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ISSN 2282-1694
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Numero 14 / 2019

Saggi

L’impresa sociale: una direzione di evoluzione della sharing economy oltre il platform capitalism?

Rocco Frondizi, Nathalie Colasanti, Marco Meneguzzo

Abstract

La sharing economy è un argomento fortemente controverso a causa della sua presunta capacità di riformare il capitalismo: a tale argomentazione si oppone quella secondo cui, invece, essa rappresenta una mera evoluzione dello stesso in direzione del platform capitalism (Srnicek, 2017; Vecchi, 2017). Per Vecchi, la sharing economy si caratterizza per la capacità di appropriarsi delle pratiche collettive di cooperazione sociale attraverso l’uso di applicazioni e piattaforme che, in molti casi, sono controllate da un numero ristretto di soggetti. La domanda di ricerca alla base del paper è quindi se la forma e la sostanza dell’impresa sociale possano rappresentare una direzione di evoluzione dei meccanismi di sharing economy al di fuori del capitalismo di piattaforma. Per fare ciò, in primo luogo costruiremo il framework teorico dell’articolo, quello della sharing economy, di cui analizzeremo origini, sviluppo, attori principali e modalità di funzionamento. All’interno di questo quadro, e ai fini dell’analisi successiva, differenzieremo la sharing economy dalla gig economy, un modello basato sulla fornitura di lavoro on demand mediante applicazioni e piattaforme online. Per rispondere alla domanda di ricerca del paper, costruiremo un quadro basato sulle sovrapposizioni e compatibilità tra le imprese e le piattaforme operanti nell’ambito della sharing economy e il modello dell’impresa sociale; effettueremo anche una mappatura di tali piattaforme nel panorama nazionale. Riteniamo, infatti, che la trasformazione di tali piattaforme in imprese sociali o in cooperative sociali potrebbe presentare un’opportunità di riappropriazione dei meccanismi di solidarietà e utilizzo efficiente delle risorse, nonché di rendere più coerente il tipo di attività svolta con la forma organizzativa adottata.

DOI: 10.7425/IS.2019.14.03

Introduzione

La sharing economy, o economia della condivisione, rappresenta uno dei fenomeni più rilevanti dell’ultimo decennio, sia in termini economico-finanziari che per quanto riguarda gli aspetti socio-culturali. Da un lato, infatti, il valore di mercato di imprese come Uber e Airbnb (che tradizionalmente vengono ricondotte all’ambito della sharing economy, seppur in maniera imprecisa) si attesta rispettivamente a 89 e 31 miliardi di dollari, mentre il giro d’affari riconducibile alla sharing economy, in Italia, ammonta a 3,5 miliardi di euro (Aquaro, Dell’Oste, 2017); dall’altro, la diffusione di questo nuovo modello ha fatto parlare di superamento del capitalismo e del consumismo, e si inserisce nel contesto della Quarta Rivoluzione Industriale. Al contempo, il tema non è esente da controversie sia per quanto riguarda l’effettiva sostenibilità economica delle imprese che se ne occupano, che per questioni relative all’accumulazione di dati e profitti (platform capitalism) e allo sfruttamento di chi attraverso tali imprese presta la propria attività lavorativa (Smorto, 2015). All’interno della sharing economy, o meglio in parallelo ad essa, esiste la gig economy (anche detta on-demand economy - Dagnino, 2015), l’economia del lavoretto: ne sono esempi proprio Uber, Airbnb, le piattaforme di consegna merci (Deliveroo, Glovo, Foodora) e quelle di crowdworking (ad esempio Taskrabbit e Mechanical Turk, che però non rientrano nel presente articolo). Tali imprese svolgono un’attività di intermediazione tra la domanda di beni e servizi e l’offerta di prestazioni lavorative o di risorse sottoutilizzate: spesso vengono presentate come esempi negativi di sharing economy, ma riteniamo che in realtà appartengano ad un altro ambito, diverso da quello della condivisione di risorse in eccesso e della promozione di una cultura dell’accesso. La gig economy, infatti, si basa sull’idea della monetizzazione di risorse sottoutilizzate (sia beni fisici come automobili e appartamenti che beni immateriali come il tempo, che si traduce in prestazione di lavoro) con l’obiettivo di integrare i propri guadagni, e si inserisce perfettamente nel quadro della crisi economica e della conseguente difficoltà nel trovare un’occupazione soddisfacente.

