Le innovazioni disruptive che emergono dalla rivoluzione digitale in corso portano indubbiamente il segno dell’energia individualistica degli esploratori che, partendo dal “garage”, sono riusciti a proporre soluzioni di successo, diventando in pochissimi anni grandi capitalisti e “padroni della rete”. Però, nella transizione digitale, le energie individuali che emergono sono anche quelle degli user, ossia di tutti coloro che usano le piattaforme digitali per avere informazioni, tessere relazioni, offrire o acquistare on demand, portare avanti idee di business, interagire con altri nella messa a punto di progetti condivisi, creare e propagare significati. E, alla fine, generare valore nella rete, come frutto delle tante iniziative nascenti dal basso.
L’individualismo, dunque, non è tutto. In effetti, nelle reti digitali stanno anche prendendo forma legami sociali di condivisione delle risorse, delle conoscenze e dei problemi da affrontare. La relazione on line non si limita, in effetti, a mettere in contatto persone o imprese che restano chiuse nel loro isolamento, come parti di sistemi o ecologie circoscritte. Ma è una relazione che consente alle persone di creare significati, progetti, e percorsi di realizzazione condivisi, coinvolgendo nel legame sociale così creato gruppi più o meno grandi di partecipanti. Non per niente i cosiddetti “social” (come Facebook, Twitter, Whatsapp, LinkedIn e altri) sono al centro delle comunicazioni e interazioni in rete, dando luogo a gruppi più o meno coesi di persone che hanno qualche interesse in comune.
Anche le imprese for profit cominciano ad entrare in questa logica, man mano che prende corpo l’idea della open innovation e dell’organizzazione “a rete” (non gerarchica, ma orizzontale), aperta a contributi esterni. Se in queste reti occorre mobilitare persone dotate di intelligenza autonoma, e non semplici esecutori di ordini, è evidente che non basta gestire la relazione inter-personale con un contratto di lavoro o di fornitura in cui si contrappongono parti prive di ogni legame che non sia il mercato. Di qui la riscoperta del “mutuo interesse” alla co-produzione di valore (Porter, Kramer, 2011), realizzata nelle filiere digitali/globali di oggi o nelle reti e alleanze tra imprese, che spesso coinvolgono gruppi di dipendenti, linee di fornitura, finanziatori e territori interessati. Di qui anche la crescente importanza che il senso del fare e del legarsi a progetti comuni ha nella relazione di lavoro o di vendita, coinvolgendo a persone che non cercano – nell’esperienza fatta – solo utilità spicciole, ma significati da creare e apprezzare insieme.
Un campo in cui questa relazione di condivisione di senso è sempre più diffusa è quello della sharing economy. In questo tipo di economia si sceglie di mettere in comune con altri – che ne hanno bisogno – la casa, l’auto, il servizio taxi, le portate di un pranzo, o un ciclo di lezioni. Il vantaggio è in genere reciproco, perché, nello “sharing”, una piattaforma o un sito web mettono in contatto chi ha una capacità non utilizzata (un auto ferma in garage, ad esempio) o riproducibile (come la conoscenza) con persone o imprese che hanno bisogno o desiderio di quella risorsa. Persone o imprese che sono dunque interessate ad usarla, in genere pagando un prezzo commisurato al suo valore utile. Per dare forma organizzata e affidabile allo sharing, si creano metodologie di valutazione tra “pari”, che certificano la reputazione e l’affidabilità di ciascun membro della relazione. Costruendo in questo modo una relazione di mutuo interesse che genera valore addizionale, distribuito poi in vario modo tra le parti in causa. Non senza problemi (Belloni, 2017; Staglianò, 2016).
I processi di condivisione mediati dalle piattaforme implicano dunque, in un certo numero di casi, legami tra le parti in causa, in base ai progetti che le piattaforme consentono di organizzare e portare avanti insieme. La rilevanza del legame sociale emerge quando le relazioni diventano stabili e coinvolgenti, essendo organizzate intorno a significati e interessi comuni, che vanno oltre l’orizzonte individualistico e utilitaristico dei singoli. Se ci si trova in un sistema di relazioni “tra pari” (senza un potere dominante che organizza il tutto), si può allora parlare di platform cooperativism (cooperativismo di piattaforma) (Scholz, 2014).
Non è uno sviluppo facile e spontaneo, perché in molti casi le piattaforme di sharing sono gestite da grandi imprese che “catturano” una parte del valore generato dalla cooperazione tra pari e ne utilizzano a proprio vantaggio i dati emergenti. L’adesione individuale ad un modello di legame sociale non sempre basta per andare oltre i limiti dell’individualismo. In molti casi, serve un intervento collettivo (magari su base cooperativa) o normativo che renda aperto il mondo delle interazioni possibili in rete, evitando di cadere nelle trappole del troppo facile (predisposto da altri). È con questa finalità che stanno entrando in uso strumenti di software per facilitare i processi collaborativi come Loomio o Enspiral), o dare accesso a vie di finanziamento alternative (es. Community Shares o Purpose Capital). È anche importante lo sviluppo di tutta una serie di soluzioni “aperte” che tutelano la proprietà intellettuale, facilitando la condivisione (es. Copyleft o Copyfair) (Smorto, 2016).
Il lavoro, che diventa progressivamente smart – ossia svincolato dal controllo gerarchico del tempo e del luogo (timbro sul cartellino) – cerca a sua volta le occasioni utili nel territorio e nelle filiere per evitare l’isolamento. Atterrando, qualche volta, in centri di co-working, dove è possibile incontrare professionisti delle varie specialità, imprenditori mono-personali, dipendenti in trasferta. La ricerca di convergenze complementari e di condivisione cognitiva fa il resto, arrivando a creare, in questi centri, forme di partecipazione emotiva e di fiducia reciproca tra le persone, disposte a progettare e investire in comune su certi fronti.
