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ISSN 2282-1694
Tempo di lettura:  7 minuti
data:  14 luglio 2020

Impresa sociale e finanza di impatto dopo la riforma: cosa cambia davvero? Praticamente nulla!

Carlo Borzaga

Cosa c’è di vero nell'affermazione che la possibilità di distribuire utili introdotta dalla riforma dell'impresa sociale cambi in modo significativo la convenienza ad investire nelle imprese sociali per soggetti finanziari alla ricerca di occasioni di impiego ad impatto sociale? La risposta è semplice: poco o nulla.


Nel dibattito sulla finanza ad impatto sociale viene spesso sostenuto che la riforma dell’impresa sociale introdotta con il d.lgs. n. 112 del 2017 attenuerebbe il vincolo di non distribuzione degli utili imposto dalla normativa precedente e che ciò renderebbe finalmente l’impresa sociale aperta all’ingresso del capitale privato e in particolare dei fondi di investimento alla ricerca di occasioni di impiego ad impatto sociale. Dall’enfasi posta su questa o simili affermazioni sembra che questa modifica rappresenti la più importante tra tutte quelle introdotte dalla riforma. E proprio per questo è importante verificarne la fondatezza, anche la fine di evitare che finisca per distogliere la riflessione da modalità di sostegno, anche finanziario, delle imprese sociali più efficaci e mirate.

L’Importanza posta sulla modifica della norma sulla distribuibilità degli utili è dovuta, secondo quanto sostenuto già da qualche anno dai fautori della finanza di impatto, essenzialmente a due ragioni: (i) che lo sviluppo dell’impresa sociale sarebbe rallentato, rispetto al suo potenziale, dalla carenza di mezzi finanziari e (ii) che le difficoltà di accedere alla finanza siano dovute essenzialmente al vincolo alla distribuzione di utili che caratterizzava prima della recente riforma queste imprese. Sono le stesse ragioni che hanno spinto i loro sostenitori a cercare di modificare – senza successo, per fortuna - la stessa definizione di impresa sociale, sia al momento della presentazione del disegno di legge da parte del governo che durante tutto l’iter che ha portato al testo definitivo, adoperandosi per evitare che la legge delega ponesse sul punto limiti incisivi al legislatore delegato. E ciò, nonostante gran parte della letteratura sul tema, le leggi di altri paesi (come il Regno Unito), la stessa Commissione Europea e molti operatori ritenessero e continuino a ritenere il vincolo alla distribuzione di utili una caratteristica fondante delle imprese sociali.

Ma cosa c’è di vero in queste affermazioni e in particolare nella convinzione che la previsione del decreto legislativo 112 cambi in modo significativo la convenienza ad investitore nelle imprese sociali?

La risposta è semplice: poco o nulla

Per giustificare un giudizio così netto è necessario iniziare mettendo in discussione le premesse, per passare poi ad analizzare cosa è veramente cambiato con la nuova normativa.

La tesi secondo cui il mancato sviluppo dopo la legge del 2006 di imprese sociali in forma di associazione, fondazione e srl - diverse cioè dalle già affermate cooperative sociali - sarebbe spiegato dal vincolo alla distribuzione di utili è quantomeno parziale: la ragione più convincente è piuttosto che la legge da una parte imponeva ad associazioni e fondazioni che avessero voluto assumere – perché ne avevano le condizioni - la qualifica di impresa sociale costi aggiuntivi, mentre, dall’altra, non concedeva alcun beneficio fiscale né a loro né a quelle che avessero scelto direttamente la forma di società di capitali, neppure sugli utili portati a riserva indivisibile di cui prima, in parte almeno, godevano. Ciò ha favorito anche dopo il 2006 sia la cooperazione sociale che infatti ha continuato a crescere, sia la diffusione di fondazioni e associazioni con attività commerciale elevata e crescente. Dimostrando che affrontare progetti di riforma con analisi sbagliate o quantomeno parziali non è un buon punto di partenza.

Più ipotizzate che reali, e comunque prive di sostegni empirici, sono anche le affermazioni sulla debolezza finanziaria delle imprese sociali e in particolare delle cooperative sociali. I pochi dati disponibili mostrano piuttosto il contrario non solo per l’Italia (Borzaga, Fontanari, Impresa sociale e finanza: un’analisi della situazione delle cooperative sociali italiane), ma anche per gli altri paesi Europei inclusi quelli – come il Regno Unito – dove l’impresa sociale ha una diffusione paragonabile a quella italiana ed assume forme diverse da quella cooperativa. Le cooperative sociali italiane - che sono al momento la forma di impresa sociale più diffusa – hanno raggiunto una capitalizzazione che supera ormai i 3 miliardi e presentano indici di liquidità e di sostenibilità superiori – nella media – a quelli di tutte le altre forme di impresa. Inoltre non risulta che il vincolo alla distribuzione di utili abbia in qualche modo impedito a questa imprese - nel complesso e non in singole specifiche situazioni - di soddisfare i loro fabbisogni di risorse finanziarie: infatti ancora i dati dimostrano che in ambedue i paesi (Italia e UK) essi risultano essere stati in larga parte soddisfatti dal sistema bancario. Al punto che sembra possibile sostenere che è proprio la solidità patrimoniale che deriva dalle limitazioni alla distribuzione di utili a facilitare i rapporti con il sistema bancario, a cui vanno peraltro diverse decine milioni di euro all’anno di interessi.

