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ISSN 2282-1694
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Editoriale

L’impatto della rivista Impresa Sociale

Marco Musella, Flaviano Zandonai

Saggi

Innovazione sociale e sviluppo territoriale

Frank Moulaert, Pieter Van der Broeck, Alessandra Manganelli

La competitività è maggiore per le imprese coesive

Giovanni Ferri, Marco Pini , Alessandro Rinaldi

Saggi brevi

Domanda e offerta di capitale per l’impatto sociale

Veronica Chiodo, Francesco Gerli

Le dimensioni dell’innovazione sociale

Fabrizio Montanari, Stefano Rodighiero, Fabio Sgaragli, Diego Teloni

Il contratto di rete come strategia di rigenerazione

Melania Verde

Casi studio

Stakeholder engagement e impatto nei servizi sociali

Ericka Costa, Laura Castegnaro

Recensioni

L’impresa come istituzione sociale

Enrico Sacco

Numero 10 / 2017

Saggi

La competitività è maggiore per le imprese coesive: sogno o realtà?

Giovanni Ferri, Marco Pini , Alessandro Rinaldi

La grande crisi finanziaria e le conseguenti crisi dell’economia reale e sociale hanno scosso la visione neoliberista che l’impresa debba mirare al solo profitto, esaltando invece il ruolo della responsabilità sociale d’impresa (RSI). Imprese più responsabili verso gli stakeholder sono ora giudicate preziose per favorire l’inclusione sociale. Ma il tradeoff tra RSI e performance d’impresa esiste? Se favorire l’inclusione sociale danneggia i risultati d’impresa, ciò sarà insostenibile. Se invece il tradeoff non esiste, la RSI farà solo bene. A partire da dati di un’indagine Unioncamere, si indagherà quel tradeoff. In particolare, anziché considerare la propensione dell’impresa all’RSI – che spesso sfugge ad una rilevazione formale, specie nel contesto italiano di imprese medio-piccole e familiari – ci si concentrerà sul presupposto dell’RSI, ossia il grado di coesività dell’impresa. Infatti un’impresa è coesiva se ha un’alta propensione alle relazioni con gli stakeholder ed è difficile che un’impresa si preoccupi dei suoi stakeholder se non è in relazione con essi. Per inciso, quest’ultima ipotesi è validata dalle nostre regressioni. Il nostro risultato chiave sarà che il tradeoff ipotizzato non esiste: imprese più coesive – e quindi più orientate all’RSI – hanno performance in media migliori delle omologhe meno coesive. Dunque, quanto meno a partire dai nostri dati, essere coesive non comporta penalità ma, semmai, benefici: le imprese coesive non sono un sogno – qualcosa di bello, però insostenibile – ma una realtà. La coesività dà risultati win-win: rende le imprese più utili socialmente e più competitive.


The financial crisis and its consequences on the real economy and society raised questions on the neoliberal view that profit should be the unique aim of a firm, highlighting instead the role of Corporate Social Responsibility (CSR). Firms paying more attention to stakeholders now are considered important to foster social inclusion. But is there a trade-off between CSR and firm performance? If promoting social inclusion harms the firm performance, this path will be unsustainable. Otherwise, if there is no trade-off, CSR will only do good. On the basis of a Unioncamere survey, we investigate this trade-off. In particular, instead of examining the firm tendency towards CSR– which generally suffers from measurement problems, especially in the Italian context of small-medium and family-owned enterprises – we will analyze the prerequisite of CSR, namely the firm’s cohesiveness. Indeed, a firm is cohesive if it relates with its stakeholders, and it would be unthinkable that a firm pays attention to its stakeholders if it doesn’t relate with them. The hypothesis that cohesiveness favors CSR is supported by our regression results. However, our main finding is that the trade-off defined above doesn’t exist: firms that are more cohesive, and thus more CSR oriented, display better performance than non-cohesive firms. Thus, according to our results, cohesiveness does not give penalties but rather benefits: cohesive firms aren’t a dream but reality. Cohesiveness yields win-win results: it makes firms both more socially useful and more competitive.

DOI: 10.7425/IS.2017.10.04

Introduzione

Di fronte ad un’incertezza accresciuta dalla globalizzazione dei processi produttivi, dai mutamenti tecnologici e ambientali nonché dal disagio lasciato dalla crisi, la coesione sociale è fattore sempre più importante a sostegno dello sviluppo. Solo dieci anni fa questa considerazione non sarebbe stata condivisa dai più. Allora, prima dell’inizio della crisi finanziaria globale, dominava il Washington consensus che prescriveva a tutti i paesi di liberalizzare i mercati, la finanza e aprirsi a liberi movimenti di capitali, imponendo ai paesi in crisi austerità fiscale, privatizzazioni e liberalizzazioni del mercato. Un corollario di tale credo liberista era il focus dell’impresa sulla sola massimizzazione del profitto, da cui derivava la prescrizione di una forma societaria unica. In tale visione era scarsa l’attenzione al capitale sociale.

