quali condizioni la fiducia può fungere da catalizzatore dello sviluppo economico nelle aree rurali della Sardegna? Lo studio di caso vuole evidenziare le prospettive di azione imprenditoriale secondo il modello dell’impresa sociale di comunità e della cooperativa di comunità (LR 02 agosto 2018, n.35), con l’obiettivo di rendere conto della complessità e delle criticità principali che ne ostacolano la fondazione. Il principale risultato atteso riguarda la possibilità di evidenziare, attraverso la produzione di beni relazionali, un modello di business che non si basi sull’estrazione ma sulla creazione di valore: grazie a questa lente interpretativa sarà possibile capire come si evolve la solidarietà interna al mondo pastorale, oltre i limiti “meccanici” del suo modello tradizionale.

Pur essendo il lavoro il frutto di un’elaborazione comune, Piga è autrice delle parti prima e seconda, Pisu delle parti terza e quarta.

DOI: 10.7425/IS.2019.14.06

Introduzione

La recente protesta dei pastori in Sardegna vede il suo incipit in giuste motivazioni: gli industriali caseari pagano il latte ai pastori solo 60,00/lt per trasformarlo in formaggio da esportazione, il cosiddetto pecorino romano. La protesta, sfociata in manifestazioni distruttive (ripetuti sversamenti di latte ovino sulle strade e nei luoghi simbolo del potere; assalti ai camion-cisterna delle aziende casearie) esprime una rabbia ed un’esasperazione che potrebbero essere indirizzate verso nuove forme di lealtà nei confronti del bene comune. Considerato che il sussidio non può risolvere la crisi del latte, si ipotizza che l’impresa sociale di comunità e/o la cooperativa di comunità possano, almeno in parte, offrire vie d’uscita alternative a Stato e Mercato.

Perché nel settore ovino non si è riusciti a costruire una rete simile a quella che gli allevatori del settore bovino, in periodo di crisi, hanno costruito fin dagli anni Cinquanta ad Arborea (provincia di Oristano) con la Cooperativa 3A? Dall’analisi di questo caso emerge che è possibile mettere insieme le risorse primarie o staple, in questo caso il latte vaccino, per trasformarle e commercializzarle. Inserita in un sistema territoriale e promotrice di iniziative di responsabilità sociale di impresa, welfare aziendale e partecipazione al sistema finanziario, questa cooperativa è leva di una economia che esprime successo aziendale: diversificando i prodotti è riuscita a varcare i confini nazionali, assorbendo altri marchi (Fattorie Girau, Trentinalatte e San Ginese) fino a contare 224 associati e un fatturato di 182 milioni di euro nel 2018.

L’analisi sociologica delle crisi di ieri e di oggi mira a far luce sulle fragilità/capacità in ambito rurale. A partire dalle opportune comparazioni tra settori del latte bovino/ovino, ci si domanda come l’imprenditorialità sociale possa aiutare a ricostruire il senso del bene comune nel mondo pastorale. A quali condizioni la fiducia può fungere da catalizzatore dello sviluppo economico nelle aree rurali della Sardegna? Queste ultime sono definite “zone interne” o “marginali”, ma qualcosa sta cambiando: la Sardegna guida infatti la classifica delle regioni italiane con oltre il 40% di nuove aziende agricole under 35 (dati Coldiretti). A partire da tale constatazione sorge allora una domanda: ai diversificati bisogni delle giovani generazioni si possono offrire sempre le stesse risposte standardizzate del welfare?

Il concetto di vulnerabilità ha molte facce, necessita pertanto di analisi approfondite e pratiche di ascolto attento: nelle campagne e nei piccoli centri non si vive tanto un impoverimento economico, quanto una mancanza di reti per attivare sinergie, come la protesta del latte in Sardegna dimostra. Quali alleanze interne alla comunità possono dare vita a un welfare rurale rigenerativo, che preceda (e non segua) le dinamiche dell’economia e che sviluppi la propensione delle nuove generazioni a “restare in paese”? Quali fattori di promozione possono favorire lo sviluppo delle qualità manageriali dei giovani pastori nelle aree a rischio di spopolamento? Quali sono le variabili socio-demografiche in gioco, le forme di exit/voice e i principali punti di forza e debolezza delle politiche pubbliche?

Lo studio di caso vuole evidenziare le prospettive di azione imprenditoriale secondo il modello dell’impresa sociale di comunità e della cooperativa di comunità (L.R. 02 agosto 2018, n.35), con l’obiettivo di rendere conto della complessità e delle criticità principali che ne ostacolano la fondazione.

Il principale risultato atteso riguarda la possibilità di evidenziare, attraverso la produzione di beni relazionali, un modello di business che non si basi sull’estrazione ma sulla creazione di valore: grazie a questa lente interpretativa sarà possibile capire come si evolve la solidarietà interna al mondo pastorale, oltre i limiti “meccanici” del suo modello tradizionale.

Il tema/problema della protesta dei pastori sardi per la negoziazione del prezzo del latte

Negli ultimi mesi del 2018 è esplosa la rabbia distruttiva dei pastori sardi, esasperati da una crisi economica apparentemente senza soluzioni. Le manifestazioni hanno causato danni considerevoli tra sversamenti di latte, mancate lavorazioni, mancate vendite di prodotto, assalto alle cisterne di trasporto del latte dagli ovili alle aziende, attentati incendiari, assalto alle celle frigo che trasportavano formaggi e maiali macellati. Inoltre, i disordini e le violenze private hanno comportato inchieste giudiziarie per l’individuazione degli autori degli atti vandalici.

Tale portato di esasperazione ha un’origine che viene da lontano, dai diritti d’uso di quelle terre che in principio erano comuni e che dal 1820 (con l’editto delle Chiudende, Birocchi, 1982) sono state privatizzate, cioè chiuse ed attribuite per decreto ad una borghesia “assenteista”, che nulla aveva fatto per conquistarsele e ancor meno avrebbe fatto per migliorarne la rendibilità. Le difficoltà dei pastori sono legate, in origine, alla proprietà della terra; sono pastori transumanti, affittuari, coloni e mezzadri: «La vita instabile del pastore transumante gli rende impossibile qualsiasi forma associativa dato il continuo mutare dei pascoli confinanti, il modo di affrontare la vita e il lavoro come un ‘sopravvivere’ giorno per giorno cercando di raggiungere il massimo tornaconto, anche se a scapito del vicino (…). Fino al secondo dopoguerra la maggior parte dei pastori tuttavia è ancora ben lontana da una situazione economica, culturale e sociale che le permetta di fare i passi necessari ad una qualunque intrapresa imprenditoriale, malgrado ne percepisca l’esigenza» (Pigliaru, 1971 – p. 17).