Se queste osservazioni non mettono solo in discussione, riducendola se non eliminandola del tutto, l’utilità di intervenire su una caratteristica fondante l’impresa sociale, resta da chiedersi se la nuova normativa modifichi davvero la convenienza – dal punto di vista dei rendimenti finanziari attesi - a investire nelle imprese sociali.

Tre sono gli aspetti da considerare.

Innanzitutto, la novità del rilassamento del vincolo riguarda solo le imprese sociali costituite in forma di srl o di spa, dal momento che dallo stesso sono escluse quelle costituite come fondazioni e associazioni e che le cooperative (a mutualità prevalente) sono già soggette a un vincolo simile anche se meno restrittivo. Come le cooperative (incluse quelle sociali), le imprese sociali costituite in forma di società di capitali hanno un doppio vincolo: possono distribuire non più del 50% degli utili (contro il 70% delle cooperative) e non possono remunerare il capitale conferito per più di 2,5 punti percentuali oltre il rendimento dei buoni postali. La parte restante va destinata a riserva indivisibile.

In secondo luogo, l’attenuazione del vincolo riguarda solo gli utili correnti e non il patrimonio. Il che significa che in caso di vendita totale o parziale e di chiusura dell’attività i soci possono ottenere solo quanto investito al valore nominale. Lo stesso vale nel caso di cessione di azioni o quote. In altri termini non è ammessa nessuna possibilità di quei capital gain su cui di norma contano i fondi di investimento, anche quelli con esplicita finalità sociale. Al punto che si può sostenere che nelle imprese sociali sia questo il vero vincolo, quello realmente stringente, alla distribuzione di utili.

In terzo luogo la nuova normativa prevede la totale defiscalizzazione degli utili non distribuiti (addirittura leggermente superiore a quella in vigore per le cooperative sociali) che ovviamente costituisce un importante incentivo a destinare gli avanzi di gestione al rafforzamento patrimoniale dell’impresa. Esattamente quello che è successo in Italia dal dopoguerra per le cooperative in generale e negli ultimi decenni per le cooperative sociali.

A questo punto la domanda ovvia è: cosa di sostanziale è cambiato rispetto a prima della riforma del 2017 dal punto di vista dei possibili finanziatori? Praticamente nulla. Come già prima per le cooperative sociali essi, a fronte dell’assunzione del rischio di impresa, dovrebbero accontentarsi di percepire – quando va bene - una remunerazione solo leggermente più alta di quella prevista per i titoli del risparmio postale o del debito pubblico. È certamente vero che il vincolo totale alla distribuzione di utili previsto dalla legge del 2007 era inutilmente penalizzante, con l’aggravante della mancata defiscalizzazione - e lo si era fatto presenta subito dopo l’approvazione della legge -ma è altrettanto vero che presentare la nuova regola come un’innovazione decisiva per il futuro dell’impresa sociale è sbagliato per almeno due ragioni: perché non è un’innovazione e perché non cambia in modo significativo assetti e convenienze. È del tutto condivisibile, soprattutto dopo l’impatto che la crisi in corso avrà anche sui patrimoni delle imprese sociali, che serva una finanza per le imprese sociali, ma non una finanza che cerchi di combinare – come sostenuto spesso nei dibattiti ma senza mai specificare in quali proporzioni – rendimenti economici e impatti sociali, bensì una finanza interessata solo alle conseguenze sociali dell’attività delle imprese finanziate, paziente – caratteristica non certo tipica dei fondi di investimento - e che si accontenti di rendimenti non superiori, nella migliore delle ipotesi, a quelli dei titoli di debito. Chi è davvero interessato al rafforzamento di queste imprese dovrebbe lavorare alla costruzione di questo tipo di finanza, costruendo ad esempio strumenti finanziari ad hoc che possano essere sottoscritti direttamente dai cittadini interessati o aiutando le istituzioni filantropiche ad evolvere verso forme di sostegno diretto al rafforzamento delle imprese sociali invece che alla realizzazione di progetti.

Rivista-impresa-sociale-Carlo Borzaga Euricse - Università degli Studi di Trento

Carlo Borzaga

Euricse - Università degli Studi di Trento

Già professore ordinario di Politica economica presso l’Università degli Studi di Trento, dal 2008 al 2022 è stato presidente di Euricse, di cui ora è presidente emerito. È stato tra i fondatori di EMES e di Iris Network, che ha presieduto per dieci anni. I suoi interessi di ricerca spaziano dal mercato del lavoro all’analisi economica delle cooperative, delle organizzazioni non profit e delle imprese sociali, dai sistemi di welfare all’organizzazione dell’offerta di servizi sociali e sanitari.

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