Nel caso dei freelance e dei professionisti si sono poi sviluppate piattaforme di crowd work specializzate per mettere in contatto chi ha tempo-lavoro disponibile e chi ha bisogno di un lavoro di design, progettazione, manutenzione, certificazione, traduzione, calcolo ecc. Creando anche delle “aste” che consentono ai diversi interessati (offerenti e richiedenti) di scegliere la proposta più conveniente (es. BestCreativity o Cocontest). Prendono inoltre forma cooperative che, mettendo in rete i crowdworkers, forniscono loro una serie di servizi comuni. Ad esempio SMart Italia (120mila soci in nove paesi europei, tra cui l’Italia) opera nel campo del lavoro artistico (per lo spettacolo) e sta aprendosi ad altri settori di lavoro autonomo: a fronte dell’8,5% del fatturato fornisce ai soci una serie di servizi amministrativi e finanziari (emettendo le fatture come cooperativa, per conto dei soci), insieme a prestazioni di assistenza e tutela contro la disoccupazione[1].
Naturalmente tutti i bisogni di rilevanza pubblica (sostenibilità, equità, assistenza, previdenza, welfare sanitario, scuole e formazione, ricerca ecc.) possono trovare in rete l’occasione di aggregare intorno a progetti e finalità condivise persone che sentono la responsabilità di garantire questi servizi e queste qualità, nel territorio o nel settore in cui operano. Ma anche molte imprese ormai, si spendono, un po’ per guadagnare reputazione vendibile nel marketing e un po’ per coinvolgimento dei dipendenti su progetti che hanno, accanto al profitto, finalità non profit e di welfare, del tipo di quelle sopra richiamate.
Ci sono, infine, i campi in cui lo scambio tra chi possiede capacità e chi è portatore di bisogni (o desideri), che possono valorizzarle, avviene in modo gratuito, sulla base di una condivisione di senso o di altre convenienze (pubblicità sul traffico indotto, raccolta di dati per la profilazione degli utenti, reputazione commerciale, propagazione di conoscenze e codici da condividere).
Emergono così, oggi, legami sociali che sono in grado di alimentare lo sviluppo del mutualismo, in forme nuove, talvolta molto distanti dai modelli del passato. Ad esempio, crescono i gruppi di interesse che scelgono di tenersi in collegamento più o meno costante, dovendo presidiare un fine comune (le mamme degli alunni di una classe che aprono una chat su Whatsapp, famiglie che si tengono in contatto per la cura di una malattia rara che le ha colpite, o altre situazioni del genere). Crescono anche le comunità di senso, che creano un ambiente di vita e di lavoro organizzato rispettando significati condivisi nel campo della salute, del divertimento, della moda, dell’alimentazione ecc.
La legislazione disciplina ormai imprese multi-finalizzate come le B Corp (Benefit Corporations) internazionali, le “società benefit” italiane e le imprese sociali di “vario” genere che popolano la rete, arricchendola di tante e diverse forme di imprenditorialità sociale. Si tratta di imprese che guardano al profitto ma anche ad altre finalizzazioni, dotate di significato sociale.
La proliferazione di forme e iniziative in questa “terra di mezzo” tra il profit e il non profit, appoggiata alla potenza connettiva del digitale, alimenta lo sviluppo di quella che Venturi e Zandonai chiamano “biodiversità”, con riferimento alle ecologie di filiera, di territorio o di collaborazione a rete (Venturi, Zandonai, 2014), e che Young, Searing e Brewer identificano come “social entrerprise zoo” (Young et al., 2016).
Nella rinascita del mutualismo entro la cornice della rivoluzione digitale non c’è solo questo. Conta anche la crescita – in numero, funzioni e riconoscimento – di quelle che Carlo Borzaga chiama “imprese di comunità”, da ricondurre a tre cause diverse, ma convergenti: 1) i fallimenti dello Stato e del mercato in campi essenziali (come la sanità, i trasporti ecc.) specialmente nelle “aree interne”, che è più costoso servire; 2) una new wave di civismo e socialità, che si appoggia all’uso di beni comuni utili anche nella generazione di vantaggi competitivi sul piano economico; 3) il bisogno di auto-realizzazione di sé che si trasforma in produzione di valore sociale attraverso forme di imprenditorialità sensibili al sociale (Borzaga, Zandonai, 2015).
L’emergere in rete del legame sociale, che ordina micro-dinamiche di condivisione di ampiezza variabile, nasce non solo dal desiderio di progettare cose che siano desiderate e volute in base ad un impegno comune, ma anche dalla natura dirompente e disordinata delle tante innovazioni che possono creare inconvenienti seri, su cui è necessario intervenire.
Prima di tutto vanno considerati il possibile aumento della disoccupazione tecnologica e il processo – molto probabile – di svalorizzazione progressiva del lavoro esecutivo, nel corso dei prossimi anni. Inoltre, un ruolo destabilizzante può anche essere assunto dalla “profilatura” senza regole delle persone che operano in rete. La raccolta (sotterranea) di dati personali, e la vendita dei profili da essi ricavati, può infatti distruggere la privacy per sfruttare a fini di profitto commerciale un bene che rientra nella sfera personale di ciascun user. Un altro tema “caldo” è quello delle tasse. Chi opera in rete o gestisce una piattaforma può oggi sottrarsi facilmente all’imposizione fiscale, grazie alla possibilità di trasferire i ricavi in paesi con aliquote e condizioni più favorevoli, compresi certi paradisi fiscali. Ma anche la finanza può scavalcare agevolmente i confini trans-nazionali, diventando speculativa, con scommesse azzardate sul futuro che, come si dice, privatizzano i profitti e socializzano le perdite. Non è finita: le grandi piattaforme (come Google-Alphabet, Facebook, Amazon, Booking, Airbnb, Uber ecc.) monopolizzano ormai alcune reti di relazione, catturando una quota grande (ed esagerata) del valore creato dalla gestione digitale delle filiere o delle relazioni a distanza tra imprese e persone.