Gli studi sulla pastorizia sarda (Meloni, 1984) e su quella mediterranea (Le Lannou, 1979; Ravis, Giordani, 1983) evidenziano i fattori interni ed esterni di una crisi che ha motivazioni economiche e politiche. Anche se la ferita aperta è il prezzo del latte, in generale il malessere nasce dalle condizioni in cui si trova l’intero comparto lattiero-caseario ovino, per motivi legati a concorrenza, sottocapitalizzazione delle imprese, alto numero di aziende (prevalentemente a conduzione familiare) e loro scarsa produttività, dipendenza dalla monocultura produttiva del “pecorino romano”, difficoltà di commercializzazione nei limiti di un mercato insulare. Ma è soprattutto l’assenza di attenzioni politiche ad aggravare la situazione, perché mancano proposte e soluzioni che non siano quelle assistenziali ex post che, stabilizzando artificialmente il prezzo del latte, finiscono col sostenere dall’esterno iniziative non redditizie. Niente che favorisca lo sviluppo autopropulsivo del settore.

Allo scadere dei primi cento anni dall’Unità d’Italia, si poteva gravemente constatare in Sardegna che la sede territoriale dei crimini legati al banditismo (sequestro di persona a scopo di estorsione, furti di bestiame, rapine stradali, etc.) coincideva con l'area pastorale, le cosiddette zone interne. Per questi motivi, la relazione del Presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna, nota come Relazione Medici (1969), sottolineava l’urgenza di interventi per porvi rimedio. In precedenza, il Parlamento aveva approvato il Piano di Rinascita della Sardegna (Legge 11 giugno 1962, n. 588): un tipo di intervento straordinario, una pianificazione cd. senza scopo, che ha concorso a favorire lo sviluppo di alcuni settori dell'economia isolana, ma non aveva evidentemente rimosso le condizioni sociali, economiche e culturali del disagio, cause profonde della criminalità.

Negli anni 1962-69, il Piano di Rinascita si è alla fine risolto in un sistema di interventi che, mentre hanno sicuramente accentuato via via la crisi delle strutture tradizionali, «hanno ulteriormente ridotto direttamente o indirettamente i ristretti margini di un’originaria economia di sussistenza, senza riuscire a determinare il ‘salto’ auspicato, e senza anzi averne realizzato, forse, neanche i presupposti» (Pigliaru, 1971 – p. 5).

Per di più, questi interventi hanno creato una spaccatura interna alla comunità, ben evidenziata soprattutto nell’analisi condotta da Michelangelo Pira su quella “catastrofe antropologica” che è stata la modernizzazione in Sardegna, intesa come conflittualità dei codici e contraddizione delle fonti normative dei comportamenti (1979, 99 e ss.). Detto in altri termini, «al criterio dell’economia di sussistenza non è subentrato alcun criterio di economia imprenditoriale di mercato (…) mentre nel frattempo la cultura dell’egualitarismo è stata sostituita da comportamenti di consumo, e consumo vistoso» (Pigliaru, 1971 – p. 27).

Il problema era, fin dalla sua istituzione, il ruolo della Regione Autonoma Sardegna (d’ora in poi RAS), ma soprattutto la delusione nei confronti del suo operato eccessivamente burocratico, causa di frattura con quella società civile che, invece, tante aspettative di riscatto nutriva nei confronti di questa nuova istituzione, avvenuta già nel 1948 (Mura, 2019). Anche in questo caso, i gruppi più svantaggiati esprimono una carica di risentimento ed una violenza nelle manifestazioni, segno di sopraggiunta incapacità di sopportazione, tanto che già dagli anni Sessanta in Sardegna la condizione di vita dei pastori si poteva rappresentare come caso di vittimizzazione secondaria: al problema originario si aggiungeva l’aggravante del disinteresse politico da parte di una regione a statuto speciale, che avrebbe avuto il dovere di pianificare le risposte al problema (Pigliaru, 1971 – p. 24).

Il problema originario, oltre alla matrice della sfiducia nei confronti della RAS, si potrebbe sintetizzare nell’espansione della pastorizia a discapito dell’agricoltura e nella conseguente crisi del tradizionale scambio tra agricoltura e pastorizia:

«Dopo il 1960, con l’abbandono dell’agricoltura, i pastori si trovano da soli ad utilizzare l’intero patrimonio di terre comuni (…). I pastori risentono della mancanza dell’agricoltura sia perché non dispongono di prodotti agricoli per il bestiame, sia perché peggiora la produzione e la qualità dei pascoli (…). I regolamenti d’uso perdono di significato e i pastori si impadroniscono delle superfici agricole senza apportarvi miglioramenti fondiari, si accentua l’appropriazione individuale e si crea una situazione di assenza di regolazione, che favorisce il free riding» (Meloni, Farinella 2015 – p. 456).

Detto in altri termini, prende il via il “saccheggio” di quello che doveva essere tutelato come bene comune. Finito poi il processo di espansione e “conquista” delle terre incolte, con l’appoderamento e l’individualismo proprietario (anni Settanta) la condizione del pastore in Sardegna si stabilizza, mentre altri pastori prendono la via dell’emigrazione, prevalentemente verso la Toscana. Nel frattempo cresce l’industria di trasformazione lattiero-casearia e, in seguito alle prime tensioni tra industriali e pastori sul prezzo del latte, si sviluppano anche i primi caseifici cooperativi (Porcheddu, p. 2004).

Sebbene importante, la dimensione economica della cooperazione nel settore lattiero-caseario è caratterizzata per essere innovativa, perché – al pari delle imprese industriali – insiste sulla produzione del pecorino romano di esportazione negli Stati Uniti, per comodità rinunciando alla diversificazione dei prodotti e dei mercati. Una grave carenza di cui il settore soffre ancora oggi, infatti, è la mancanza di adeguate politiche di commercializzazione, con individuazione di marchi e destinazioni finali.

Dato che nel tempo le cose non sono migliorate, resta tuttavia disagevole la condizione di vita del pastore che ha perso il suo status, perché da allevatore, produttore e commerciante si vede sempre più ridotto a mungitore e custode del gregge, ancora oggi stretto tra il padrone dei pascoli al quale paga l’affitto e l’industriale al quale versa il latte:

«Dalla metà degli anni novanta, il settore lattiero-caseario è stato colpito da una persistente crisi (…) laddove i costi di produzione (mangimi, elettricità, gasolio etc.) sono aumentati, soprattutto in seguito alla crisi economica del 2008» (Meloni, Farinella 2015 – p. 461). Inoltre, «Dal 2010 inizia una lenta ripresa delle esportazioni, ma il prezzo del latte continua a scendere intorno ai 60-65 centesimi medi al litro, causando il ridimensionamento e la chiusura di molti allevamenti, già provati da ripetuti focolai dell’epidemia di lingua blu» (ivi, pp. 462-463).

