Sostienici! Rivista-Impresa-Sociale-Logo-Mini
Fondata da CGM / Edita e realizzata da Iris Network
ISSN 2282-1694
Tempo di lettura:  Ricostruire l'agibilità economica e sociale
Argomento:  Attualità
data:  17 aprile 2020

Il primo sostegno alle imprese? Ricostruire l'agibilità economica e sociale

Gianfranco Marocchi

Le politiche espansive a sostegno degli investimenti sono utili, ma richiedono prima il ripristino di condizioni di agibilità economica e sociale e di riequilibrio tra le diverse istanze costituzionali.


Prima il D.L. 18/2020, il “Cura Italia”, poi il D.L. 23/2020, il “Decreto liquidità” destinano ingenti risorse pubbliche al sostegno del sistema economico, individuando come strumento principale la facilitazione, tramite modalità particolarmente flessibili per l’operatività del fondo di garanzia per le PMI, del flusso di liquidità dagli istituti di credito alle imprese, e tra queste alle imprese sociali. In altre parole, per effetto di tali disposizioni, sarà possibile avere crediti in tempi più brevi, con la necessità di fornire minori garanzie, con possibilità di restituzione a lungo termine e tassi di interesse più bassi. Tutte cose senz’altro positive.

Il dibattito che si è sviluppato intorno a queste misure da parte del Terzo settore verte principalmente sulla loro problematica applicazione alla sua componente non imprenditoriale – associazioni, enti religiosi – anch’essi colpiti dalla crisi, in alcuni casi - come quello delle case di riposo - anche in modo molto più grave della maggior parte delle imprese, ma al momento esclusi dall’accesso a tale strumento.

È però a mio avviso utile porsi una domanda precedente e cioè: a cosa sono utili strumenti di questo tipo, centrati sulla liquidità e a cosa invece non sono utili?

Queste misure, a parere di chi scrive, sono efficaci nella fase emergenziale per combattere la carenza di liquidità di imprese che soffrono, ora e nell’immediato, una caduta dei ricavi e, a cascata, una diminuzione degli incassi da parte di altri soggetti economici che patiscono a loro volta la caduta di ricavi. Queste imprese rischierebbero di non essere in grado di onorare i propri impegni, di non riuscire a pagare lavoratori, Stato e fornitori e di essere trascinate in un fallimento, paradossalmente anche nel caso la loro struttura produttiva fosse sana. Una iniezione straordinaria di liquidità, unita a disposizioni quali la possibilità di ritardare il pagamento delle imposte e altre (sostanzialmente quelle del Cura Italia), può senz’altro rappresentare una politica utile ad evitare il depauperamento del nostro sistema produttivo e, di conseguenza, l’acuirsi della una spirale recessiva.

Ma, vi è da chiedersi, le stesse misure possono essere valide anche nella fase post emergenziale, in sostanza come leva di rilancio di un’economia destinata a subire, a quanto si legge nelle stime di queste settimane, una contrazione del PIL che a seconda delle diverse stime va dal 6% al 9%, cifre superiori a quanto subito dal nostro Paese sia nelle recenti crisi (2008 – 2012) sia novant’anni fa nella grande depressione, quando il PIL italiano calò del 5% circa?

E, rispetto al nostro specifico, queste ricette – mettere a disposizione liquidità, o anche capitali - possono essere efficaci per le imprese sociali, che come ben spiegato da Borzaga, si trovano a fronteggiare una crisi per molti versi più insidiosa rispetto a quella del recente passato, dalla quale peraltro sono, dati alla mano, spesso uscite rafforzate?

E su queste ultime due domande le risposte la risposta è invece più complessa. Sì, servono, possono servire, se associate ad altre; altrimenti no, costituiscono al contrario un impiego poco utile di denaro che tra l’altro brucia risorse che non potranno più essere utilizzate in altre forme.

Partiamo dal paradosso del 13 aprile, il paradosso delle librerie: salvo alcune Regioni che hanno previsto misure restrittive, a livello nazionale si è fatto un primo passo verso la normalizzazione: si sono riaperte le librerie; ma lo si è fatto in un contesto in cui comprare libri è illegale. Per spiegare meglio tale affermazione: non è illegale comprare libri in sé, ma sono illegali il contorno degli atti e degli atteggiamenti naturalmente legati all’acquisto di un libro in libreria: prima di tutto andarci, in libreria, forse consentito se il caso vuole che se ne abbia una nei pressi di casa, ma sicuramente a rischio di multe laddove ci si recasse ad esempio in una delle maggiori librerie del centro provenendo dalla periferia; e poi l’atto di girare tra i libri, sfogliare, guardare, toccare… tutto ciò che differenzia e qualifica l’acquisto in libreria rispetto ad un canale online. Non me ne vogliano i librai, ma se si tratta di entrare, restare a distanza, chiedere un libro al commesso, pagarlo e andarmene, forse lo acquisto su internet.