Last but not least, è ormai evidente, nell’esperienza empirica, il ruolo ambiguo svolto dalla globalizzazione che – grazie all’implosione delle distanze on line – ha trovato nel digitale un sostegno formidabile. Il fatto di mettere tutti gli operatori del mondo a contatto diretto – in una rete globale di comunicazioni, interazioni e logistica veloce – ha consentito nuove forme di divisione del lavoro a scala planetaria con grandi vantaggi in termini di costi e di valore creato per gli user. Ma, al tempo stesso, ha ridotto il potere di regolazione degli Stati (rimasti nazionali) che non riescono ad intervenire in modo efficace sui flussi trans-nazionali (finanziari, commerciali, migratori, cognitivi ecc.). Dando luogo così a dinamiche incontrollate, che ci condannano ad una condizione di instabilità permanente.
Di qui la reazione: per disciplinare tutti questi punti di conflitto o di disordine servono nuove regole, che solo i soggetti collettivi possono elaborare ed imporre, usando qualche volta il loro potere di influenza e di contrattazione e in altri casi il potere (residuo) della politica e degli Stati. Questi soggetti possono essere di diversa natura: associazioni imprenditoriali, sindacati, territori, comunità di senso. La condizione perché possano svolgere questa funzione è però che, rompendo con il rimpianto nostalgico del passato, si mettano anch’essi in cammino verso la costruzione del nuovo paradigma di vita e di lavoro, proponibile per il futuro. Adottando quindi un approccio che Mauro Magatti e Laura Gherardi (Magatti, Gherardi, 2014) chiamano “generativo”. È il paradigma da costruire, con pratiche condivise, a dare senso ad un progetto di futuro entro cui le innovazioni possono, se ben guidate, essere usate come fonte di valore e di creatività, da impiegare anche per affrontare disuguaglianze, emarginazioni, scetticismi e inerzie di varia natura (comprese le resistenze dovute alla difesa di rendite di posizione conquistate in passato) (Magatti, 2017). Boltanski e Thévenot indicano questa prospettiva futura articolando sei possibili “mondi”, che essi chiamano “città” (la città Domestica, quella Industriale, Mercantile, Ispirata, Civica e della Reputazione). A queste è stata recentemente aggiunta la città per Progetti, che è generativa e sperimentale (Boltanski, Chiapello, 1999), dando rilievo alla capacità di portare avanti, percorsi capaci di durare nel tempo, costruendo legami sociali non effimeri. A questa serie di città possibili Magatti e Gherardi (nel libro del 2014) aggiungono la città della Sostenibilità (Boltanski, Chiapello, 1999).
Nell’insieme va dunque avanti una transizione che, muovendosi su un terreno accidentato, cerca di trovare soluzioni intermedie, di compromesso tra l’individualismo creativo, da una parte, e la condivisione collettiva delle regole e delle iniziative sociali, dall’altra. Bisogna infatti rendere compatibile la creatività decentrata, nascente dal basso in modo disordinato, con lo sviluppo di idee e progetti collettivi – di piccola o grande scala – che portano a sintesi le istanze dei singoli partecipanti, orientandone il comportamento.
Riassumendo: la rivoluzione digitale in corso cambia la qualità del legame sociale ereditata dal Novecento, su due questioni di fondo:
L’individualismo che si sviluppa nel contesto della rete digitale può essere – e in qualche caso è – un modo di vivere e di lavorare che fa della propria indipendenza (e dunque del proprio punto di vista o interesse individuale) l’asse portante delle preferenze e delle attività svolte. Ma, nella maggior parte dei casi, la rete offre comunque l’occasione per entrare in contatto con altri, potendo così scegliere i propri interlocutori, costruire rapporti di reciproca fiducia, condividere o scambiare conoscenze e risorse complementari. E dunque, in definitiva, usare la forza coesiva della collaborazione intraprendente per andare al di là di un orizzonte di senso puramente individualistico.
Come abbiamo visto, il legame sociale emergente può prendere moltissime direzioni di sviluppo. E’ difficile misurare il grado di mutualismo cooperativo che ciascuna di queste forme implica, perché quasi sempre le nuove relazioni di collaborazione intraprendente, anche quando sono finalizzate alla socialità, sono poco o per niente legate a quelle classiche del mutualismo “storico” (cooperative, consorzi, terzo settore).
Si è creata di fatto una discontinuità tra l’evoluzione del mutualismo ereditato dal Novecento e la proliferazione emergente di molte esperienze di condivisione, alimentata oggi dalla rivoluzione digitale. In effetti, si tratta di due mondi che non hanno stabilito sinora un collegamento organico, ma si muovono piuttosto in modo indipendente: ciascuno aderisce, a suo modo, alle nuove possibilità che la rete digitale mette a disposizione, con qualche punto di contatto che tuttavia è più l’eccezione che la regola.