Riflessioni sulla multifunzionalità in agricoltura e sul ruolo dell’impresa sociale di comunità

È importante sottolineare che gli interventi in questi territori fragili dovrebbero caratterizzarsi per il fatto di essere non in primis interventi speciali, né esclusivamente di tipo economico, ma inquadrati nella logica di una coesione territoriale, capaci di cogliere la multifunzionalità in agricoltura e, in generale, la portata della nuova agricoltura, al centro della Strategia Nazionale Aree Interne (d’ora in poi SNAI) che punta l’attenzione sulle risorse locali[1].

Sono aree con risorse che mancano alle aree centrali, aree policentriche con elevato potere di attrazione (Barca, 2015) e basate su attività tradizionali, da valorizzare grazie alle competenze locali: «Non è quindi da trascurare il fatto che i settori produttivi tradizionali forniscano merci che si contrappongono all’uniformità di quelli delle grandi aziende» (Meloni, 1984 – p. 140).

Quando si parla di aree interne, bisogna tener presente che si tratta di un universo variegato in base a diverse tipologie di marginalità: sono tutto ciò che resta una volta tolte le zone costiere, le fertili pianure e le città (Meloni, 2015). Sono territori di cui spesso si evidenziano solo le debolezze, perché investite, nel corso del XX secolo, dal declino demografico e dallo spopolamento (dovuto all’emigrazione, alla denatalità e ad altri fattori della globalizzazione); sono apparentemente fragili, dove gli abitanti sono spinti al nomadismo e di conseguenza all’indebolimento di quel capitale sociale che dovrebbe generare un surplus positivo per lo sviluppo locale (Bourdieu, 1980). Manca quindi la “capacità creativa” (Bandinu, 1996) affinché queste zone interne possano sfruttare appieno il proprio potenziale che, nella storia, altri hanno sapientemente utilizzato a proprio profitto (Pisu, 2018).

Oggi, le evoluzioni della pastorizia vanno considerate nel quadro di uno scambio equilibrato con l’agricoltura che è necessario ricostruire, alla luce della critica dell’agricoltura industrializzata, proiettata al massimo profitto in una logica estrattiva, strettamente legata all’industria chimica dei fertilizzanti, del petrolio, etc. La prospettiva di un cambio di rotta fa il paio con la cosiddetta riemersione del modello contadino: «Gli imperi alimentari di oggi sono ugualmente caratterizzati da permanenti e multipli spostamenti dei confini che ridefiniscono la vera definizione di cibo. Il latte fresco aveva in passato una definizione ben precisa; Parmalat (e nel frattempo molte altre industrie) hanno radicalmente “spostato” la definizione di freschezza, che non si riferisce più al latte trasformato entro ventiquattro ore dalla mungitura e da consumarsi entro quarantotto ore. “Freschezza” oggi può significare settimane o addirittura mesi» (Ploeg, 2009 – p. 310).

Nell’attuale modello di produzione «La maggior parte dei consumatori viene quindi sistematicamente privata degli strumenti necessari per iniziare a comprendere la complessità di tutte le dinamiche che si frappongono tra gli ortaggi, le verdure, i vegetali che vengono coltivati nei campi, gli animali allevati nelle stalle e i prodotti confezionati sullo scaffale. Tutto viene dato come naturale e scontato, questi processi sembrano avvenire senza sforzo. Ma d'altronde proprio questa sembra essere la logica multiforme e cangiante dell'Impero che cerca di nascondere le proprie strutture e negare l'evidenza del suo funzionamento, per potersi difendere in modo sempre più efficace agli occhi della pubblica opinione» (Lapponi, 2010 – p. 57).

Ne conseguono cattiva alimentazione e minacce per la salute: l'agricoltura industriale, utilizzando in modo smodato i mezzi di produzione, snatura anche il ruolo che il pastore, l’allevatore e l’agricoltore hanno nel produrre cibo (Bovè, Dufour, 2001).

Questo recupero di valore (per ora solo simbolico) delle attività tradizionali tiene in conto la progressiva affermazione della multifunzionalità in agricoltura e la sua capacità di creare beni collettivi: essa rappresenta un «sistema ecocompatibile sia in termini ambientali che economici; si tratta infatti di un modello adatto alle aree marginali e interne (abbandonate dall’agricoltura “moderna”) in quanto parsimonioso nel consumo di risorse. Coniugando l’attività di allevamento col rispetto dell’ambiente, può essere una risposta antica a problemi del futuro e individua un vantaggio competitivo naturale della regione. [Inoltre,] il pascolamento a cielo aperto permette un’elevata qualità del latte, materia d’elezione per la produzione di formaggi particolarmente pregiati a latte crudo» (Meloni, Farinella 2015 – p. 467).

Questa nuova agency legata alla riemersione del modello contadino, che generalmente esprime il lavoro quotidiano di un intero nucleo familiare, è il segno di una resilienza dei territori rurali che si riorganizzano in risposta alla crisi del settore; è una risposta ancorata «a processi reali, territorialmente localizzati e inseriti all’interno di un sistema di relazioni fiduciario e consolidato» (ivi, 468). Però, nonostante le competenze relazionali che i nuovi contadini possono mettere in campo nella conquista di nicchie, nuovi mercati e nella ricerca di clienti selezionati (competenze spesso compensative di una professionalità manageriale mancante), queste piccole aziende innovative sono sempre a rischio di cessazione, né si può ritenere che esse offrano una risposta “di sistema” alla crisi del latte.

Se non all’impresa capitalistica e se non all’intervento statale, per capire le possibili vie di fuoriuscita dalla crisi e le prospettive di sviluppo del settore lattiero-caseario, proviamo a rivolgerci alle imprese sociali di comunità, segno che in certi territori «le relazioni tra le persone e con le loro comunità di appartenenza possono davvero essere poste al centro di progetti d’impresa efficaci e sostenibili» (Borzaga, 2008 – p. 2); in questo senso, l’impresa sociale di comunità può essere considerata come un modello organizzativo che prevede una presenza attiva di diversi portatori di interesse. Vediamo di capire in che senso essa rappresenta una progettualità comunitaria che alimenta reti e relazioni significative nell’ambito di un welfare rurale prossimo ai bisogni delle giovani generazioni; ci domandiamo soprattutto se un’impresa sociale di comunità possa aiutare a ricostruire il senso del bene comune nel mondo pastorale.
Partiamo da una definizione:

«Le imprese sociali di comunità (ISC) sono organizzazioni che operano nei sistemi di protezione sociale producendo beni che incrementano la coesione sociale attraverso processi di inclusione e sviluppo locale. Sono contraddistinte da un approccio che riconosce il carattere multidimensionale ed evolutivo dei bisogni e quindi la necessità di rispondervi attraendo e combinando risorse di natura diversa, grazie anche al coinvolgimento e l’integrazione in rete di altri soggetti comunitari e istituzionali» (Borzaga, 2008 – p. 3).