L’articolo, quindi, prende le mosse dal terreno controverso della gig economy e dal fenomeno del platform capitalism: una volta riscontrata l’esistenza di tali problemi all’interno dell’economia della condivisione, vogliamo verificare l’opportunità e la fattibilità di un incontro tra questa e la disciplina dell’impresa sociale. La condivisione di risorse, la riduzione degli sprechi e la promozione dell’accesso rispetto al possesso rappresentano alcuni dei pilastri fondamentali della sharing economy, e riteniamo che in essi possa ravvisarsi una finalità di utilità sociale piuttosto evidente. Cercheremo quindi di capire se e come sia possibile applicare la teoria dell’impresa sociale al fenomeno della sharing economy così da farlo evolvere in direzione di una maggior collaborazione e partecipazione. Non sono mancati negli ultimi anni appelli per mobilitare il Terzo Settore e rendere più “sociale” il mondo della sharing economy (Cimadamore, 2016), nonché per ragionare sull’opportunità di utilizzare l’impresa sociale come modello di business per questo nuovo tipo di attività; altri autori, invece, hanno visto nella sharing economy una potenziale spinta per innovare le imprese cooperative (tra gli altri: Como, Battistoni, 2015; Scholz, 2014; Schneider, 2015). Allo stesso tempo, però, poco sembra essersi mosso: nessuna piattaforma italiana della sharing economy ha adottato la forma cooperativa (Pais, Zandonai, 2018)[1], e sembra che solamente poche abbiano scelto di qualificarsi come imprese sociali. Pensiamo quindi che sia opportuno continuare a muoversi in questa direzione, operando però una distinzione netta tra sharing economy e gig economy, al fine di non alimentare l’opacità terminologica e concettuale che spesso si riscontra nelle discussioni su tali pratiche. Crediamo infatti che, mentre le attività di condivisione di risorse possano beneficiare dell’utilizzo del modello dell’impresa sociale, quanto rientra nel campo della gig economy abbia a che fare con cambiamenti e riassestamenti del modello lavorativo, ma non sia in sostanza diverso dalla normale attività di impresa for profit.

L’articolo sarà strutturato come segue: in primo luogo, verrà costruito il quadro teorico della sharing economy, descrivendone le origini, le definizioni, gli attori e le modalità di funzionamento; essa verrà poi distinta dalla gig economy, di cui chiariremo il significato e le implicazioni. Verrà anche chiarito il concetto di platform capitalism, che costituisce un elemento rilevante nella critica mossa alla sharing economy. Successivamente, presenteremo una breve mappatura delle piattaforme italiane operanti nell’ambito della sharing economy, operando una riflessione sui dati disponibili. Di seguito cercheremo di tracciare un quadro che possa collegare la fattispecie dell’impresa sociale al contesto dell’economia della condivisione, utilizzando la prima come strumento evolutivo per gli operatori del settore in direzione di un modello collaborativo che includa anche l’utilizzo di tali piattaforme. Infine presenteremo alcune osservazioni conclusive, le limitazioni della presente ricerca e i possibili sviluppi futuri.

Caratteristiche e contraddizioni della sharing economy

Nonostante l’attenzione in merito alla sharing economy sia cresciuta in maniera esponenziale negli ultimi anni, le pratiche di condivisione e collaborazione sono sempre esistite all’interno delle comunità umane, seppur a un livello diverso, più locale e fondato su rapporti personali di familiarità e conoscenza. Oggi, invece, il numero di potenziali soggetti con cui condividere è molto più elevato, e per collegarvisi è sufficiente accedere ad un’applicazione e basarsi sulle valutazioni fornite da altri utenti del servizio. I punti chiave che definiscono la sharing economy e la differenziano dalle tradizionali pratiche collaborative, quindi, sono tre: in primo luogo l’utilizzo di tecnologie digitali per connettere domanda e offerta, così da permettere un controllo in tempo reale delle risorse in eccesso; in secondo luogo, lo sfruttamento delle risorse in eccesso, che possono essere monetizzate dai proprietari o scambiate per altre risorse; infine, la costruzione di una comunità basata su recensioni verificate che possa costituire una base minima di fiducia da cui avviare la condivisione (World Economic Forum, 2017). Inoltre, non esiste un’unica definizione del concetto di sharing economy: potremmo esplicitarlo come l’insieme di “interazioni organizzate tramite cui le persone scambiano le proprie risorse in eccesso o inutilizzate, solitamente a fronte di un corrispettivo in denaro o della ricezione di un servizio” (World Economic Forum, 2017). Altrimenti, si potrebbe dire che la sharing economy rappresenta la tendenza a far prevalere l’accesso alle risorse sul possesso delle stesse.