Nella contrapposizione Friedman vs. Freeman, aveva decisamente prevalso il primo. Infatti, il premio Nobel per l’economia Milton Friedman aveva sostenuto che la massimizzazione del profitto corrente è l’unico modo per l’impresa di conseguire obiettivi di valore sociale. Non a caso il suo famoso editoriale del New York Times Magazine del 1970 s’intitolava “La responsabilità sociale delle imprese è quella di aumentare i propri profitti”, massimizzando così il valore per gli azionisti (Friedman, 1970). Al contrario, secondo Freeman, il fondatore della Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI), l’impresa non deve preoccuparsi solo dei suoi azionisti ma anche degli altri suoi stakeholder (portatori di interessi), quali dipendenti, clienti, ecc. Dunque, in tale visione, l’obiettivo dell’impresa, anziché la mera massimizzazione del valore per gli azionisti, deve essere la massimizzazione del benessere per il complesso degli stakeholder, un concetto più ampio e da molti ritenuto nobile ancorché controverso in termini di precise definizione e misura (Freeman, 1984).

Oggi molto sta cambiando, e velocemente. Lo sviluppo sostenibile è entrato a pieno regime nelle agende della maggior parte dei paesi mondiali, pur con qualche eccezione; sta crescendo la necessità di misurare il benessere economico oltre al livello della produzione dato dal Prodotto Interno Lordo (Fitoussi et al., 2009; Rinaldi, Zelli, 2014; Istat, 2016; The Economist, 2016); dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) arrivano suggerimenti di policy che segnano una svolta pressoché a centottanta gradi rispetto al Washington consensus: dal dopo crisi, l’FMI ammonisce che affidarsi agli afflussi di capitali può essere pericoloso (The Economist, 2010); più di recente raccomanda spesso di abbandonare l’austerità fiscale e, anziché solo alla crescita del PIL, pare interessarsi a una crescita inclusiva e sostenibile.

Questa svolta nell’impostazione di policy ha implicazioni assai rilevanti anche per il ruolo dell’impresa nell’economia di mercato: dalla visione riduzionista dell’impresa come unicamente dedita al profitto si sta virando verso una concezione in cui l’impresa recupera una funzione multidimensionale nel proprio contesto di riferimento (Castellani, Ferri, 2016). Del resto, un’indagine di qualche anno fa condotta da Edelmann (2012) ci consente di scoprire che l’impostazione di Milton Friedman (l’impresa deve preoccuparsi solo di fare profitti) non è condivisa dalla maggior parte della popolazione in molti paesi, specie in quelli europei quali Italia, Germania, Francia, Spagna e anche il Regno Unito.

L’attenzione cresce, dunque, verso le imprese che, anche facendo propri i codici della responsabilità sociale d’impresa, si interessano pure al benessere del complesso dei propri stakeholder, che investendo nel capitale sociale alimentano quindi la coesione sociale, in un sistema di condivisione con istituzioni e cittadini (Zamagni, 2013).

Obiettivo di questo saggio è misurare la capacità di coesione sociale dell’impresa – il suo grado di “coesività” – attraverso un’analisi sui suoi comportamenti in termini di relazionalità con gli attori economici e sociali, per poi testarne gli effetti sulle performance[1]. Ciò nella consapevolezza che il capitale relazionale è il presupposto di una sostanziale adesione a logiche di RSI e rappresenta un elemento o addirittura una forma specifica del capitale sociale (Migheli, 2012a). Infatti, per le imprese coesive intrattenere forti relazioni con gli attori economici e istituzionali dello sviluppo è sia premessa che risultato dell’essere coesive. In tal senso, possiamo pensare le imprese coesive come un fertilizzante naturale, un input immateriale che genera economie esterne positive e alimenta lo sviluppo economico delle altre imprese, nonché il benessere nel contesto socio-economico di riferimento.

Va osservato che studiare il fenomeno delle imprese coesive è ancor più importante oggi che in passato. Ciò per due motivi principali. In primo luogo, il contesto sociale ed economico attuale soffre il pesante lascito della lunga e profonda crisi; perciò, con fenomeni di disuguaglianza crescente e di ampliamento della popolazione in stato di povertà o semi-povertà, promuovere una crescita inclusiva acquisisce un valore ancor maggiore del passato. In secondo luogo, e non meno rilevante, occorre verificare se la capacità dell’impresa di essere “coesiva” produca effetti positivi sul capitale sociale ed il benessere dei contesti di riferimento a discapito della propria performance economica e competitività. Se così fosse, quello sviluppo inclusivo potrebbe rivelarsi non sostenibile. Se, invece, si riscontrasse che al crescere della “coesività” corrispondono performance economiche migliori (o quantomeno non peggiori), allora sì potremmo affermare che ci si trova in una situazione win-win. Cioè, una situazione in cui l’essere coesive rende quelle imprese più utili da un punto di vista sociale e, al tempo stesso, con performance di eccellenza.