Si ritiene che questo processo si può mettere in moto solo se in un determinato contesto si avviano processi intenzionali e dinamici di analisi approfondite e pratiche di ascolto attento. Sarà allora possibile mobilitare gli stakeholders interessati a ricreare nello stesso contesto se non lo sviluppo, almeno i processi virtuosi di fiducia e speranza che ne costituiscono i presupposti, insieme alla «capacità di combinare sistemi di relazione di tipo informale - basati su legami interpersonali e di appartenenza (politici, religiosi, culturali, di parentela, ecc.) - con relazioni formali che coinvolgono soggetti istituzionali» (ivi, 13). Nelle campagne e nei piccoli centri, infatti, non si vive tanto un impoverimento economico, quanto una mancanza di reti per attivare sinergie. Manca un progetto di partecipazione che consenta nuovi patti di lealtà e fiducia tra gli attori locali, che possa dare voce e ascoltare i profondi motivi del malessere, che possa autorizzare voice, prima che la disperazione conduca le giovani generazioni a forme autolesionistiche di exit dalla vita rurale (Hirschman, 1981).

La dimensione comunitaria infatti non è data per natura, ma deve essere tessuta nella trama della fiducia e attraverso l’ordito della partecipazione, al fine di pervenire comunitariamente a processi di institution building. Il percorso però va organizzato, al fine di far emergere quelle forme di autorganizzazione (per esempio cooperative sociali, associazioni, iniziative di volontariato) in risposta a bisogni del contesto e a specifiche necessità di mondo vitale:

«Da un lato, le imprese sociali hanno bisogno, soprattutto nella fase iniziale, di poter disporre di risorse provenienti dalla comunità locale e di legittimazione a sostegno della loro attività; d’altro lato, queste organizzazioni non si limitano all’utilizzo di legami pre-esistenti, ma con la loro azione fanno riemergere risorse di natura relazionale che ridanno linfa alla comunità grazie a processi di ‘coagulazione’ intorno a specifiche iniziative. Agiscono così come soggetti in grado sia di costruire nuovi legami sociali che di riattivare quelli indeboliti» (ivi, 13).

Intanto sarebbe necessario in primis capire quale obiettivo una ISC dovrebbe avere. Questi sono i passaggi chiave: 1) Trasformare un’idea in un progetto condiviso; 2) Leggere il territorio: bisogni e risorse; 3) Individuare le risorse attivabili, in termini di risorse materiali (capitale fisico) e immateriali (capitale relazionale, organizzativo e umano).

La protesta del latte in Sardegna dimostra quanto possa essere grave e serio il problema che di questo drammatico exit è, se non la causa, il presupposto. La mancanza di reti per attivare sinergie ha determinato anche un impoverimento di occasioni sociali intorno alle quali discutere - argomentando consensi e conflitti - per individuare soluzioni condivise, diverse dall’inutile e dannoso sversamento di latte ovino. Una proposta di ISC può rappresentare un’alleanza interna alla comunità per dare vita a un welfare rurale rigenerativo, che preceda (e non segua) lo sviluppo dell’economia. In tal modo sarà anche possibile sviluppare la propensione delle nuove generazioni a costruire il proprio ambiente e semmai a restare paese (Tiragallom, 1999).

Investire sull’innovazione e sull’informazione-formazione per non piangere più sul latte versato: un caso studio sulle strategie aziendali del Gruppo Latte Arborea

Lo studio di caso sul Gruppo Latte Arborea è stato condotto con un approccio etnografico che ha richiesto l’immersione del ricercatore nel gruppo sociale oggetto di studio per gettare le basi di un clima di fiducia propedeutico all’avvio della ricerca (Corbetta, 1999; Fabietti, 1999; Piasere, 2002). Le tecniche utilizzate variano dall’osservazione partecipante con sopralluoghi nel centro abitato e in agro di Arborea, alle interviste non standardizzate a testimoni privilegiati fino a comprendere la disamina di fonti documentarie, tra cui dati secondari e articoli di giornale.

Data la conoscenza del territorio e della sua specificità socio-economica, il quadro teorico che ha guidato l’individuazione dei testimoni privilegiati non è rimasto confinato al solo contesto aziendale, ma esteso all’intera comunità. In considerazione di ciò, abbiamo orientato la riflessione teorico-operativa sulla base della tripartizione della nozione di capitale: economico (Marx, 1867), umano (Becker, 1964), sociale (Hanifan, 1916; Bourdieu, 1986; Donati, 1994). In virtù di detta impostazione, partendo dalla nozione di campo[2] di Bourdieu (1992), abbiamo individuato quali stakeholders principali i seguenti attori: 1 Responsabile dell’Area Sostenibilità dell’impresa in argomento, l’Amministrazione comunale, 1 lavoratore, 1 lavoratore membro della Rappresentanza Sindacale Unitaria (d’ora in poi RSU) e 1 socio allevatore[3].

Il riferimento al concetto di campo si considera fondamentale nell’articolazione del contributo in oggetto, per la decodificazione del tessuto sociale ove si inserisce l’azienda di cui si tratta, in quanto frutto di relazioni delle catene migratorie venete, succedutesi nell’immediato dopoguerra. Forte è l’elemento della territorializzazione che, per dirla con le parole di Turco (1988), si esprime nella delineazione delle traiettorie di sviluppo con cui le comunità che si insediano in un determinato luogo interagiscono, percependo del contesto le specificità e la sua peculiare natura. Come attribuiscono simboli alle risorse, come reificano e organizzano lo spazio disponibile? Corollario di detto elemento è il concetto di prossimità relazionale (Battaglini 2014) quale variabile capace di produrre esternalità positive (Fossati, 2000) come la cooperazione in senso stretto, intesa come prodotto del coordinamento e del controllo reciproco fra unità produttive, derivante dal comune senso di appartenenza o dall’abitudine ai contatti ripetuti.

L’intreccio tra capitale sociale, capitale umano, capitale economico come vettori di sviluppo del Gruppo Latte Arborea

Il primo stabilimento del gruppo aziendale in esame nasce nel 1956 ad Arborea, un comune della provincia di Oristano in Sardegna ubicato nella regione del Campidano di Oristano[4]. Durante il regime fascista fu completata la bonifica della piana di Terralba, già avviata in età giolittiana. Arborea fu concepita come centro urbano di tale bonifica, ma si dovette attendere il secondo dopoguerra perché il progetto fosse realizzato completamente, quando la malaria, secolare piaga dell'area, fu debellata grazie all'opera della Fondazione Rockefeller che finanziò una vasta opera di bonifica (Angioni, 2004).