Storicamente, ciò si è verificato nei periodi di minor benessere economico, in cui le persone sono più propense a condividere poiché hanno minore capacità di accedere individualmente a un ampio numero di beni (Volker, Flap, 2007): con il boom economico della seconda metà del Novecento, le pratiche di consumo collaborativo sono state progressivamente rimpiazzate dagli acquisti individuali o familiari (Agyeman et al., 2013). Alcuni autori fanno risalire l’origine della sharing economy alla diffusione di Internet negli ultimi due decenni, che avrebbe ricreato un sentimento di entusiasmo per la “comunità”, alle preoccupazioni ambientali, che spingono le persone a ridurre i propri consumi e la propria impronta sul pianeta, e alla recessione economica, che ha nuovamente spostato l’ago della bilancia in favore dell’accesso rispetto al possesso (World Economic Forum, 2017; Gruszka, 2017). In effetti la nascita delle principali piattaforme collegate alla sharing economy risale proprio al 2008, ovvero all’inizio della crisi economica, e senz’altro la riduzione del potere d’acquisto, combinata con la perdita di numerosi posti di lavoro, ha fatto sì che si cercassero soluzioni nuove alle necessità di consumo (ECORL, 2016).

Gli attori coinvolti nei processi di sharing economy sono molteplici. In primo luogo abbiamo i singoli utenti, che mettono in condivisione le proprie risorse o che accedono alle piattaforme per reperire ciò di cui hanno bisogno, e le comunità locali, nelle quali spesso prevale la condivisione informale tra conoscenti spinta da motivazioni ambientali e di risparmio. Poi, sono coinvolte imprese private for profit, non profit e imprese sociali: per le prime la spinta è l’ottenimento di un profitto dall’intermediazione e dalla promozione di attività di condivisione; per le altre due categorie invece prevalgono motivazioni di utilità sociale e preoccupazioni ambientali. Infine, troviamo le pubbliche amministrazioni e i governi, che utilizzano le strutture pubbliche per mettere in condivisione alcune categorie di risorse, e che hanno un ruolo centrale nella regolamentazione delle pratiche di sharing economy.

Le motivazioni che rendono possibile la condivisione possono essere distinte in tre categorie principali: quelle sociali, quelle economiche e quelle ambientali (World Economic Forum, 2017). Le prime hanno a che vedere con la possibilità di espandere la propria cerchia sociale, di mettere in pratica comportamenti altruistici e di ottenerne qualcosa in cambio. Le seconde si collegano, come anticipato, alla recessione economica e alla conseguente riduzione del potere d’acquisto, che rende poco conveniente o addirittura impossibile accedere a tutti i beni desiderati. Le motivazioni ambientali, infine, derivano dalle spinte verso stili di vita maggiormente sostenibili e dalle preoccupazioni, ormai ampiamente diffuse, relative al cambiamento climatico e più in generale all’impatto umano sul pianeta. È importante ricordare che alla base di tutto deve verificarsi una pre-condizione relativa alla tecnologia, ovvero alla presenza delle infrastrutture necessarie ad aumentare (potenzialmente all’infinito) il raggio della sharing economy, quali connessioni Internet a costi contenuti, disponibilità di smartphone e capacità di usare le applicazioni e le piattaforme su cui avviene la condivisione.