Questo paradosso – permettere qualcosa e al tempo stesso di fatto confinarla nell’illegalità – va al cuore del problema: tanto è stato nitida (con sbavature e progressivi riorientamenti, normali in una crisi inedita e complessa come questa) la nostra politica nel gestire la crisi, ammirata anche dagli altri paesi, tanto appare fumosa, indefinita, confusa la politica per uscirne.

E di qui la domanda: in questa situazione, cosa serve avere soldi in prestito (o anche capitale in abbondanza)? Chi investirebbe in una libreria in cui non si sa se i clienti potranno comprare, chi nel proprio ristorante che forse invece dei 60 coperti oggi disponibili dovrà limitarsi a 15 per rispettare le misure di distanziamento? Chi investirebbe anche una frazione delle proprie risorse senza prospettive chiare e senza soprattutto che siano state definite, anche temporalmente, le tappe per costruire un contesto sociale in cui proporre la propria attività imprenditoriale? E, di più, come si evidenziava nel già citato articolo di Borzaga, con che occhi può guardare il futuro un imprenditore sociale il cui mestiere è basato sul relazionarsi – per animare, curare, educare, divertire, assistere, insegnare, integrare, ecc., tutte azioni intensamente relazionali - in un contesto in cui è proprio la relazione ad essere al centro delle maggiori criticità? Forse in questo senso le difficoltà che vivono le imprese sociali non fa che riprodurre, in modo più estremizzato, le fatiche anche di molte altre imprese e dei cittadini.

Ciò rimanda ad un ulteriore passaggio, più profondo. Il presidente Conte, cui va riconosciuta la capacità di avere gestito la difficilissima fase emergenziale con modalità comunicative che sono riuscite a conquistare il consenso dei cittadini pur su misure difficilissime, ha ben richiamato, nei sui primi interventi televisivi, il carattere di eccezionalità costituzionale che si andava configurando, laddove, in luogo del consueto bilanciamento di istanze diverse, un articolo (il 32, diritto alla salute) e mezzo (la parte dei articolo 16 che nel garantire la libertà di movimento nel enuncia la possibile limitazione per motivi di sanità) di Costituzione soverchiavano e appiattivano tutti gli altri, compresi quelli inclusi nei principi fondamentali.

In che misura ciò è accettabile? In che misura la singola istanza della salute può prevalere sul diritto al lavoro, a riunirsi, a muoversi, a incontrare la propria famiglia, istruirsi, ricevere assistenza, ecc.? In che misura – non per legge ma nei fatti – rende accessorio ogni dibattito politico sulla gestione della crisi? In che misura può giungere a imporre pratiche disumane, come il morire in forzata solitudine, senza l’affetto dei propri cari e senza concedere a questi di salutare un genitore anziano nel momento del trapasso, anche quando vi sia piena consapevolezza del rischio corso e delle conseguenze in termini di necessario successivo autoisolamento?

La risposta, come è stato spesso osservato, sta nel carattere di eccezionalità e limitatezza nel tempo. Invece del bilanciamento delle varie istanze (a dire il vero, pensando al rapporto tra salute e lavoro, con una certa resistenza nella storia del nostro Paese, dall’ACNA, all’Eternit, all’Ilva, a considerare degnamente la prima in relazione al secondo), in questa situazione eccezionale, il diritto alla salute prevale su ogni altro principio.

Ma nondimeno va sempre ricordato che tali istanze fondamentali, ancorché accantonate nella piena emergenza, vivono; e che quindi dev’essere inderogabile impegno delle Autorità riportarle alla luce nel minore tempo possibile, nel caso bilanciandole con esigenze diverse quali appunto la salute; “inderogabile impegno”, che è cosa ben diversa dal ritenere che, per un tempo non ben definito, sino al verificarsi di condizioni altrettanto indefinite, da valutarsi e accertarsi da parte di organismi tecnici altrettanto evanescenti e non titolati a farlo (e comunque competenti solo sul tema della salute), esse possano rimanere sospese. Il ritardare la realizzazione di soluzioni – siano presidi di protezione, app, esami sierologici o altro - che consentano il ripristino di atti quali il lavorare, l’incontrarsi, l’istruirsi, ecc. non è un semplice caso di maggiore o minore efficienza della macchina pubblica: è un atto che colpevolmente dissolve garanzie costituzionali fondanti la nostra convivenza.