Questa separazione degli ambiti tra vecchio e nuovo mutualismo è un problema, ci sembra, per ambedue. Il movimento cooperativo storico avrebbe la possibilità di sperimentare innovazioni importanti delle sue forme e finalità, entrando in contatto con milioni di persone che finora non lo conoscono e non lo praticano. A sua volta, il flusso delle nuove iniziative di condivisone sociale emergenti nella rete digitale avrebbe il vantaggio di acquisire radici storiche che potrebbero consolidarlo e renderlo sostenibile, nel lungo periodo, facendo tesoro di esperienze precedenti.
Carlo Borzaga e Flaviano Zandonai (Borzaga, Zandonai, 2015) vedono, in effetti, la necessità di “rigenerare il modello cooperativo” muovendosi lungo tre assi: a) startup di imprese di comunità che valorizzano beni comuni territoriali altrimenti carenti; b) cooperazione sociale che consente a certi servizi pubblici si superare il burocratismo e la spersonalizzazione della Pubblica Amministrazione, coinvolgendo gli utenti (e il volontariato) in servizi di inclusione lavorativa, sanità, educazione; c) nuovi modelli di business che fanno leva sulle risorse e iniziative delle comunità di riferimento, utilizzando beni comuni e processi condivisi di creazione di valore ancorati al senso (nella finanza, nel rapporto con consumatore, nell’uso di risorse ambientali e territoriali).
In effetti, la rigenerazione del modello cooperativo consolidato e l’evoluzione dell’attuale collaborazione intraprendente in rete possono avere punti di convergenza facendo perno su una nuova concezione di impresa sociale, che rompa il dualismo tra profit e non profit, sulla base di due presupposti di fatto: da un lato, condivisione e socialità sono diventati due fattori produttivi (generatori di valore) che non possono essere più trascurati dalle imprese profit. Dall’altro, le iniziative nate nel terzo settore per fini non profit non possono più delegare ad altri (lo Stato, i benefattori, i volontari) il problema della loro sostenibilità economica, perché gli investimenti da fare devono essere rinnovati nel corso del tempo, grazie ai margini economici di ritorno ottenuti.
Dunque, c’è un terreno di convergenza, in teoria, ma anche una grande possibilità di inventare forme assai differenti di integrazione tra i due principi. La demarcazione tra il mondo delle iniziative profit e quello delle iniziative non profit si fa meno netta e la zona intermedia comincia ad affollarsi. Creando anche una certa confusione, sul piano normativo (le regole giuridiche corrispondenti sono in via di modificazione) ma anche sul piano dei mezzi e degli obiettivi adottati.
Per orientarci in questa realtà in divenire, ci pare si debba soprattutto rispondere a due domande:
C’è molto di nuovo, in quello che sta accadendo al legame sociale sotteso alle esperienze di impresa sociale, che maturano oggi nel contesto della rivoluzione digitale. I cambiamenti da considerare riguardano tutte e tre le dimensioni che definiscono il legame sociale:
I cambiamenti che ci sono stati nel corso del tempo lungo queste tre dimensioni danno la percezione di quanto spesso il legame sociale abbia dovuto – per mantenere la sua efficacia – essere re-inventato, con processi affannosi di de-costruzione e ri-costruzione nel passaggio da un paradigma ad un altro. Oggi siamo nuovamente in una situazione di transizione del genere, in cui è essenziale, per andare avanti, sapere qual è la distanza che deve essere stabilita tra vecchio e nuovo.
Il punto di partenza della storia percorsa dal legame sociale, per arrivare alle forme assunte attualmente, è la rottura che la modernità – attraverso l’uso della scienza nella produzione – ha determinato rispetto al sistema delle relazioni, delle conoscenze e del senso proveniente dal mondo pre-moderno (Rullani, 2010). Nella società pre-moderna, il legame sociale è molto forte e poco visibile, perché viene plasmato dalle esperienze implicitamente conservate ed accumulate, nel corso del tempo, in ecologie che formano l’ambiente di vita e di lavoro di società locali, risultando da secoli di apprendimento evolutivo.
Questa condizione di inconsapevolezza e di coerenza del legame sociale implicito, che plasma la vita e il lavoro delle persone, salta quando la modernità irrompe con forza, affermando una logica diversa, che fa leva sulla riproducibilità della conoscenza scientifica, incorporata nelle macchine. Questo modello produttivo si distacca nettamente dalle relazioni, dalle conoscenze e dal senso che aveva dato forma, in precedenza, ad ecologie territoriali, chiuse nei loro rapporti di prossimità.
La meccanizzazione industriale si incarica, nei due secoli e mezzo di modernità trascorsi fino ad oggi, di de-costruire alla radice queste ecologie, imponendo un ordine diverso. E lo fa attraverso la successione di quattro diversi paradigmi, ciascuno dei quali configura in modo proprio il legame sociale impiegato nella generazione di valore e nell’organizzazione della società:
Il punto di partenza di questa successione, è il capitalismo mercantile dell’Ottocento, che ridefinisce i legami sociali emergenti, rendendoli coerenti con le esigenze della nuova produzione industriale.
In primo luogo, viene applicata alle relazioni economiche e sociali la logica della tecnologia meccanica, basata sulla macchina rigida (standard, replicativa). Di conseguenza, le relazioni cessano di essere informali e personalizzate, per trasformarsi in rapporti di mercato, governati da un automatismo impersonale: il prezzo di concorrenza, che garantisce l’equilibrio tra domanda e offerta di prodotti standard.