Un altro carattere rilevante della sharing economy è l’eterogeneità degli attori che si muovono al suo interno: ciò genera dibattiti in merito all’estensione dell’ambito stesso, e crea problemi di catalogazione di tali soggetti (Acquier et al., 2019). Mentre alcuni autori (Acquier et al., 2019) propongono di classificarli in base ai meccanismi che adottano per creare e distribuire valore, riteniamo che possa essere utile distinguere le attività in base allo scopo sottostante, ovvero la condivisione “civica e sociale” (Como, Battistoni, 2015) (motivata principalmente da ragioni di risparmio economico/di risorse e da considerazioni ambientali) e la monetizzazione delle risorse in eccesso (motivata dalla necessità di integrare il proprio reddito o comunque di ottenere redditi extra). In effetti, tale proposta si rispecchia nella distinzione tra sharing economy e gig economy, ovvero l’economia “del lavoretto”, i cui esempi principali sono Uber, Airbnb, Deliveroo, Foodora, Glovo e le piattaforme di crowdworking. La gig economy costituisce un ambito molto controverso, sia per l’assenza di regolamentazione che per le implicazioni a livello socio-economico. Da un lato, infatti, chi presta lavoro o risorse tramite piattaforme e applicazioni non è considerato un dipendente dalle piattaforme stesse, nonostante spesso esse abbiano un notevole potere di controllo sui ritmi e sulle possibilità lavorative di tali collaboratori: questa contraddizione genera un dibattito rilevante in termini di diritto del lavoro e di possibilità di applicare i contratti collettivi già esistenti a queste categorie di lavoratori. D’altra parte, la composizione demografica della “forza lavoro” della gig economy indica che si tratti sempre meno di lavoretti volti ad integrare redditi già esistenti (e il cui vantaggio principale è la flessibilità in termini di orari) e sempre più di lavori veri e propri, che spesso rappresentano l’unica fonte di reddito a disposizione di chi li svolge (per esempio, quasi il 40% di chi lavora tramite Mechanical Turk di Amazon ha un livello di istruzione elevato, e lavora unicamente tramite la piattaforma, Srnicek, 2017).

Secondo PwC (2016), le transazioni effettuate all’interno della sharing economy arriveranno a 570 miliardi di euro nel 2025, concentrandosi in cinque settori: finanza collaborativa, ospitalità, trasporti, servizi professionali e servizi per la casa on-demand. Emerge chiaramente che la crescita si avrà proprio nei settori tipici della gig economy (ad esclusione della finanza collaborativa): ciò potrebbe far luce sulle motivazioni che spingono le persone e le imprese ad aderire a questo modello economico. Per le prime, come detto in precedenza, si tratta della monetizzazione di risorse sottoutilizzate (automobili, appartamenti o tempo libero); per le seconde, invece, si tratta della possibilità di guadagnare dall’intermediazione di un numero estremamente elevato di transazioni, ottenendo allo stesso grandi quantità di dati, e di fatto non praticando alcuna redistribuzione dei guadagni derivanti da tali pratiche (come sostenuto da Vecchi, 2017). Parliamo quindi di platform capitalism, basato sull’estrazione e sull’utilizzo di grandi moli di dati (Srnicek, 2017) tramite piattaforme online, e sulla conseguente appropriazione a fini di profitto delle pratiche messe in atto dagli utenti sulle piattaforme stesse (Vecchi, 2017). Le piattaforme diventano un luogo privilegiato di produzione di valore, poiché si collocano nel mezzo degli utenti, agendo come intermediarie, e allo stesso tempo sono il luogo immateriale dove avvengono transazioni e interazioni. Srnicek (2017) definisce gli attori della gig economy “lean platforms”, piattaforme snelle, dal momento che non possiedono alcun bene fisico (per esempio automobili nel caso di Uber, appartamenti nel caso di Airbnb), ma sono proprietarie del software di raccolta ed analisi dei dati. È quindi chiaro che la retorica della condivisione tra pari, finalizzata a un utilizzo razionale e sostenibile delle risorse, sia in conflitto con una realtà in cui tale condivisione costituisce il prodotto offerto da imprese che beneficiano in maniera esclusiva, o comunque sproporzionata, dei profitti che risultano dagli scambi messi in atto dagli utenti.

La sharing economy in Italia

In questa sezione cercheremo di tracciare un quadro dell’economia della condivisione in Italia. Una prima osservazione che possiamo formulare riguarda la ridotta disponibilità di dati in merito: sembra che, dal 2017 in avanti, si siano fermate le attività di ricognizione che invece venivano effettuate in maniera regolare negli anni precedenti. L’ultima rilevazione disponibile (Mainieri, 2018) indica la presenza di 125 piattaforme collaborative in Italia nel 2017, e registra un’inversione di tendenza nel loro numero: dal 2014 al 2016, infatti, il numero di piattaforme era aumentato in maniera costante e consistente (+21% dal 2014 al 2015, +17% dal 2015 al 2016), mentre nel 2017 si registra una diminuzione del 9,5% rispetto all’anno precedente.