E per questo sono disturbanti la retorica sul controllo con i droni, gli accenti trionfalistici per avere scovato con tali avanzati strumenti – dotati di sensori a infrarossi per la visione notturna - due pericolosi fidanzatini che si muovevano a tarda sera per le vuote vie del centro; le denunce paranoiche da parte di cittadini che vedono in chiunque cammini per strada l’untore di manzoniana memoria, l’irrisione del cittadino che ambiva ad un contatto intimo, l’accanimento contro il rider (mi si perdonino gli esempi tutti della mia città, ma penso che chiunque possa riscontrarne di simili nel luogo in cui vive). Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il rispetto della legalità, ma con istinti sociali che oggi sotto la bandiera della salute, domani sotto altre (la sicurezza?) sono ben inclini a sbilanciare l’equilibrio costituzionale in senso inquietante.

Cosa c’entra tutto ciò con il punto da cui siamo partiti? C’entra, perché è del tutto inutile pompare liquidità in un sistema ove non si riesca a ricostruire un barlume di quotidianità, pur se modificata. In una situazione di cattività, di persone estraniate da luoghi e relazioni, non si produce e se mai si producesse non si acquista, tutto è sospeso.

L’obiezione nota – “la salute prima di tutto” – non può essere, a quasi due mesi dall’inizio dell’emergenza e con la prospettiva di inevitabile convivenza prolungata con il virus, invocata nelle stesse forme; e comunque, anche solo parlando di salute, le istanze Covid-19 vanno bilanciate con i danni non solo derivati dal rallentamento dell’attività economica, ma anche dall’aumento dei TSO, al disagio dei minori denunziato anche dal Garante per l’Infanzia, alla solitudine degli anziani, alle persone con disabilità non più seguite, le donne riunchiuse in ambienti violenti, ecc. Tanto più che sta emergendo come alcuni degli esiti più catastrofici non siano dovuti a contatti occasionali nei residui spazi di socialità – né, in fin dei conti, a pratiche ferocemente deprecate come i treni verso il sud -, ma a scelte politico amministrative sconsiderate quali le deliberazioni killer di alcune Regioni che hanno scelto di collocare malati presso le RSA o comunque di non presidiare come dovuto questi luoghi sensibili. Per il resto, certamente una prospettiva di ripresa, pur con tutte le gradualità e le previsioni di sicurezza, potrebbe influire negativamente sul numero dei contagi, ma d’altra parte, per fare un parallelo, anche il porre il limite di velocità in autostrada a 130 km/ora aumenta la possibilità di danni rispetto al porlo a 20 km/ora (velocità alla quale anche un eventuale scontro frontale non sarebbe mortale), ma qui si torna all’esigenza di contemperare istanze diverse. E la fine della reclusione sociale e il rilancio dell’economia sono un passaggio assolutamente prioritario, in un Paese dove iniziano anche a manifestarsi esplicitamente le tensioni sociali legate all’impoverimento.

Dunque, riprendendo il filo, come si collocano misure di liquidità nell’ambito di un progetto di rilancio per le imprese e, tra queste, per le imprese sociali? Si colloca entro una filiera di provvedimenti che potremo così sintetizzare:

  • immediata introduzione di disposizioni che, come sta avvenendo in altri Paesi pur in ritardo rispetto a noi nella cronologia della crisi, contemplino, tanto sul fronte produttivo, quanto su quello delle libertà personali, una prima mitigazione delle misure, con la contemporanea introduzione di soluzioni di sicurezza, insistendo magari di più su un autocontrollo consapevole dei comportamenti. Non esiste ripresa produttiva senza un clima sociale adeguato e questo comporta, pur mantenendo in una prima fase il divieto di assembramento, la possibilità di una qualche mobilità, della frequentazione degli affetti più vicini, di acquistare beni senza il vincolo di stretta necessità e di svolgere altre attività sociali minime. In questa fase vanno utilizzate al meglio le possibilità previste dal D.L. 18/2020 di riconversione degli interventi sociali in essere, che dovranno accompagnare la nuova fase di gestione della crisi; e va riavviata la scuola, come altri Stati stanno già facendo, sia perché la cattività dei bambini è particolarmente problematica, sia perché si tratta di un requisito necessario perché i genitori possano riprendere il lavoro;
  • definizione e condivisione pubblica (intendo, non attraverso un mero annuncio del Governo in una conferenza stampa) di una roadmap chiara e definita nei tempi e nelle azioni che, agendo su più fronti – adeguamenti produttivi, aumento posti letto, misure di individuazione rapida dei contagi, ecc. – porti ad un progressivo ripristino progressivo di una parte significativa delle azioni quotidiane, nell’ottica di una prolungata e inevitabile convivenza con il virus. Una ripresa economica è impensabile in assenza di questo passaggio, anche con le più ingenti disponibilità di liquidità;
  • mantenimento e rafforzamento di misure di sostegno al reddito, anche tollerando una certa deriva inflazionistica, perché non vi è ripresa senza domanda; e la domanda richiede le condizioni di contesto sopra evidenziate, ma anche una popolazione in grado di acquistare;
  • misure a fondo perduto a favore dei settori economici maggiormente basati sulla relazione (certamente le imprese sociali, ma anche altre), che potrebbero soffrire di una limitazione prolungata per diversi mesi della propria capacità produttiva o sopportare costi di adeguamento delle attività;
  • mitigazione, da parte delle pubbliche amministrazioni, delle pratiche di mercato per un periodo auspicabilmente prolungato, perché uno “stress da gara” tra l’altro tra enti in situazioni economicamente disperate e disposte ad ogni ribasso pur di non soccombere non può che avere che effetti patologici;
  • misure, appunto, basate sulla liquidità e la capitalizzazione, che favoriscano gli imprenditori disposti, una volta costruite le condizioni di cui sopra, investire e rilanciare; in questo, la dinamicità più volte mostrata dalle imprese sociali potrà essere una risorsa preziosa.

In conclusione, le misure di cui al punto 6) sicuramente possono essere utili, ma vanno inserite unitamente o conseguentemente alle misure che vanno dal punto 1) al punto 5). Potrebbe al contrario generare più di una perplessità la scelta di adottarle – non già in una logica emergenziale, come nel “Cura Italia”, ma di rilancio – come misura cardine di una strategia priva però degli elementi di cui ai punti precedenti.

A margine, una considerazione. Tutto ciò (sia le misure di sostegno economico a imprese e famiglie, sia la predisposizione di accorgimenti rispetto al rischio sanitario) ha costi ingenti per la finanza pubblica, che si sommano ai costi privati di coloro che hanno sopportato la perdita di reddito a causa della crisi. Si tratta di cifre sproporzionate rispetto a quelle che siamo abituati a trattare, nell’ordine presumibilmente di centinaia di miliari di euro. Misure di questo genere richiedono la definizione di un nuovo “patto sociale”, del tutto trasparente e corrispondente a criteri di equità, quasi rifondativo, che comprenda elementi diversi: come ripartire i costi tra i cittadini di questa generazione; come ripartirli tra questa generazione e quelle future; ma soprattutto come indirizzare uno sforzo di ricostruzione che, avvalendosi di risorse di tutti, richiederebbe di essere orientato verso direzioni condivise. Di ciò si è molto parlato, in questa fase, sforzandosi di mettere a frutto le lezioni sulle possibili e auspicabili trasformazioni imparate dalla crisi e il tema necessita di uno spazio a sé; qui basti dire che un’economia che rinasce così “socializzata” (che non significa “statalizzata”) richiede condivisione negli orientamenti e lungimiranza rispetto a quanto si intende costruire.

Rivista-impresa-sociale-Gianfranco Marocchi Impresa Sociale

Gianfranco Marocchi

Impresa Sociale

Nel gruppo di direzione di Impresa sociale, è anche vicedirettore di Welforum.it. Cooperatore sociale e ricercatore, si occupa di welfare, impresa sociale, collaborazione tra enti pubblici e Terzo settore.

Tempo di lettura:  Ricostruire l'agibilità economica e sociale
Argomento:  Attualità
data:  17 aprile 2020
Sostieni Impresa Sociale

Impresa Sociale è una risorsa totalmente gratuita a disposizione di studiosi e imprenditori sociali. Tutti gli articoli sono pubblicati con licenza Creative Commons e sono quindi liberamente riproducibili e riutilizzabili. Impresa Sociale vive grazie all’impegno degli autori e di chi a vario titolo collabora con la rivista e sostiene i costi di redazione grazie ai contributi che riesce a raccogliere.

Se credi in questo progetto, se leggere i contenuti di questo sito ti è stato utile per il tuo lavoro o per la tua formazione, puoi contribuire all’esistenza di Impresa Sociale con una donazione.