Il rapporto produttore-cliente, che nelle ecologie locali precedenti (agricole e artigianali) era molto personalizzato, tende dunque a spersonalizzarsi, perché ogni impresa cerca di vendere a chiunque sia disposto a pagare il prezzo richiesto mentre ogni acquirente acquista da chiunque gli proponga il prodotto (standard) ad un prezzo conveniente. Anche il lavoro si spersonalizza, man mano che viene assegnato a compiti ripetitivi, dettati dal codice tecnologico della macchina. Compiti a cui le persone vengono addestrate, in modo da poterli eseguire nella forma richiesta, senza alcun apporto creativo da parte dell’intelligenza personale dei singoli lavoratori.
L’apporto creativo degli uomini si concentra allora in una sola funzione: quella imprenditoriale, cui tocca innovare. Gli imprenditori sono all’epoca una popolazione abbastanza numerosa, perché il capitalismo dell’ottocento lavora con molte macchine isolate tra loro (ciascuna richiede una fonte di energia ad hoc, ossia un impianti idrico o una caldaia/turbina a vapore). Dunque si meccanizzano solo alcune fasi di lavorazione, nelle filiere, dando luogo a moltissime piccole imprese industriali, accanto ad alcuni mega-impianti (acciaierie, stabilimenti chimici, cantieri navali ecc.). L’automatismo della concorrenza di mercato disciplina e seleziona la soggettività diffusa degli imprenditori-persona, che lavorano in modo indipendente l’uno dall’altro, essendo in concorrenza quando fanno la stessa cosa, o stipulando contratti di compra-vendita tra fornitori e clienti, nelle filiere.
Se poi, in secondo luogo, consideriamo gli aspetti cognitivi, vediamo che il core del nuovo legame sociale sta – anche in questo caso – nella funzione imprenditoriale. Gli imprenditori applicano alla conoscenza codificata, che è incorporata nella macchine e nei prodotti standard ottenuti, la propria (personale) conoscenza generativa, che serve per elaborare nuove idee e affrontare situazioni complesse, altamente indeterminate. Mentre la scienza è un sapere aperto agli user che vogliano accedervi, la tecnologia incorporata nelle macchine diventa un sapere proprietario perché richiede un investimento di capitale (nella macchina) che solo pochi possono fare e che costituisce una barriera importante all’accesso, creando una discriminazione di classe tra chi può fare l’imprenditore e chi può solo essere parte della forza-lavoro. Anche le idee innovative di successo degli imprenditori assumono la forma di sapere proprietario attraverso le istituzioni della proprietà intellettuale (brevetti, copyright, marchi) che le fanno circolare in rapporti di mercato, altrettanto anonimi di quelli riguardanti le merci e il lavoro.
Infine, il capitalismo mercantile dell’ottocento cambia anche il senso della vita e del lavoro, perché – spersonalizzando il lavoro, che diventa strumento – lega la libertà individuale all’accumulazione di ricchezza astratta (il “denaro che produce denaro” di Karl Marx), governata nel suo sviluppo da un automatismo (il mercato): un mondo in cui i rapporto interpersonali contano poco o niente, e a cui le persone tendono ad adattarsi, dando forma ad un legame sociale che si oggettivizza, restringendo gli spazi di azione per i soggetti.
La tendenza verso la spersonalizzazione del sistema produttivo si rafforza nel momento in cui, nei primi decenni del Novecento, entrano in funzione le tecniche produttive del taylorismo (parcellizzazione delle operazioni e sequenze operative in linea) e del fordismo (concentrazione di linee formate da molte macchine nella stessa fabbrica, usando l’energia elettrica, facilmente trasportabile e decentrabile ai tanti motori richiesti).
Le imprese, di conseguenza, diventano organizzazioni di grande dimensione, con fabbriche che mettono in linea centinaia o migliaia di macchine, specializzate ciascuna in una operazione elementare strettamente codificata e programmata. L’imprenditorialità diffusa viene rapidamente messa alle corde, cosicchè molte piccole imprese chiudono o sono assorbite dalle maggiori. La soggettività, che in precedenza si concentrava nell’imprenditorialità diffusa, si trasferisce ai vertici – ristretti ed elitari – delle poche grandi imprese che monopolizzano i mercati, nei diversi settori.
Le relazioni assumono così forma gerarchica, di comando, da un lato, e di pura esecuzione degli ordini ricevuti, dall’altro. Non c’è solo spersonalizzazione delle relazioni, ma anche di imposizione degli standard e delle procedure che operano top-down, oggettivizzando, per così dire, il lavoro dipendente.
Dal punto di vista cognitivo, il sapere resta proprietario, ma adesso si accumula all’interno della singola organizzazione, nella logica dell’integrazione verticale che sviluppa soluzioni e macchine firm specific, destinate all’uso interno e difficilmente utilizzabili da altri. La conoscenza non va più sul mercato ma ci vanno i prodotti (che la incorporano), ricercando i massimi volumi possibili. Infine, la generazione di senso, nel capitalismo fordista, dà luogo a due grandi trasformazioni. Da un lato, la necessità di vendere le grandi quantità dei prodotti standard di massa dirotta l’attenzione delle imprese e delle persone verso il consumo, che diventa l’altra faccia dell’efficienza produttiva delle fabbriche. Il consumo di massa sposta l’accento dai bisogni (necessari) ai desideri (creati o indotti), e pone al centro della scena economica il marketing e i servizi commerciali, che cercano di “catturare” l’attenzione e la spesa dei potenziali consumatori. Dall’altro, la riduzione dei compiti assegnati alle persone (lavoratori, consumatori, finanziatori) a funzioni standard irrompe nell’organizzazione sociale, svalorizzando le soggettività individuali e dando spazio a nuove soggettività di tipo collettivo.