Per quanto riguarda gli ambiti di attività, i più diffusi riguardano i servizi alla persona ed i trasporti: il primo è in crescita dal 2015 al 2017 e fa registrare il maggior numero di nuove piattaforme (6), mentre il secondo è in netto calo. Uno degli ambiti di potenziale interesse per la nostra ricerca, quello alimentare, è mediamente diffuso (11 piattaforme nel 2015 e nel 2016), ma decresce nel 2017 (8 piattaforme).

La quasi totalità delle piattaforme (86%) fa riferimento in prevalenza a mercati locali o nazionali: anche questo aspetto potrebbe essere rilevante nel collegamento tra sharing economy ed impresa sociale, dal momento che soprattutto a livello locale può risultare più semplice individuare finalità di utilità sociale e mobilitare la comunità affinché partecipi al progetto ed utilizzi la piattaforma. Allo stesso tempo, circa la metà dei responsabili intervistati afferma di voler espandere la propria attività all’estero, soprattutto per poter accedere ad un bacino di utenti più ampio, anche perché le comunità che fanno riferimento alle piattaforme sono spesso piuttosto limitate (meno di 5.000 utenti).

Il panorama della sharing economy italiana, quindi, appare composto da tante piccole imprese attive a livello locale, che si occupano in prevalenza (ma non solo) di servizi alla persona, trasporti e attività culturali. Nessuna di esse si è strutturata come cooperativa (Pais, Zandonai, 2018)[2], e permane l’impressione che il settore continui ad essere trainato da imprese di capitali più che da iniziative civiche, come già evidenziato qualche anno fa da Como e Battistoni (2015).

Nel prossimo paragrafo vedremo se e come sia possibile applicare in tale contesto le logiche proprie dell’impresa sociale, così da fornire un’indicazione evolutiva chiara verso la promozione di finalità socialmente utili, piuttosto che verso il capitalismo delle piattaforme.

Impresa sociale e sharing economy: un binomio possibile?

La questione dell’equità della sharing economy è stata affrontata a più riprese, in convegni nazionali e internazionali, e sono stati mossi appelli affinché il Terzo Settore contribuisse a orientarla verso una direzione maggiormente sociale (Cimadamore, 2016). Allo stesso tempo, non sono disponibili dati certi su quante piattaforme italiane si registrino come imprese sociali (ammesso che ve ne siano); nessuna è organizzata in forma cooperativa (Pais, Zandonai, 2018), dunque la governance rimane sempre in mano a un numero ristretto di soggetti e mai a tutti gli utenti che di fatto producono valore, nonostante si sia già ragionato in passato sul tema del platform cooperativism, ovvero della governance cooperativa delle piattaforme di condivisione[3]. Questa, in effetti, rappresenterebbe una soluzione interessante relativamente alla proprietà e all’utilizzo dei dati generati dalle interazioni degli utenti. Allo stesso tempo, la forma giuridica adottata non sarebbe necessariamente vincolante, essendo quella di impresa sociale una “qualifica, in principio acquisibile da tutti gli enti privati” (Fici, 2017), legata allo svolgimento di attività di interesse generale che abbiano finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Tali attività vengono elencate nell’art. 2 del d.lgs. 112/2017, ma possono anche essere aggiornate come previsto al comma 2 dello stesso articolo, come sottolineato da Fici (2017). Riteniamo che un futuro aggiornamento potrebbe riguardare, per esempio, l’inserimento delle attività relative alla messa in circolo e condivisione di eccedenze alimentari, finalizzata alla riduzione degli sprechi e alla redistribuzione alimentare. In generale, allo stato attuale, sarebbe sufficiente che le attività gestite tramite la piattaforma rientrino tra i settori in cui le imprese sociali possono operare.