Al 31.12.2016 Arborea conta 3.910 abitanti, 1.503 famiglie e un tasso di natività che si aggira intorno all’8.1%. Allo stato attuale la popolazione conta 3.873 abitanti, facendo registrare un trend negativo rispetto alle annualità precedenti[5]. Oltre all'italiano e al sardo-campidanese, ad Arborea è parlato anche il veneto, portato dai migranti delle zone di Treviso, Rovigo, Vicenza, Padova e Venezia, arrivati a seguito della bonifica voluta dalla Società Bonifiche Sarde (d’ora in poi SBS).

Da sempre, il paese si contraddistingue per una dualità territoriale tra campagna e centro abitato che determina non pochi risvolti sotto il profilo dell’amministrazione dei beni pubblici locali. Arborea si contraddistingue per essere un “Comune progettato sulla carta” nel 1918 con la SBS per sanare un territorio molto vasto. Se oggi il capitale sociale e le reti solidaristiche rappresentano un punto di forza per lo sviluppo del paese, l’arrivo delle prime famiglie di immigrati dal Veneto non incontrava allora il favore di una benevola accoglienza da parte della popolazione locale e neppure agevoli soluzioni abitative e lavorative. Le catene migratorie erano sostenute dalla promessa di un terra fertile, nonostante l’operazione di bonifica fosse ancora in pieno svolgimento. Emblematico era il ruolo della donna all’interno e all’esterno della gestione del ménage familiare e aziendale. Le donne venete venivano guardate con un velo di sospetto dalle donne sarde, perché apparivano troppo emancipate dal punto di vista culturale: si spostavano autonomamente per le vie del paese con l’utilizzo disinvolto della bicicletta, indossando la gonna; inoltre, costrette a lavorare con ritmi estenuanti, portavano i figli piccoli nei campi[6].

La linfa vitale che oggi alimenta i rapporti sociali ed economici è rappresentata dalle reti di solidarietà consolidatesi nel corso della storia dell’insediamento delle famiglie venete ad Arborea. Un elemento, questo, che emerge con la sua forza dirompente anche tuttora oppure ai nostri giorni nella gestione di eventi collettivi quali sono le emergenze e le calamità naturali del nostro tempo: basti pensare alle segnalazioni di privati cittadini che pervengono agli uffici comunali affinché si intervenga in favore di famiglie bisognose di assistenza[7]. Considerevoli sono stati inoltre gli interventi degli allevatori che, nel 2013, giunsero nel territorio di Terralba con le proprie autobotti per aiutare la popolazione a far fronte ai gravi danni causati dalla disastrosa alluvione, non mancando però di organizzare, contestualmente, il lavoro all’interno delle proprie aziende.

Una realtà locale, quella in argomento, che si nutre di reti e di relazioni fiduciarie tra i cittadini, oltre che tra questi, l’Amministrazione comunale e le realtà aziendali. Il riferimento è a relazioni fiduciarie frutto dello spirito di adattamento e sopravvivenza dei primi immigrati veneti, trasmesso anche alle generazioni successive. Un surplus che, nel tempo, ha portato a una ruralizzazione di queste terre spopolate, con l’accumulazione di un capitale sociale saldamente legato alla dimensione più strettamente comunitaria, capace di garantire una migliore qualità della vita quotidiana delle persone (Di Nicola et al., 2008). In un tale contesto, il capitale sociale (Hanifan, 1916; Bourdieu, 1986; Donati, 1994) diventa ascrivibile al complesso di beni intangibili che hanno valore più di ogni altro nella vita quotidiana delle persone: la buona volontà, l'appartenenza a organizzazioni, la solidarietà, i rapporti sociali tra individui e famiglie che compongono un’unità sociale. La ricchezza o la povertà di questa comunità passa quindi, per dirla con Bruni (2004), attraverso un viaggio guidato da legami sociali che fungono da beni capaci di produrre nel contempo benessere all’interno delle relazioni umane e sviluppo locale in termini economici[8].

La Società Cooperativa Assegnatari Associati Arborea (d’ora in poi 3A)[9] nasce in questo contesto, per valorizzare il latte prodotto dai soci e gestirne la commercializzazione diretta attraverso una forma aziendale di tipo cooperativistico[10]. Nel 2018 l’azienda conta 224 soci, 415 dipendenti, 200 milioni di latte bovino sardo e 7 milioni di latte caprino lavorato, nonché 182 milioni di fatturato. Ogni giorno raccoglie una media di 530 mila litri di latte, prodotto in allevamenti specializzati che contano oltre 40.000 bovini di razza Frisona e Brown Swiss.

La 3A rappresenta il principale attrattore a livello locale e internazionale; questa cooperativa intrattiene, con l’associazionismo locale e le istituzioni pubbliche, rapporti improntati alla trasparenza e alla sostenibilità socio-economica. Non manca, infatti, con la donazione di prodotti locali e incentivi economici, di sponsorizzare iniziative profit e non profit del territorio. È la principale organizzazione con cui il territorio riesce a far fronte alla piaga isolana (e non solo) della disoccupazione e a promuovere la propria immagine, anche grazie alla programmazione delle visite di scolaresche provenienti da tutta la Sardegna nel suo stabilimento principale di Arborea.

La costituzione della 3A deve la sua nascita al versamento delle quote di capitale da parte dei soci allevatori che rappresentano il capitale umano del processo di sviluppo. Parliamo delle aziende agricole familiari[11] dislocate in agro di Arborea che si contraddistinguono per l’applicazione di modelli gestionali improntati al contestuale perseguimento di obiettivi di natura economica ed extraeconomica (Idda, Pulina, 2011).

Nella gestione di queste aziende i vettori fondanti lo sviluppo sono: la solidarietà intergenerazionale, il benessere animale e la circolarità delle informazioni con lo stabilimento caseario di Arborea. La solidarietà intergenerazionale, alimentata dal supporto operativo della famiglia allargata, permette di rendere auto-sostenibili processi come quello dell’insilamento, per il cui compimento sono richieste non poche braccia. Il benessere animale è garantito con l’ausilio del tecnico alimentarista del settore zootecnico e del veterinario aziendale, individuati dall’azienda per il monitoraggio del bestiame e della cura del mangimificio aziendale.

Al fine di rendere sostenibili le aziende socie sotto il profilo economico, la 3A ha deciso di implementare le strategie capaci di agire sulle “menti” dei manager allevatori e di fornire “strumenti” per una efficace gestione imprenditoriale. Le aziende del territorio sono gestite da allevatori con uno spiccato spirito manageriale che, per essere tenuto vivo, necessita della programmazione di incontri tecnici e formativi, finalizzati ad aggiornare, condividere ed incrementare le necessarie competenze zootecniche, economiche e finanziarie. Per quanto riguarda gli “strumenti”, la 3A ha messo a disposizione delle proprie aziende di allevamento un software amministrativo popolato con i dati provenienti dalle fattorie dei soci. Il software, denominato “Ecostalla”, consente di disporre del conto economico della stalla e della campagna[12]. Vi è poi il software gestionale “Arborea Farm” che permette agli allevatori di tenere sotto controllo le statistiche produttive, riproduttive e sanitarie della propria mandria.