Questo articolo è così strutturato: il primo paragrafo descrive il quadro teorico di riferimento sulle relazioni tra capitale sociale e relazionale rispetto allo sviluppo economico in termini sia macroeconomici che microeconomici; a seguire si illustrano la base dati di riferimento e la metodologia di misurazione del grado di “coesività” delle imprese; nel paragrafo successivo si espone il metodo di analisi e si commentano i relativi risultati; infine le conclusioni.

Rassegna della letteratura

La letteratura socio-economica si è interrogata a lungo sul significato di capitale sociale (es. Iannone, 2006), anche con specifico riferimento alla vita dell’azienda. Si è arrivati ad affermare che il valore dell’impresa deve essere misurato tenendo conto anche degli intangible assets, di cui il capitale sociale ne costituisce un elemento, assieme ad altri quali il capitale umano, la proprietà intellettuale, i marchi, ecc. (Migheli, 2012a). Nel momento in cui il capitale sociale viene definito come il complesso delle risorse presenti all’interno di un determinato insieme di relazioni che producono benefici a coloro che vi hanno accesso (Colemann, 1988; 1990; Putnam, 1993; Fukuyama, 2000), diventa chiaro come la relazionalità costituisca un elemento fondante del capitale sociale. Tant’è che si parla anche di capitale relazionale (Camagni, 1999; Camagni, Capello, 2002) inteso come una forma o un elemento stesso del concetto di capitale sociale (Migheli, 2011)[2].

Proprio da questa consapevolezza nasce l’opportunità di riuscire a studiare la coesività delle imprese, sulla base della loro capacità di relazionarsi con gli attori economici e sociali. La letteratura economica ha approfondito i rapporti tra capitale sociale e capitale relazionale (Hitt et al., 2002) cercando di trovarne delle specificità, vedendo nel capitale relazionale i rapporti esterni all’impresa e attribuendo al capitale sociale, invece, un concetto più ampio che comprende anche le relazioni interne all’azienda.

In pratica, in qualità di asset di un’impresa, il capitale sociale viene considerato direttamente o indirettamente una vera e propria forma di capitale in senso economico, cioè un fattore dello sviluppo a livello tanto micro quanto macro (Helliwell, Putnam, 1995; Knack, Keefer, 1997; Benabou, Tirole, 2006; Guiso et al., 2014). È così che il capitale sociale, o più specificatamente il capitale relazionale, arriva ad assumere i connotati di un vero e proprio fattore di produzione (à la Solow), perché riproducibile e generatore di benefici per i suoi detentori (Migheli, 2012a).

La letteratura ha molto approfondito il ruolo del capitale sociale come fattore che promuove l’innovazione e lo sviluppo inclusivo. Uno studio particolarmente utile è quello di Westlund e Adam (2010): gli autori svolgono una rassegna approfondita su 65 lavori che hanno studiato l’impatto del capitale sociale – definito in vari modi – sulla performance delle imprese e in termini di crescita economica[3]. La Tabella 1, da noi adattata, sintetizza i risultati principali del loro studio; è facile vedere come vi sia una larga predominanza di risultati “positivi”: vale a dire, il capitale sociale, misurato in modi diversi e in tanti contesti e periodi differenti, esercita un impatto favorevole sulle performance d’impresa[4];testate dai principali indicatori di bilancio – con effetti diretti sulla produttività dei dipendenti (Greeve et al., 2006) – e dall’innovazione (Landry et al., 2000). Senza considerare altri effetti positivi legati al fatto che le reti sociali consentono agli operatori di conoscere le informazioni del mercato riducendo così le asimmetrie informative (Fafchamps, Minten, 2001) e agevolando lo sviluppo dei propri prodotti (Kingsley, Malecki, 2004); inoltre, il rafforzamento della rete con i consumatori è un altro elemento che contribuisce a migliorare le performance (Fafchamps, Minten, 2001). Anche sul piano macroeconomico il capitale sociale conferma i suoi effetti positivi sulla crescita produttiva misurata, prevalentemente, con il PIL pro capite.

Un’esperienza italiana di analisi sugli effetti del capitale relazionale sulla performance economica dell’impresa (in termine di conseguimento di un utile) è offerta da Migheli (2012a) sulla base di un’indagine su un campione di imprese piemontesi: in tale studio il capitale relazionale è misurato dai rapporti dell’impresa con il territorio, che è rappresentato principalmente da clienti, fornitori, istituzioni locali (enti territoriali, università, centri di ricerca, ecc.) e partner di altra natura[5]. I risultati evidenziano un effetto significativamente positivo sulla probabilità di conseguire un utile esercitato dalle relazioni con gli enti pubblici territoriali e dai legami stabili con fornitori e partner.