Partendo dal lavoro, prima di tutto. Mentre il lavoro individuale viene “oggettivizzato” dal comando aziendale e dai rapporti di mercato, il lavoro riesce invece a recuperare spazi di soggettività organizzandosi in forma collettiva (nel sindacato o nei partiti politici): la produzione di massa, che livella le condizioni dei singoli lavoratori riducendole a funzioni esecutive standard, è la condizione che permette al lavoro di sviluppare identità collettive – negli stabilimenti, nelle imprese, nei territori, nelle classi sociali - che superano le differenze e le diffidenze tra persone.
Un livellamento simile avviene per i soggetti che finanziano (la massa dei piccoli azionisti e risparmiatori) e per i soggetti che consumano (i consumatori di massa), anche se in questi casi lo sviluppo di soggettività collettive rimane allo stato nascente, e si limita nella maggior parte dei casi a far scomparire le differenze tra una persona e l’altra. Oggettivizzando così il senso della funzione: il consumatore consuma e basta (nelle forme dettate dal marketing); il finanziatore finanzia e basta (nelle forme dettate dalle banche o dalle corporations finanziate).
Nel fordismo, in definitiva, il legame sociale subisce una grande trasformazione, perché diventa più gerarchico e impersonale, ma, al tempo stesso, recupera alcune soggettività (quelle politiche e sindacali) in forma collettiva, dando luogo ad un sistema sociale in cui lo Stato del welfare e la contrattazione sindacale hanno un potere organizzatore e di guida rilevante.
Le cose cambiano quando, dagli anni sessanta al 2000, il fordismo entra in crisi (per eccesso di rigidità), dando spazio ad una de-costruzione individualista delle strutture regolate e negoziali emerse durante l’epoca fordista. Il neo-liberismo delle politiche varate negli anni Ottanta cerca di riattivare la dinamica del mercato in settori in precedenza organizzati secondo norme o secondo contratti collettivi, procedendo anche sulla via delle privatizzazioni del welfare e di aziende pubbliche.
In parallelo la finanza, liberata dal controllo stretto esercitato in precedenza dagli Stati nazionali sulle banche e sui movimenti di capitale, diventa una fonte di arricchimento ma anche di destabilizzazione. I flussi di capitale, infatti, scavalcano le frontiere, diventando un fattore trans-nazionale, sottratto di fatto a regolazioni pubbliche (nazionali) di qualunque specie.
Il legame sociale viene violentemente messo alle corde da questi due “colpi di coda”, che erodono il potere contrattuale dei soggetti collettivi insediati nell’ordine fordista precedente (Stato, concertazione sindacale, welfare garantito). La destabilizzazione del sistema fordista non è tuttavia fine a se stessa. Infatti essa, specialmente in alcuni contesti, apre la strada ad un processo di ri-costruzione, convergente verso un nuovo paradigma: il capitalismo flessibile.
Quest’ultimo, che si consolida nel periodo 1970-2000, in Italia prende la forma dell’impresa diffusa, addensata nei distretti industriali; in Giappone quella delle filiere del just in time e della lean production; negli Stati Uniti quella dell’outsourcing che sviluppa la logica dell’extended enterprise, proiettata nella rete delle forniture esterne.
La direzione di marcia segnata da queste forme di organizzazione della produzione e della società non è, dunque, meramente quella della de-strutturazione liberista o finanziaria. Piuttosto, è quella auto-organizzatrice che prende piede in quei rapporti di prossimità – in certi luoghi, in certe filiere, in certi contesti di business – in cui si sono conservati legami sociali impliciti, che vengono riattivati e messi “al lavoro”, per la produzione di valore in forme flessibili.
Il legame sociale, in questo passaggio, si ripersonalizza, dando nuovamente spazio alle soggettività individuali (del singolo imprenditore, lavoratore, risparmiatore, consumatore). Per certi aspetti è come se la modernità dirompente dei primi due paradigmi (capitalismo di mercato, fordismo della grande impresa) facesse un passo indietro, recuperando alcune caratteristiche delle comunità produttive pre-moderne. Infatti:
La modernità dei distretti industriali, della lean production e delle filiere estese di outsourcing, dà luogo alla ricerca di un nuovo rapporto tra l’astrazione scientifica (che resta la fonte della conoscenza riproducibile) e la complessità di prodotti, processi, situazioni che non possono più essere governate dall’alto o da codici anonimi.
Il capitalismo flessibile (1970-2000) recupera l’intelligenza collettiva implicita nelle comunità, facendo leva sui fattori di comunità sopravvissuti al fordismo. I primi sistemi post-fordisti di successo sono in effetti quelli che emergono in territori non ancora colonizzati dalle grandi imprese fordiste. Ossa in luoghi che danno spazio ai rapporti di prossimità: in Italia, prima di tutto, il Nordest, fascia adriatica, Italia centrale. Ma una novità rilevante di questa epoca sono anche le filiere fiduciarie basate sulla leadership riconosciuta di alcune grandi imprese (come in Giappone), che adottano la modernità del fordismo (parcellizzazione e lavorazioni sequenziali) impiegando soluzioni flessibili e usando l’intelligenza delle persone, per modificare i programmi e far fronte alle fluttuazioni della domanda. Emerge anche la consapevolezza, in alcune corporations americane, di quanto sia rilevante – anche al fine di rendere sostenibile il profitto nel lungo periodo – il legame da stabilire con fornitori stabili dell’extended enterprise, sperimentando rapporti di interdipendenza sottratti al puro mercato e affidati ad una assunzione di responsabilità reciproca.