La strategia di sviluppo aziendale della 3A si articola in cinque macro aree: 1) migliorare la presenza nell’isola; 2) creare e sviluppare nuovi prodotti; 3) strategie di brand; 4) rafforzamento dello sviluppo nella penisola; 5) crescita dell’export. Latte Arborea conserva una posizione di leadership nei segmenti di mercato e nei territori in cui opera, grazie a strategie di presidio e di sviluppo che si fondano sulla capacità di affiancare agli obiettivi di business una costante volontà aziendale di mantenere saldo il rapporto con il territorio. È la più grande azienda agricola dell’isola, con i suoi 205 milioni di latte raccolto nel 2017; si colloca al quarto posto per la produzione di latte alimentare, preceduta nel podio soltanto da Parmalat, Granarolo e Sterilgarda[13].

Dal punto di vista economico oggi è riduttivo il riferimento alla Società Cooperativa Agricola per Azioni perché, con l’avvio del recente processo di internalizzazione seguito delle recenti acquisizioni aziendali, sono stati valicati i confini regionali e conquistati i mercati italiani ed extra UE fino a consentire il riferimento ad un gruppo aziendale. L’ascesa economica prende avvio nel 2013, con l’acquisizione delle Fattorie Girau che ha aperto il mercato nel settore ovino-caprino e prosegue nel 2018 con l’acquisizione dello stabilimento San Ginese e della Trentinalatte, specializzata nella produzione di yogurt. L’azienda ha, allo stato attuale, quattro stabilimenti con sede a Arborea, San Gavino (Sardegna), Capannori (Toscana) e Roverè della Luna (Trentino Alto-Adige). Nello stabilimento di Arborea si produce il core business dell’azienda: il latte fresco pastorizzato vaccino e caprino, il formaggio Dolcesardo, le mozzarelle, il burro e la panna. Questi prodotti sono realizzati anche nella formula alta digeribilità con cui il lattosio viene scisso in due zuccheri semplici, glucosio e galattosio, più facilmente assimilabili dall’organismo per chi manifesta un’intolleranza allo zucchero principale del latte. Nella sede casearia di San Gavino si producono formaggi ovino-caprino e misto, nonché il Gran Campidano, formaggio con stagionatura minima di 14 mesi, prodotto da latte vaccino 100% sardo, senza additivi e adatto alla dieta vegetariana. Nello stabilimento di Capannori si pastorizza il latte destinato alla produzione del latte fresco, mentre la sede casearia del Trentino Alto-Adige è destinata alla produzione dello yogurt.

Sotto il profilo organizzativo, l’organigramma aziendale si presenta alquanto articolato e dinamico rispetto alle competenze dei professionisti che rivestono le posizioni apicali[14]. Le strategie di governance alla base del business plan dell’azienda prevedono un CDA composto da nove allevatori, un Direttore Generale, un Direttore vendite Italia e sei responsabili: vendite estero, risorse umane, amministrazione, settore marketing, area soci, affari legali. Fondamentale per l’innovazione dei prodotti e delle strategie aziendali è l’area Ricerca e Sviluppo nonché la collaborazione con il Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Cagliari per l’analisi dei fabbisogni energetici delle stalle e con la Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Sassari attraverso un rapporto pluriennale basato su una ricerca continua anche nelle aziende di allevamento.

Il capitale umano costituisce per l’azienda uno dei principali motori di sviluppo da formare, aggiornare, salvaguardare. La conferma di un tale orientamento trova riscontro nell’applicazione del CCNL per i lavoratori dipendenti da cooperative di trasformazione agro-alimentare e zootecnico, nonché dell’accordo integrativo 2013-2015, con cui si prevedono diversi benefit per il personale[15].

La formazione rappresenta un importante investimento nello sviluppo delle conoscenze dei lavoratori che l’azienda intende valorizzare in una visione complessiva e con un’attenzione alla persona, inserita non solo in un contesto aziendale ma anche sociale e familiare. Questa triplice attenzione al lavoratore garantisce lo sviluppo di particolari tutele contrattuali: pari opportunità, banca ore e straordinari, premio legato ad obiettivi. I lavoratori costituiscono il fattore umano da valorizzare con appositi incontri formativi e informativi, a partire dalle modalità di organizzazione delle richieste di approvvigionamento dei prodotti fino a includere le best practices necessarie per l’organizzazione del personale di ogni singolo reparto.

Le strategie organizzative sono guidate da tre variabili: brand, crescita, innovazione. La prima, per evitare che il marchio si chiuda in un recinto troppo regionalistico, ha portato all’ideazione di un nuovo logo che unisce alla realtà tutta sarda le nuove acquisizioni aziendali. Il logo del gruppo vede il marchio Arborea scritto in maiuscolo blu su sfondo bianco e sotto, a evidenziare la vocazione sempre più internazionale della cooperativa, campeggia la dicitura The Italian dairy company – since 1956, destinata a garantire un’identità di marchio e attribuire un’unica anima all’azienda. La seconda richiede interventi di studio sui territori: il lancio sul mercato isolano della base per la realizzazione del gelato, ad esempio, non ha sortito gli effetti auspicati ma, attraverso l’analisi della domanda di mercato, si conta di iniziare a distribuire il prodotto negli Stati Uniti. La terza prevede interventi diretti a intercettare la domanda dei consumatori. L’innovazione è un importante motore della crescita economica: migliora la produttività del capitale e del lavoro, innescando circoli virtuosi di investimento, reddito e risparmio, che portano a ulteriori investimenti. Con la riduzione dei costi o la differenziazione del prodotto, l’innovazione è la più importante arma competitiva. Eppure, è ancora una pratica poco compresa, nonché un fenomeno complesso e diversificato.

Tra la metà del 2015 e fino al 2016 si è verificato un profondo tracollo del prezzo del latte vaccino, pagato ai soci per 36 centesimi al litro. Il 2017 si è chiuso con una media di 42 centesimi al litro, iva esclusa. C’è stata una drastica riduzione dei consumi anche da parte dell’Asia e, in particolar modo, della Cina. La domanda dei prodotti caseari era in calo, mentre si assisteva a una contestuale sovrapproduzione del latte. Come individuare la soluzione per questo problema? Il gruppo aziendale ha risposto alla crisi mettendo in campo l’innovazione, puntando cioè sulla differenziazione del prodotto e commercializzando il Gran Campidano, registrando tra i consumatori il successo auspicato.