Quindi, alla luce di quanto finora descritto, si rivela importante studiare il fenomeno delle imprese coesive, cioè di quelle imprese che investono nel capitale relazionale rispetto ai propri stakeholder.

Da ultimo, un altro aspetto degno di nota è il fatto che si ritiene molto più affidabile considerare la coesività dell’impresa rispetto alla sua RSI quando si ha a che fare con imprese medio-piccole. Infatti, anche quando in effetti si impegnano al riguardo, le medio-piccole non sempre fanno un reporting formale della propria condotta RSI (Murillo, Lozano, 2006; Mousiolis et al., 2015; Baumann-Pauly et al., 2013; Jansson et al., 2017). Siccome la coesività appare un presupposto della RSI, verificheremo, in ogni caso, anche che una maggior coesività dell’impresa implichi una maggiore attenzione agli stakeholder.

Tabella 1. Sintesi dell’impatto del capitale sociale (C.S.) in un ampio insieme di studi | Fonte: nostro adattamento da Westlund e Adam (2010)

Descrizione dei dati e del metodo di classificazione delle imprese coesive

Database

Le analisi sono state eseguite sui risultati di un’indagine Unioncamere svolta nel 2015 su un campione di 1.300 imprese manifatturiere appartenenti ai settori manifatturieri delle 3A (Alimentare, Abbigliamento, Arredamento) e della meccanica, aventi un numero di addetti compreso tra le 20 e le 499 unità. Il campione è statisticamente significativo e rappresentativo dell’universo formato da 22mila imprese. Il questionario della rilevazione affronta i seguenti temi: caratteristiche strutturali[6];(numero di addetti, governance, appartenenza ad un gruppo, ecc.); andamenti congiunturali (fatturato, export, occupazione, ecc.); competitività (strategie aziendali, innovazione ecc.); strategie di localizzazione (sia produttiva che commerciale); rapporti di filiera e relazionalità (rapporti con i subfornitori e altre imprese, con le istituzioni, con i clienti, con i centri di ricerca e le Università).

Misurazione del grado di “coesività” delle imprese

Considerando la multidimensionalità dei concetti di capitale sociale e di coesione, resta aperta la questione di come identificare una definizione operativa di impresa coesiva. Questo è un passaggio necessario per poter svolgere le analisi tese ad appurare se la caratteristica di essere coesiva fornisce all’impresa, in effetti, un plus anche in termini di performance. Più che procedere ad una bipartizione tra “impresa coesiva” e “impresa non coesiva”, si è ritenuto opportuno misurare il grado di “coesività” dell’impresa per cogliere in maniera più ampia e precisa il fenomeno, evitando di procedere ad una ripartizione dicotomica che spesso incorpora una buona dose di soggettività nello stabilire il metodo di suddivisione tra le due modalità.

Il processo di misurazione si è sviluppato secondo una serie di passaggi. Rifacendosi alla teoria del capitale relazionale e alle sue interconnessioni con il capitale sociale, il primo step è stato l’individuazione degli attori economici e sociali oggetto della relazionalità da parte dell’impresa, considerando che le reti possono essere sia interne che esterne (Migheli 2012a). Per quanto riguarda le reti interne, sono state analizzate le relazioni con i lavoratori, tenendo conto: da un lato, che una delle funzioni di tali reti è il trasferimento di conoscenza tra i lavoratori (Teachman et al., 1997; Healy, 2001); e, dall’altro, che l’attenzione alla qualità dei rapporti di lavoro è un tratto caratteristico della coesività, che significa anche lealtà e condivisione degli obiettivi, elementi “taciti” dello sviluppo della produttività e innovatività (Becattini, 2009). Riguardo alle reti esterne, in linea con Westlund e Nilson (2005) e Migheli (2012a), sono stati presi in considerazione i rapporti con le altre imprese e con i consumatori[7]. Riguardo ai primi, si è tenuto conto delle collaborazioni formali e partnership con altre imprese in tema non solo di subfornitura ma anche di innovazione, logistica e distribuzione, R&S e iniziative di ricerca applicata includendo in questo caso anche le Università e i centri di ricerca; riguardo alle seconde (rapporti con i consumatori), si è ricorsi ai canali legati alla digitalizzazione (social network, e-marketing, ecc.).

Inoltre, sono stati considerati anche altri attori presenti nel territorio con i quali l’impresa può instaurare rapporti. Si tratta di istituzioni rappresentate dagli enti locali e dalle associazioni di categoria (Westlund, Nilson, 2005; Migheli 2012a) da un lato, e dal sistema bancario, dall’altro; quest’ultimo costituisce, soprattutto nel caso italiano, un importante motore della coesione territoriale pensando al tessuto imprenditoriale formato da piccole imprese e spesso a gestione familiare (Ferri et al., 2014; Pini, Quirino, 2016), dove la relazionalità e la fiducia di “prossimità” possono rivelarsi un requisito importante nei rapporti banca-impresa (Ferri et al., 2016).