Il legame sociale torna ad essere importante e a recuperare il ruolo delle persone: ma resta ancorato a rapporti di prossimità (territoriale, aziendale, fiduciaria) che lo radicano il certe culture e ne ostacolano la riproduzione su larga scala, nonostante le imitazioni e gli apprendimenti trasversali, che ovviamente non mancano.
Dal 2000 in poi, il recupero delle residue intelligenze comunitarie o fiduciarie cessa di essere il focus dell’evoluzione in corso nel capitalismo moderno, perché entrano in gioco due fattori nuovi di grande portata: la globalizzazione e la digitalizzazione.
Abbiamo già detto come queste due variabili cambino in profondità la natura del legame sociale impiegato nella produzione di valore. La relazione, come abbiamo visto, si configura adesso come forma di collaborazione intraprendente tra persone e imprese che operano nella rete digitale, incrociando l’offerta di capacità disponibili con la domanda di prodotti e servizi ancorata a bisogni e ancor più a desideri emergenti. Lavorando on demand la tecnologia delle macchine – che hanno cessato di imporre agli uomini la loro rigidità delle origini – consente di gestire un certo livello di varianza, ammettendo l’intervento dell’intelligenza umana quando i problemi da affrontare superano un certo livello di complessità. Il legame sociale che serve, in un contesto del genere, è quello che consente di gestire l’interdipendenza nella filiera, o nella sharing economy, dando spazio all’innovazione intraprendente delle persone. Anche perché si deve responsabilmente tenere conto del fatto che il valore viene sempre di più co-prodotto, adottando forme organizzative coerenti con l’open innovation, che consentono a ciascuno di usare il capitale, le capacità, le conoscenze di altri, con i vantaggi conseguenti.
La conoscenza, in queste reti, diventa fonte di valore attraverso processi moltiplicativi che aumentano di molto i volumi propagando modelli e programmi codificati nel grande mercato mondiale, lungo canali trans-settoriali e trans-territoriali. Si superano di molto, in questo modo, i “numeri” corrispondenti alla scala proprietaria (propria dell’epoca fordista) e a quella di prossimità (tipica del capitalismo distrettuale). Inoltre la conoscenza viene in parte condivisa, nelle reti collaborative – o anche – se codificata – fornita talvolta gratuitamente, facendo leva sul suo costo zero di riproduzione e di trasferimento. I commons cognitivi accessibili in rete diventano così parte fondamentale delle capacità di immaginazione, di progettazione, di vendita, ma anche di sense-making condiviso (Rullani et al., 2014).
Grazie alla logica della condivisione cognitiva prende forma, nel capitalismo digitale, un’intelligenza collettiva (o per lo meno condivisa) che riesce a sommare il sapere e le capacità di apprendimento di tanti nodi individuali o locali, aumentando sia la potenza esplorativa del sistema nel suo insieme, sia le possibilità di differenziazione identitaria a disposizione di ciascuno, nella divisione globale del lavoro che ne consegue.
Infine, queste forme di intelligenza collettiva alimentano anche l’elaborazione condivisa del senso, da parte di soggettività inter-personali e inter-imprenditoriali che nascono dal basso e si organizzano come comunità di senso: movimenti di opinione, filiere produttive, gruppi di consumo o di cittadinanza che danno forma a visioni, ideali e progetti comuni, su temi di interesse economico e sociale, che vanno oltre le mere convenienze utilitaristiche e individuali.
Le comunità di senso possono diventare fonte di valore se, nel loro campo di impegno, traducono il senso condiviso in una idea motrice corrispondente: un’idea capace di creare valore nel campo dei bisogni o dei desideri delle persone, che, in modo convergente – riconoscendo la sua importanza – sono disposte a pagare la qualità distintiva dei prodotti o servizi che ne derivano. Nel sistema attuale stanno emergendo idee motrici forti, che sono spesso ancorate a comunità di senso, nel campo dell’alimentazione, della salute, degli stili di vita (moda, arredamento, abitazione, contesto urbano), della mobilità, del rapporto con l’ambiente, della cultura e formazione, del turismo o anche delle modalità di servizio che i produttori propongono alla domanda (produzione flessibile, personalizzata, on demand, interattiva).
Il legame sociale che emerge da queste trasformazioni è sostanzialmente diverso da quello ereditato dal passato: ossia dal mix di fordismo, neo-liberismo post-fordista e capitalismo flessibile, arrivati fino a noi direttamente dal novecento. Esso si basa sull’idea della collaborazione intraprendente in rete: un legame sociale che mette insieme l’integrazione di capacità complementari, nella società, e la creatività intraprendente di ciascuno, condizionata dagli investimenti e rischi corrispondenti. Il tutto tenuto insieme da una cornice di un senso condiviso, che rende affidabile sia la collaborazione che l’intraprendenza.
Il mutamento, nel corso del tempo, del ruolo svolto dal legame nella produzione e nell’organizzazione del sistema sociale moderno ha segnato in modo riconoscibile anche le forme di mutualismo che si sono sviluppate nelle diverse epoche e che, con il cambiamento dei paradigmi dominanti, si sono adattate a contesti diversi da quello di origine.
Come è noto, nel capitalismo mercantile dell’Ottocento si è sviluppato un mutualismo cooperativo rilevante soprattutto per sopperire ai “fallimenti del mercato” in tutta una serie di campi: nella finanza (banche cooperative), nel lavoro (cooperative di produzione), nel consumo (cooperative di distribuzione e di servizio), nell’assistenza sanitaria e previdenziale (mutue). In tutti questi campi, sono nate cooperative che – mettendo insieme energie e risorse individuali – supplivano all’assenza o alle carenze del “libero mercato”, ancorato a convenienze monetarie di breve termine.