Nell’ambito della sostenibilità economico-ambientale si inserisce altresì la creazione di una filiera energetica, ovvero di un impianto di rigassificazione GNL con cui è possibile l’utilizzo del gas naturale liquido come fonte energetica alternativa e la collaborazione tra CPL Concordia e POLARGAS. Attualmente lo stabilimento di Arborea copre quasi il 60% del fabbisogno elettrico attraverso l’impianto fotovoltaico e il cogeneratore[16].

La sostenibilità sociale si basa sul progetto pilota che cura il passaggio generazionale all’interno delle singole aziende. Il progetto prevede la figura di un esperto, incaricato di verificare come le generazioni stanno convivendo tra loro, in modo tale che il “passaggio di testimone” possa garantire la continuità lavorativa nella singola azienda e, contestualmente, l’adesione di nuovi soci nel gruppo aziendale.
Seguendo questa logica aziendale, il lavoro non si limita a essere mero strumento al servizio della società, per il fatto che costruisce e modella i confini delle comunità locali, dove le relazioni umane sono intese come linfa vitale per lo sviluppo dello stesso tessuto socio-economico (Pisu, 2018).

Oltre i tavoli di filiera tra governo e pastori: la strada possibile verso l’innovazione dei prodotti e delle capacità imprenditoriali

Con lo studio di caso della 3A e del territorio in cui la stessa è inserita, abbiamo voluto evidenziare un modello d’impresa che, pur non identificandosi nell’impresa sociale e cooperativa di comunità, ha mobilitato un’intera collettività, facendo leva sul capitale sociale come catalizzatore del benessere individuale e dello sviluppo locale.

Attraverso la produzione di beni relazionali, che nel tempo si sono intensificati in una comunità di immigrati dal Veneto, comunità segnata dal carattere della coesione, si afferma anche un modello di business che, a partire da condizioni di estrema difficoltà, è riuscito progressivamente a creare valore, benessere e surplus economico. In questo modo, tenute pure in conto le distinte, distanti e non comparabili esperienze dei settori bovino e ovino, abbiamo cercato di capire l’importanza di uscire dal gregge per sopravvivere, dovendo però reinventare nuove forme di solidarietà e coesione.

L’attuale frammentazione dei caseifici e delle stesse cooperative di allevatori del comparto ovino sembra quasi lo specchio di una cultura impregnata di elementi comportamentali che si traducono nell’immobilismo dei territori. Uno di questi è l’invidia (Bottazzi, 1999) che produce effetti funesti rispetto al bisogno di produrre sviluppo nelle aree a rischio di desertificazione, ponendosi in antitesi con le azioni improntate sull’imprenditorialità, sulla collaborazione e sull’innovazione. Le non-azioni che questa particolare inclinazione ripercuote nei territori, se non adeguatamente tenuta a bada, concorre a rendere ancora più insormontabili i confini tra i territori, impedendo la circolarità delle informazioni (Pisu, 2018) e la diffusione di quei beni relazionali (Zamagni, 2007) come la fiducia e la gratuità, che costituiscono il prodotto o l’effetto di relazioni sociali concrete, capaci di modificare le volontà degli stessi attori (Donati, 2005).

Come è possibile individuare quei fattori che promuovano lo sviluppo delle qualità manageriali dei giovani pastori nelle aree a rischio di spopolamento? Potremmo tentare di dare una risposta a questa domanda avanzando una serie di ripensamenti, anche solo riguardo a: significato di lavoro, revisione dei ruoli professionali intra ed extra-familiari nelle aziende agricole familiari, innovazione produttiva. Ci troveremmo infine ad assegnare all’attività produttiva, in questi casi, la funzione di rispondere a bisogni, non solo riconducibili al reddito ma alla stessa qualità della vita (Porcellini, 2013). Ciò considerato, la ricerca di soluzioni dovrebbe puntare sulla formazione e informazione dei giovani allevatori, affinché possano garantire non solo “il passaggio del testimone” all’interno dell’economia familiare ma anche, con il necessario supporto degli attori istituzionali, l’impegno personale nell’ambito dello sviluppo, della ricerca e dell’innovazione. Innovazione intesa come spirito imprenditoriale attivo, capace di far fronte alle fisiologiche crisi di mercato, con la diversificazione dei prodotti del mondo caseario e l’individuazione degli sbocchi commerciali possibili. In un tale percorso di rinnovamento, i pastori sardi non possono e non devono essere lasciati soli. Le possibili soluzioni a quello che potremmo definire “isolamento operativo del comparto ovino” richiederebbe una guida, rappresentata da una potenziale cabina di regia istituita dalla RAS, deputata a fornire un’azione di coordinamento tra le varie cooperative isolane; richiederebbe appositi corsi di informazione e formazione ai giovani imprenditori, per individuare nuovi prodotti di nicchia che possano valicare i confini sardi.

Quali sono le variabili socio-demografiche in gioco, le forme di exit/voice e i principali punti di forza e debolezza delle politiche pubbliche? Per rispondere alla sfida delle aree interne (Barca, 2015) e favorire il controesodo delle intelligenze locali che abbandonano l’isola per trovare fortuna e riconoscimento altrove, occorre un ripensamento delle infrastrutture sociali ed economiche nei territori soggetti a spopolamento. Un ripensamento che implica importanti questioni di governance per tutti i soggetti istituzionali impegnati nella progettazione, nella messa in atto e nella gestione dei servizi stessi, in termini di accrescimento della dotazione di capitale sociale necessaria ad alimentare quei legami tra i cittadini che, creando reti di relazioni, sono in grado di produrre sviluppo non solo economico. Con l’emanazione della L.R n. 35/2018 sulle azioni generali a sostegno delle cooperative di comunità, intese come strumento di crescita di quelle aree rurali “deboli” perché investite dal fenomeno dello spopolamento, abbiamo per ora solo il framework di un disegno politico territoriale di tipo strutturale. Dopo aver pianto sul latte versato, si tratta ora di capire quali siano i fenomeni/fattori di catalizzazione della nascita di imprese sociali, la cui fondazione è in genere preceduta da forme associative e da informali, ma solide, relazioni di fiducia tra membri della stessa classe sociale.

Il settore caseario, per poter rendere operativo detto strumento, necessita di infrastrutture materiali su cui reggersi. Non bastano i tardivi e rituali tavoli di filiera governo-pastori: le politiche pubbliche dovrebbero ripartire dallo sviluppo endogeno delle comunità, per creare laboratori di opportunità imprenditoriale. Negoziare cioè non solo un nuovo prezzo del latte ma creare, nelle menti dei pastori sardi, un rinnovato spirito imprenditoriale fondato su capacità (Sen, 1992) e conoscenze specifiche del settore: affinché la protesta non si nutra più di un’assordante confusione corale degli allevatori ma di un’armonica dialettica tra pastori, territori, consumatori, politica, prendendo spunto dalle village cooperatives di Weingrod e Morin (1971).