Infine, tra i vari attori del territorio con i quali le imprese possono relazionarsi, è indispensabile tenere presente quelli attinenti al mondo del non profit, anche perché lo sviluppo e, soprattutto, la sua sostenibilità nel tempo, passa dalle interazioni del mercato con la vita civile (Bruni, 2013a; Bruni, Zamagni, 2004; 2009; 2015; Zamagni, 2007; Venturi, Zandonai, 2016), in cui la logica di mercato (scambio di equivalenti) coesiste e interagisce non solo con quella del settore del settore pubblico (redistribuzione della ricchezza) ma anche con quella del dono (beni relazionali).

Riepilogando, il livello di “coesività” viene misurato sulla base di sei tipologie di relazioni (dimensioni) che possono intrattenere le imprese con:

  1. lavoratori
  2. altre imprese, centri di ricerca e Università
  3. istituzioni (enti locali)
  4. banche e associazioni di categoria (attori territoriali a supporto delle imprese)
  5. non profit
  6. consumatori.

Sulla base di quanto specificato, di seguito (Tabella 2) si riportano le domande individuate nel questionario e le relative modalità di risposta espressive delle sei dimensioni della relazionalità dell’impresa.

Tabella 2. Domande e relative modalità di risposta alla base dell’individuazione delle imprese coesive

Il passaggio successivo è stato quello di selezionare a livello di singola impresa e per ciascuna delle sei tipologie di relazioni, se esiste o meno una relazione, arrivando così alla definizione di sei variabili dummy (1=l’impresa si relaziona; 0=l’impresa non si relaziona). Operazione che ha previsto, nel caso delle dimensioni formate da più domande, l’attribuzione del valore 1 all’impresa che ha risposto “positivamente” (nel senso della relazionalità ad almeno una di esse). Infine, sempre a livello di singola impresa, si è proceduto a sintetizzare i valori (1/0) assunti per ciascuna delle sei tipologie di relazionalità attraverso la media semplice, arrivando così ad un indicatore che varia da 0 a 1. Nelle analisi econometriche, sono stati utilizzati i valori espressi in termini logaritmici («log_imp_coes_mean»).

Variabili di controllo

Le variabili di controllo utilizzate nelle stime econometriche fanno riferimento alle seguenti caratteristiche strutturali dell’impresa: la dimensione sulla base della distinzione tra piccole imprese (20-49 addetti) e medio grandi (50-499 addetti); la localizzazione geografica secondo le quattro macro-ripartizioni dell’Italia (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud e Isole); il settore a seconda dell’appartenenza a quello delle 3A (Alimentare, Abbigliamento e Arredamento) e a quello della meccanica; la tipologia di attività svolta, con la distinzione tra progettazione, produzione e vendita di beni e servizi intermedi, produzione e vendita di beni e servizi finiti, commercializzazione; l’appartenenza o meno ad un gruppo aziendale; la governance, distinguendo le imprese familiari da quelle non familiari. Sono state adottate anche altre variabili di controllo relative all’andamento del fatturato e dell’occupazione nel passato e all’innovazione.

Oltre a queste variabili, ne sono state prese in considerazione anche altre, di diversa natura, ritenute potenzialmente connesse al tema della coesione sociale e della RSI, espressive dei rapporti dell’impresa con la comunità territoriale in relazione a determinate dinamiche di internazionalizzazione (delocalizzazione produttiva, ecc.); considerando che il territorio, come evidenziato dalla scuola italiana, è il luogo di incontro fra tradizioni, cultura produttiva e coesione sociale[8];(Becattini, 1979; 1989; 1990; 2007; Becattini, Rullani, 1993; Bruni, 2013a; Brusco, 1994; Camagni, 1995; Garofoli, 1993; 1994); rivelandosi peraltro un fattore di competitività per l’impresa (recentemente, Pini, 2017). Nello specifico, si tratta delle seguenti quattro variabili: una prima che indica la scelta delle imprese di effettuare investimenti di tipo produttivo all’estero («inv_esteri_prod»), che può fornire indicazioni sulla delocalizzazione; una seconda, sempre sugli investimenti all’estero ma di tipo commerciale («inv_esteri_comm»); una terza variabile, più specifica, sulla scelta delle imprese di non ridurre le sedi produttive in Italia («sedi_ita_aumstaz»); infine, in tema di territorio, si è tenuto conto anche della distrettualità attraverso una quarta variabile che indica se l’impresa opera o meno in un distretto industriale («distr»).