Questa solida infrastruttura mutualistica, che era complementare al legame di mercato nel primo capitalismo industriale, è entrata in collisione con l’affermazione del paradigma fordista nel corso del novecento. Su due versanti principali: a) le economie di scala imposte, in tutti i settori (compresi i servizi), dall’efficienza della produzione di massa; b) le prestazioni di welfare, che – nella cornice fordista – sono offerte in forma universale dallo Stato, restringendo lo spazio disponibile per le offerte private e cooperative di servizi concorrenti.
In risposta alla prima sfida, il mutualismo ha messo i campo i consorzi, che sommano le capacità produttive e di vendita di molti produttori di piccola scala, che, consorziandosi, hanno potuto continuare a produrre il loro latte, vino, prodotti alimentari, servizi (e altro), contando – per alcune funzioni critiche – sulle economie di scala realizzate dal consorzio.
Nel campo dei servizi di welfare, invece, il mutualismo cooperativo ha dovuto cedere il passo, in molti campi, all’universalismo delle prestazioni pubbliche finanziate dalla fiscalità generale. Si è realizzata, in questi campi, una differenziazione tra ruoli complementari: i servizi pubblici hanno fornito le prestazioni standard (sanitarie, scolastiche, previdenziali ecc.), mentre quelli basati sulla cooperazione tra privati hanno assunto un ruolo integrativo, specialmente nei campi in cui possono essere mobilitate le risorse dei contratti collettivi di lavoro (ad esempio sanità e previdenza integrative), di istituzioni territoriali (enti locali e altri soggetti pubblici) o quelle del volontariato, nelle comunità territoriali. Il cosiddetto “terzo settore” è così entrato a pieno titolo tra le risorse complementari che la società fordista poteva mettere in campo per completare il proprio assetto di welfare.
Quando, dopo gli anni Settanta, si entra nella dinamica accidentata dal post-fordismo liberista e individualista, il ruolo del mutualismo diventa, di fatto, più importante per differenza: in una società in cui ciascuno pensa per sé e il mercato per tutti (si fa per dire), è infatti una fortuna poter disporre di strutture che coltivano il legame sociale con cui intervenire sui casi di emarginazione o impoverimento. Questa risorsa può essere valorizzata soprattutto nei luoghi in cui si addensano le attività del capitalismo flessibile. Che apportano ricchezza locale e un attivismo delle persone rivolto ai propri progetti di vita, ma anche alla qualità del contesto sociale in cui si trovano ad operare. Di conseguenza, il terzo settore cresce ed acquista, in quegli anni, una visibilità che in precedenza non aveva nelle dinamiche sociali precedenti.
Il cambiamento diventa più radicale quando, dopo il 2000, comincia a svilupparsi il paradigma del capitalismo digitale/globale.
In questo caso, tuttavia, emerge – come abbiamo detto – una cesura tra le precedenti forme del mutualismo (le cooperative e i consorzi che hanno attraversato il fordismo e il primo post-fordismo) e la nuova collaborazione intraprendente che si afferma nelle reti. E che ha un contenuto mutualistico, in senso lato, implicando processi di condivisione di senso capaci di superare, da un lato l’utilitarismo individualistico del mercato e, dall’altro, i limiti dei legami di prossimità, vincolati all’esperienza pratica, diretta, delle cose.
Per ricongiungere i due percorsi evolutivi – quello storico del mutualismo cooperativo, e quello attuale della collaborazione intraprendente a sfondo sociale – è certamente necessario condurre una battaglia culturale che rimetta il mutualismo al centro dell’attenzione come elemento portante della svolta che – attraverso la rivoluzione digitale – sta investendo la modernità nel suo insieme. L’intelligenza collettiva che – grazie alla condivisione in rete – consente ormai di guardare oltre l’orizzonte individuale, locale e aziendale impone una trasformazione della modernità, che, infatti, sta lentamente diventando riflessiva: non più soltanto una “macchina” finalizzata all’aumento della produttività e del valore economico, ma una mente sociale capace di pensare anche al senso e alla sostenibilità di quanto emerge dalle interazioni tra persone, tra imprese e tra luoghi (Rullani, 2010).
In questa cornice, che rimette al centro della transizione in corso il legame sociale, occorre trovare un terreno sperimentale comune in cui raccordare il modello cooperativo, da rigenerare (Borzaga, Zandonai, 2015 – p. 4) con iniziative di collaborazione intraprendente che nascono nel presente.
Un punto di ancoraggio importante, per saldare le innovazioni emergenti con i loro effetti e significati sociali, è dato dallo sviluppo di alcune idee motrici che – puntando alla costruzione di “nuovi mondi” in cui abitare nel campo dell’alimentazione, della salute, dell’abitare, del produrre ecc. – saldano la creazione di senso e di valore con la ricerca consapevole di coesione sociale.
L’impresa sociale di cui oggi abbiamo bisogno, nella transizione verso il nuovo paradigma, è quella che riesce a collaborare allo sviluppo di un’idea motrice significativa e largamente condivisa, su cui possono convergere – per ragioni differenti, ma ugualmente forti – singole persone, comunità di senso, sistemi territoriali, iniziative di volontariato e mutualistiche di diversa natura.
E’ nella pratica del fare insieme che si possono trovare i fattori su cui fare leva per rinnovare la propria identità, convergendo verso forme coerenti con le nuove possibilità e i nuovi protagonistiche che popolano il nostro tempo. Scoprendo così la sorprendente giovinezza di qualcosa – di cui siamo portatori – che pensavamo invecchiata e forse desueta, solo perchè sta con noi da molto tempo.
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