Infatti, i pastori sardi non sono solo coloro che, per amara disperazione, hanno sversato il latte nella strade: sono uomini e donne che necessitano di essere guidati verso il cammino dell’innovazione con infrastrutture materiali capaci di regolare (Piga, 2012) la crescita economica di queste “piccole patrie” (Deriu, 2012) rappresentate dalle aree interne dell’isola. Uscire dal gregge non significa abbandonare la comunità per salvarsi da soli, ma vuol dire trasformare la pastorizia, integrata con un’agricoltura foraggera, in una lavorazione moderna di latte, formaggio, carne e prodotti agro-alimentari, secondo iniziative che possano essere organizzate in cooperative, nel più ampio quadro di un’ISC.

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Atti normativi

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DGR n.6/13 del 10.02.1025 avente ad oggetto la “Sperimentazione della Strategia nazionale per le Aree Interne. Individuazione e selezione aree interne della Sardegna, presa d'atto del ‘Rapporto di Istruttoria per la Selezione delle Aree Interne’ del CTAI-DPS e individuazione Area Prototipo Sardegna”.

L.R. n. 2 Agosto 2018, n. 35 avente ad oggetto le “Azioni generali a sostegno delle cooperative di comunità”.

Altre fonti documentali

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Note

  1. ^ In tal senso si rimanda alla DGR n.6/13 del 10.02.2015 avente ad oggetto la “Sperimentazione della Strategia nazionale per le Aree Interne. Individuazione e selezione aree interne della Sardegna”, presa d'atto del “Rapporto di Istruttoria per la Selezione delle Aree Interne del CTAI-DPS e individuazione Area Prototipo Sardegna”.
  2. ^ La nozione di campo fu utilizzata da Bourdieu, per la prima volta, in un articolo del 1966 in cui lo studioso spiegava che ragionare in termini di campo significa pensare in maniera relazionale. In termini analitici, un campo può essere definito come una rete o una configurazione di relazioni oggettive fra posizioni.
  3. ^ L’accesso al campo (Bichi, 2004) ha richiesto l’invio di formali richieste di disponibilità ai testimoni privilegiati per la realizzazione di interviste non strutturate. Per la ricostruzione dello studio di caso si ringraziano, per la cortese disponibilità, la Sindaca del Comune di Arborea (dr.ssa Manuela Pintus), la Cooperativa 3A (Direttore Generale dr. Francesco Casula, il dr. Emiliano Attardi, il sig. Massimo Ferniani, i lavoratori intervistati), l’azienda agricola Boschetto Elio, Mauro & Figli.
  4. ^ Fondata durante il ventennio fascista dividendosi da Terralba e inaugurata il 29 ottobre 1928 come Villaggio Mussolini, fu rinominata Mussolinia di Sardegna con R.D. n.1869 del 29 dicembre 1930. La denominazione venne modificata in Arborea l'8 marzo 1944, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del provvedimento di variazione contenuto nel R.D. n.68 del 17 febbraio 1944 (Angioni, 2004).
  5. ^ In tal senso si rimanda al sito www.comuni-italiani.it
  6. ^ Nel corso del tempo, così come evidenziato dagli studi di genere nel mondo agricolo (Whatmore, 1994; Montresor, 1997), l’impegno della donna nella gestione dell’azienda agricola familiare acquisisce una funzione sempre più differenziata ed estesa alla sfera produttiva dell’economia familiare, con la partecipazione attiva e talvolta autonoma ad alcune fasi della gestione aziendale (Sachs, 2006).
  7. ^ Si pensi, ancora, all’istituzione informale del gruppo di volontari denominato “Pronto Botti Intervento” coordinato nel 2017 dalla Sindaca per l’operazione di ripristino del fieno bruciato in agro di Arbus attraverso lo stoccaggio, la raccolta e la donazione di balle di fieno agli allevatori sardi vittime dell’accaduto.
  8. ^ Il forte legame con le proprie origini, da sempre manifestato da questa comunità ha portato, nel 2018, da parte della Regione Veneto, l’inserimento di Arborea nel registro dei comuni onorari del Veneto. In tal senso si rimanda a www.regione.veneto.it.
  9. ^ L’azienda in argomento si caratterizza per essere una società cooperativa a mutualità prevalente, quale forma giuridica che prevede il rispetto di due requisiti fondamentali: 1) un requisito di natura gestionale per cui l’attività caratteristica deve svolgersi per più del 50% con i soci; 2) un requisito di natura formale per cui lo statuto della cooperativa deve contenere specifiche clausole di non lucratività (Di Diego, 2012).
  10. ^ Il primo figlio di assegnatario della Bonifica a entrare nel caseificio fu Carlo Panetto. L’azienda era stata fondata dai soci Settimo Boschetto, Alberto Cicagna, Gino Durigan, Angelo Fiandri, Erminio Genghini, Francesco Liverani, Cesare Milan, Ottorino Panetto, Giovanni Sardo, Carlo Soffiato, Carlo Soranello, Mario Stevanato e Angelo Trevisan. Questi tredici soci con la loro tenacia hanno istituito il caseificio con l’atto di fondazione registrato presso il notaio Antonio Pippia di Oristano (Panetto, 2011).
  11. ^ La forma giuridica dell’azienda oggetto di studio è Società Agricola Sociale semplice, profondamente innovata dal legislatore con il D.Lgs. del 29 marzo 2004 n. 99. La riforma dell’impresa agricola, così come evidenziato da Frascarelli (2007) prevede che tali società possano essere costituite nella forma di società di persone (società semplici, s.n.c. o s.a.s.), società di capitali e cooperative e avere come oggetto esclusivo l’esercizio dell’agricoltura e delle attività connesse e la loro ragione sociale deve sempre contenere l’indicazione “società agricola”.
  12. ^ Ecostalla è un software per la gestione dei costi e della produzione ma anche strumento funzionale alla redazione del quaderno di campagna e alla certificazione della filiera controllata (Ruccia, 2008).
  13. ^ Top 500 in Sardegna: la 3A Arborea in Asia per crescere
  14. ^ La 3A si articola principalmente in tre macro divisioni: consumer (tutti i prodotti destinati ai consumatori); industriale (ingredienti); sostenibilità (economica e sociale).
  15. ^ Importante è il riconoscimento assegnato alla RSU attraverso la programmazione di incontri periodici con il sistema aziendale finalizzati sia a momenti di formazione e informazione, sia a incontri inerenti i siti produttivi e filiali. Allo stato attuale l’organismo si compone di sei membri eletti dai lavoratori, ha durata triennale ed è coordinato da una figura nominata dalla segreteria territoriale di categoria.
  16. ^ In tal senso si rimanda al sito www.cpl.it
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