Per l’analisi di robustezza della relazione tra coesività e attenzione agli stakeholder si è ricorsi ad una variabile che suddivide le imprese tra quelle che ritengono come compito principale la massimizzazione del profitto e quelle che invece vedono come principale fine il soddisfacimento degli interessi non solo dei proprietari, ma anche dei clienti e fornitori, la creazione di benessere e lo sviluppo di una cultura produttiva basata sulla qualità, bellezza e sostenibilità («stakehold»).

Tabella 3. Descrizione delle variabili

Statistiche descrittive

La Tabella 4 riporta le statistiche descrittive delle variabili utilizzate nelle analisi econometriche. Innanzitutto è opportuno soffermarsi sulla relazionalità delle imprese, visto che è alla base della misurazione del grado di coesività. Più della metà delle imprese (59,2%) ha esperienze di collaborazione e partnership con altre imprese, centri di ricerca e Università, e quasi il 40% intrattiene relazioni con i consumatori, mentre poco più del 30% con il sistema bancario e associativo del territorio. Un po’ meno diffuse sono le relazioni che le imprese intrattengono con il mondo del non profit (il 24,7% contribuisce o realizza direttamente iniziative solidaristiche), così come rispetto ai lavoratori in termini di cura della qualità dei rapporti di lavoro e investimenti in competenze (23,9%). Le relazioni con gli enti locali, in termini di rafforzamento di rapporti e collaborazioni, sono quelle meno intense riguardando solo il 10,7% del totale. In media, il grado di “coesività” delle imprese corrisponde al 31,1%.

Tabella 4. Statistiche descrittive | Nota: Standard error in parentesi

Poco più della metà delle imprese (59,7%) sono di piccola dimensione (20-49 addetti), mentre dal punto di vista settoriale la ripartizione è quasi equa, con il 48,6% delle imprese che operano nel settore delle 3A e il 51,4% in quello della meccanica. Rispetto invece alla tipologia di attività, prevalgono le imprese che producono prodotti finiti (42,2%) e a seguire quelle che producono beni e servizi intermedi (34,3%) arrivando nel loro insieme a rappresentare oltre i tre quarti del totale delle imprese del campione.

Dal punto di vista geografico, i due terzi delle imprese operano nell’Italia settentrionale, con una maggiore presenza nel Nord-Est (35,4%) rispetto al Nord-Ovest (29,7%), mentre nel Centro si concentra il 20,3% del totale nazionale e nel Sud e Isole il 14,6%. Dal punto vista della governance, le imprese familiari sono ampiamente diffuse (88,6%), mentre abbastanza limitata è la quota di imprese che appartiene ad un gruppo aziendale (20,8%). La distrettualità è un fenomeno ampiamente presente tra le imprese oggetto di analisi, visto che quasi il 40% di esse opera nei distretti.

La maggior parte delle imprese (79,2%) non ha come unico obiettivo la massimizzazione del profitto, ponendo attenzione invece anche a molto altri aspetti, quali gli interessi degli stakeholders, la qualità, la sostenibilità, il benessere socio-economico della comunità.

Osservando le performance, poco più del 40% delle imprese ha dichiarato il fatturato in aumento nel 2015 rispetto al 2014 (41,6%) così come gli ordinativi esteri (44,4%). Mentre l’occupazione in aumento, con riferimento al 2014 sul 2013, riguarda una quota più bassa di imprese (23,6%). Il 72,5% delle imprese sviluppa innovazioni.

Riguardo all’internazionalizzazione, tre quarti delle imprese sono esportatrici (74,6%), il 4,7% ha realizzato nel triennio 2013-15 investimenti esteri di tipo produttivo e il 6,2% di tipo commerciale. Sempre nello stesso arco temporale, la netta maggioranza (96,4%) delle imprese ha dichiarato di non aver diminuito il numero di sedi (produttive, commerciali, logistiche) in Italia.

Analisi di regressione e commento dei principali risultati

Il metodo

Dato il grado di “coesività” delle imprese come precedentemente descritto, i suoi effetti sulle performance sono stimati attraverso il seguente modello probit, applicato in relazione a ciascun indicatore posto di volta in volta come variabile dipendente:

(1) P (Y= 1|C, Si ) = Φ (β0+ β1C+ β2S)

dove Yi rappresenta, per ogni indicatore, la probabilità di performance positiva per l’impresa i-esima, nello specifico: i) aumento del fatturato nel 2015 (colonna 1); ii) aumento degli ordinativi esteri nel 2015 (colonna 2); iii) presenza nei mercati esteri (colonna 3); iv) aumento degli occupati nel 2014 (colonna 4). Inoltre, riguardo alla relazione coesività-attenzione agli stakeholder, Yi rappresenta anche la probabilità di essere impresa che ha come mission il benessere socio-economico, cioè non massimizzatrice del profitto (colonna 5). Φ è la funzione cumulata di una normale standardizzata. Il vettore Ci indica il grado di coesività espresso in termini logaritmici; il vettore Si fa riferimento alle variabili di controllo relative alle caratteristiche strutturali dell’impresa e al tema del territorio e internazionalizzazione; inoltre lo stesso vettore comprende anche alcuni indicatori di performance ritardati. Tutte le variabili, a parte quella sulla coesività, sono binarie. Tutte le stime sono state realizzate con il software STATA versione 13.