La volontà di adottare la qualifica di impresa sociale, da parte degli attori della sharing economy italiana, potrebbe dunque garantire che tali attività svolgano una finalità sociale; inoltre, potrebbe evitarsi l’appropriazione dei profitti derivanti da pratiche di condivisione (Vecchi, 2017) grazie alla normativa che richiede alle imprese sociali di vincolare gli utili allo svolgimento dell’attività statutaria. Del resto, l’archivio di startup collaborative raccolto su Collaboriamo.org presenta già numerose categorie che potrebbero ricoprire facilmente finalità sociali e di utilità generale (nonché ricadere nelle fattispecie previste dall’art. 2 del d.lgs. 112/2017), come l’abitare (5 piattaforme), la cultura (9 piattaforme), la formazione (5 piattaforme), i servizi alle persone (14 piattaforme) e alle imprese (5 piattaforme) e il turismo (11 piattaforme). Spesso, inoltre, le imprese della sharing economy operano in prevalenza a livello locale: possiamo quindi immaginare che siano ben ancorate nelle comunità territoriali di riferimento, e che questo possa rafforzare il carattere civico e “dal basso” della loro attività.

Ci sembra dunque che ci sia un ampio terreno comune tra la disciplina dell’impresa sociale e le iniziative di sharing economy “civiche e sociali” (come le definiscono Como e Battistoni, 2015), e che numerose piattaforme abbiano già orientato la propria proposta di valore verso attività socialmente utili e rilevanti. Rimane quindi da riempire il vuoto tra i due mondi, il quale potrebbe essere dovuto alla piccola dimensione delle piattaforme, oppure alla complessità o alla scarsa convenienza (reali o percepite) dell’adozione della qualifica di impresa sociale.

Conclusioni

Come specificato nella sezione introduttiva, l’articolo è a uno stadio di sviluppo iniziale, e si basa sulla proposta di proseguire nel solco tracciato da articoli pubblicati negli ultimi anni che spingono verso una maggiore equità nel campo della sharing economy, con l’obiettivo di evitare modelli “uberizzanti” unicamente basati sull’estrazione e accumulazione di valore da parte di un numero ristretto di soggetti (ovvero i proprietari delle piattaforme).

Si è visto come tra le soluzioni proposte rientri con frequenza l’intervento del Terzo Settore nella sharing economy, soprattutto per quanto riguarda le cooperative, che da diversi autori sono state considerate come una possibile soluzione al problema del platform capitalism (instaurando una governance collaborativa delle piattaforme di condivisione) ma anche come una categoria di enti che potrebbero beneficiare del portato innovativo (anche a livello tecnologico) del fenomeno della sharing economy. Il ruolo dell’impresa sociale, al contrario, è più sfumato, anche perché ad oggi nessuna impresa di sharing economy sembra aver adottato tale qualifica.

La presente ricerca vuole essere una proposta di discussione, più che un modello definitivo che risolva le controversie dell’economia della condivisione. I prossimi passi includeranno senz’altro l’aggiornamento della mappatura delle piattaforme e una ricognizione, ove possibile, delle motivazioni che le hanno spinte a non adottare la qualifica di impresa sociale. Riteniamo che il lavoro sul campo, insieme alle persone e alle imprese che animano il campo della sharing economy, sia essenziale al fine di costruire una prospettiva che riesca a superare il capitalismo di piattaforma e l’appropriazione da parte di pochi dei benefici generati da pratiche messe in atto a livello collettivo, con l’obiettivo di muoversi verso la promozione di iniziative civiche, solidali e sostenibili.

Bibliografia

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Note

  1. ^ La piattaforma Fairbnb è legalmente strutturata come cooperativa, ed i suoi fini sono sociali. Non la considereremo però ai fini di questo articolo poiché i membri della cooperativa non sono i fornitori del servizio e/o gli utenti dello stesso, ma i fondatori. Riteniamo comunque che l’approccio di Fairbnb rappresenti un’interessante innovazione nel panorama della sharing economy europea, e che grazie al suo impulso altre realtà potrebbero muoversi nella stessa direzione.
  2. ^ Si veda Nota 1.
  3. ^ All’estero, invece, la situazione è diversa e più avanzata, ed esistono già numerose cooperative di lavoratori che gestiscono piattaforme finalizzate alla creazione e gestione di lavoro (Ciccarelli, 2016). Si tratta quindi di situazioni in cui la cooperativa include i produttori (di lavoro), che sono anche utenti della stessa poiché la impiegano come strumento per offrire la propria forza lavoro.
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