Risultati e discussione

La Tabella 5 riporta i risultati delle analisi econometriche. Emerge un effetto positivo e fortemente significativo (p<0,01) della coesività sulla probabilità di aumento del fatturato complessivo (colonna 1), così come rispetto all’incremento degli ordinativi esteri (colonna 2). Conferme sulla virtuosa relazione coesività-competitività internazionale si ottengono anche dal positivo effetto marginale, sebbene con un livello inferiore di significatività[9];(p<0,1), rilevato con riferimento alla probabilità di essere impresa esportatrice (colonna 3). Quindi, al crescere del grado di coesività dell’impresa, cioè della sua propensione alla RSI, migliorano le performance economiche, favorite anche da una maggiore apertura verso mercati di sbocco oltreconfine. Più in generale, ciò sembra, molto verosimilmente, essere il riflesso anche di una crescente attenzione da parte della domanda sui contenuti “sociali” del “come” i beni sono stati prodotti.

Questa particolare caratteristica dell’impresa legata a comportamenti improntati verso una maggiore attenzione nei confronti degli stakeholder contribuisce ad imprimere una spinta anche alla crescita occupazionale: è positivo e particolarmente significativo (p<0,01) l’effetto marginale della coesività sulla probabilità di aumento del numero di occupati dell’azienda (colonna 4). Tale risultato non è da ascrivere, verosimilmente, solo ai positivi risultati economici dell’impresa, perché verifiche sulla robustezza del legame tra la coesività e la RSI dimostrano che il grado di coesione dell’impresa mostra una relazione positiva e fortemente significativa (p<0,01) sulla probabilità di essere un’impresa non massimizzatrice del profitto (colonna 5): cioè attenta alla sostenibilità socio-economica, tra cui rientra anche la creazione di occupazione e di benessere (vedi Tabella 3 sulla descrizione della variabile «stakehold»).

Tabella 5. Coesività, performance di impresa e RSI | Nota: In tabella sono riportati i coefficienti relativi agli effetti marginali del modello probit. La variabile dipendente è riportata sopra le colonne. Standard error in parentesi. *** p<0,01 ** p<0,05 * p<0,1.

Quindi, i risultati che emergono dalle stime indicano che tra RSI e performance d’impresa non esiste un tradeoff ma una virtuosa relazione, secondo cui la RSI contribuisce a rendere il modo di fare impresa competitivo e socialmente utile e sostenibile. Una relazione che sembra trovare ulteriori conferme su come l’attenzione al territorio di riferimento dal punto di vista della produzione, che può essere vista come un volto della coesione e della RSI, si rifletta positivamente sulle performance di impresa. Infatti, la volontà di aumentare, o comunque di non diminuire, le sedi di produzione in Italia («sedi_ita_aumstaz») mostra un effetto positivo e fortemente significativo (p<0,01), nonché particolarmente incisivo dato l’elevato livello del coefficiente, sulla probabilità di aumento del fatturato, dell’occupazione e di vendere nei mercati internazionali.

Una controprova di tale risultato è data dall’assenza di significatività dell’effetto marginale degli investimenti produttivi all’estero su entrambi i risultati economici relativi a fatturato e ordinativi esteri. E anche se è vero che l’effetto di tale tipologia di investimenti rispetto alla capacità di vendere all’estero mostra una certa significatività (p<0,05), è altrettanto vero che si tratta sempre di una relazione inferiore, tanto per significatività stessa quanto per valore del coefficiente, rispetto alla scelta di produrre in Italia. Si rilevano semmai gli investimenti all’estero di tipo commerciale (distribuzione e promozione) una determinante nel favorire il miglioramento delle performance dell’impresa, visti gli effetti marginali particolarmente significativi sulla probabilità di incremento del fatturato e degli ordinativi esteri, nonché sulla propensione all’export (p<0,01); e in parte anche sulla probabilità di aumento dell’occupazione (p<0,05).

Tra le altre variabili di controllo si rilevano almeno quattro risultati degni di nota: gli effetti marginali significativi tra l’1% e il 5% dell’innovazione sui risultati economici aziendali (fatturato e ordinativi esteri); la contrapposizione di segno del coefficiente della distrettualità tra quello negativo rispetto alla probabilità di aumento del fatturato (p<0,05) e quello positivo rispetto alla propensione all’export[10];(p<0,01); la minore probabilità delle piccole imprese di vedere sui mercati esteri e di riuscire ad incrementare l’occupazione; infine, la minore probabilità di esportare delle imprese localizzate nel Sud e Isole, confermando i risultati di recenti studi sulle relazioni tra dimensione, localizzazione geografica e performance di impresa (Pini, Quirino, 2016).

Conclusioni

La stagione delle grandi crisi – prima finanziaria, poi dell’economia reale e, infine, sociale – ha messo in discussione il credo neoliberista che l’impresa debba mirare solo al profitto, esaltando invece il ruolo della responsabilità sociale d’impresa (RSI). Dato il crescente bisogno di evitare l’esclusione sociale, sono ora giudicate particolarmente preziose le imprese responsabili verso gli stakeholder. Può però venire il sospetto che vi sia un tradeoff tra RSI e performance d’impresa. In effetti, se favorire l’inclusione sociale deprimesse i risultati dell’impresa, ciò potrebbe rivelarsi insostenibile. Se invece non ci fosse tradeoff, l’adesione dell’impresa alla RSI ne darebbe un miglioramento indiscusso.

Su dati tratti da un’indagine Unioncamere, abbiamo studiato quel tradeoff. Nello specifico, anziché considerare la propensione dell’impresa all’RSI – che spesso sfugge a una rilevazione formale, specie nella realtà italiana di imprese medio-piccole e familiari – ci siamo concentrati sul presupposto dell’RSI, cioè il grado di coesività dell’impresa. Infatti, un’impresa è coesiva se ha un’alta propensione alle relazioni con gli stakeholder ed è improbabile che un’impresa si preoccupi dei suoi stakeholder se non è in relazione con essi. Quest’ultima ipotesi è stata supportata dai risultati delle nostre regressioni. Tuttavia, il risultato chiave che abbiamo ottenuto è che il tradeoff richiamato non esiste: imprese più coesive – e quindi più orientate all’RSI – hanno performance in media migliori delle loro omologhe meno coesive. Dunque, almeno nei nostri dati, essere coesive non comporta penalità ma, semmai, benefici: le imprese coesive non sono un sogno – qualcosa di bello però insostenibile – ma una realtà. La coesività dà risultati win-win: rende le imprese più utili socialmente e più performanti.

Consapevoli dei limiti della ricerca incentrata su un analisi cross-section che si basa solo un segmento particolare del tessuto produttivo, sviluppi ulteriori potrebbero riguardare l’ampliamento tanto dal punto di vista dimensionale, osservando anche le imprese al di sotto dei 20 addetti, quanto da quello settoriale, coprendo un ventaglio più ampio di attività economiche, senza trascurare anche ulteriori approfondimenti di natura territoriale.

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Note

  1. ^ I primi approcci al tema sono stati sviluppati nei rapporti realizzati da Fondazione Symbola – Unioncamere (2014; 2016).
  2. ^ Sul concetto di capitale sociale come rete, cfr. (Migheli, 2011).
  3. ^ Altre esperienze dalle quali si possono desumere panoramiche di letteratura sulle relazioni tra capitale sociale e aspetti economici sono quelle di Durlauf e Fafchamps (2004) e Migheli (2012b).
  4. ^ Sull’importanza del capitale sociale per lo sviluppo delle imprese, cfr. anche Teachman et al. (1997) e Healy (2001).
  5. ^ «Il capitale relazionale viene definito e delimitato dall’insieme di tutti i soggetti con i quali, a diverso titolo, l’impresa intrattiene delle relazioni che abbiano un impatto diretto o indiretto con le sue principali variabili economiche» (Migheli, 2012a).
  6. ^ Alcune delle informazioni di carattere strutturale, quali ad esempio il settore di attività e la localizzazione, sono desunti dai dati di archivio.
  7. ^ 7. Anche Fafchamps e Minten (2001) sottolineano l’importanza della relazionalità con i fornitori e con i clienti ai fini del successo dell’impresa
  8. ^ 8. In tema di territorio e capitale relazionale, si arriva a toccare il concetto di milieu innovateur (Aydalot, 1986; Aydalot, Keeble, 1988; Camagni, 1991; Ratti et al., 1997; Camagni, Capello, 2002).
  9. ^ 9. Merita precisare che il livello del p-value è solo di poco superiore al 5%.
  10. ^ 10. Tale risultato sembra confermare in parte le difficoltà di un modello di relazionalità che sta evolvendo verso forme più ampie di firm relationship, ma che gode ancora del vantaggio del forte collegamento con i mercati esteri costruito nei decenni passati. Per approfondimenti sulle cause della crisi dei distretti, cfr. Varaldo (2004), Iannuzzi e Berardi (2012). Più recentemente, per analisi sulle diversità di performance tra distretti in risposta alla crisi economica, cfr. Coltorti (2013), Bellandi e Coltorti (2014).
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