Una recente sentenza del Consiglio di Stato chiede al Ministero del Lavoro e delle Politiche sociale di intervenire in merito ad alcune questioni sollevate da un contenzioso relativa ad una coprogettazione; tra queste gli aspetti relativi alla gestione economica delle coprogettazioni.
Nei mesi scorsi, il Consiglio di Stato si è espresso su un contenzioso, già oggetto di esame da parte del TAR Lombardia (sentenza 2533/2025; per un commento alla stessa, sia consentito il rinvio a questo articolo), relativo ad un procedimento del Comune di Milano per la co-progettazione e cogestione della “Casa dell’accoglienza Enzo Jannacci” e di alcuni appartamenti da adibire all’housing sociale. Il Comune ha scelto come partner di coprogettazione, ad esito della valutazione delle candidature, un raggruppamento di diversi soggetti preferendolo ad un altro, sulla base dei punteggi conseguiti a partire dalla valutazione basata sui criteri che indicati dall’avviso. Il raggruppamento escluso dai tavoli ha avviato un ricorso che, rigettato dal TAR Lombardia, è approdato presso il Consiglio di Stato (leggi qui la sentenza).
Al di là del merito del contenzioso, la vicenda assume un particolare interesse per due motivi; il primo è che consente di sviluppare talune riflessioni generali sui temi posti; il secondo e più rilevante è che nella sentenza in questione il Consiglio di Stato chiede al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di esprimersi in ordine ad alcuni temi, uno dei quali connesso agli aspetti economici delle coprogettazioni, che risultano essere di particolare delicatezza nelle prassi collaborative.
Gli appellanti, nello specifico, contestano quanto segue:
a) presenza nell’ATI individuata per realizzare la co-progettazione di ONLUS, che non avrebbero dovuto essere accettate in quanto non iscritte nel Runts;
b) erronea attribuzione del punteggio massimo;
c) insussistenza dei presupposti per l’applicazione della disciplina di cui al codice del terzo settore in presenza di prestazioni di carattere economico-lucrativo (mediante instaurazione di un rapporto sinallagmatico con scambio di prestazioni tra pubblico e privato), e non già di mero rimborso delle spese vive (nella specie, vengono remunerati tutti i fattori della produzione, compreso il lavoro. In questo senso, viene richiesto il rinvio pregiudiziale alla CGUE per verificare la compatibilità con il diritto europeo di una disciplina che consente di pagare l’intera prestazione e non solo di avere il rimborso delle spese sostenute;
d) illegittimità della procedura per mancanza della fase della co-programmazione, in violazione dell’art. 55 del d.lgs. n. 117 del 2017;
e) genericità dei criteri di valutazione delle proposte progettuali, in violazione dell’art. 12 dell’avviso;
f) contrasto tra l’avviso di istruttoria e il presupposto atto di indirizzo della giunta comunale, prevedendo l’avviso una procedura selettiva, mentre l’atto di indirizzo contemplava un approccio non selettivo, violando il principio dell’autovincolo;
g) incongruità del PEF dell’ATI individuata dal Comune, in quanto insufficiente a dimostrare la compartecipazione almeno nella misura minima del 5 per cento (sono indicati costi che non rilevano ai fini del cofinanziamento) e incongruità delle voci del PEF e del punteggio attribuito;
h) la erroneità del punteggio attribuito all’offerta in relazione al piano economico-finanziario) e alla rispondenza tecnico-professionale.
In primo luogo, in questa sede si tralascia di sviluppare il tema sub a) – l’ammissibilità di una Onlus non iscritta al RUNTS -, in quanto, al di là del merito della decisione finale che scaturirà anche a seguito del parere del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, la questione dell’ammissibilità o meno delle Onlus alle coprogettazioni va ad estinguersi entro la fine del 2025 – o al più entro il 31 marzo del 2026, quando tali Enti dovranno definire se acquisire la qualifica di ETS o meno.
Ci si esime inoltre dal commentare le doglianze relative all’attribuzione di specifici punteggi, perché esulano dagli elementi che possono essere oggetto di un ragionamento che va oltre il merito del giudizio in questione.
Gli altri profili invece sono meritevoli di interesse e si procede di qui in avanti ad un primo sommario commento.
Era veramente una coprogettazione? Era legittimo utilizzare questo istituto per l’oggetto in questione e nelle forme in cui nei fatti il procedimento è stato realizzato? Questo è uno dei temi al centro del ricorso e a questo ci si dedicherà di qui in avanti.
In premessa va richiamato che la sentenza della Corte costituzionale n. 131/2020, le linee guida ministeriali (richiamate nell’ordinanza) n. 72/2021 e le linee guida Anac del 2022 convergono tutte sul “riconoscimento” degli istituti giuridici collaborativi ex art. 55 Codice del Terzo settore quali “alternativi”, “estranei”, diversi dalle (tradizionali) procedure competitive. In questo senso, l’equiordinazione tra le due procedure a disposizione delle P.A. implica che le stesse, nell’ambito della loro discrezionalità amministrativa, possano decidere in merito a quale ritengano maggiormente funzionale e adeguata alla realizzazione dei loro fini istituzionali. Ciò premesso, si tratta pertanto di capire se, nell’agire tale discrezionalità amministrativa, l’amministrazione procedente ha agito con correttezza e coerenza. La questione è posta dai ricorrenti da tre punti di vista che meritano attenzione.
Nel corso di questi anni, sulla obbligatoria correlazione tra fase co-programmatoria e fase co-progettuale si sono in effetti registrate diverse posizioni. Da un lato, quanti ritengono che la previsione dell’art. 55, comma 3 sia da considerarsi come un obbligo in capo alle P.A. di seguire la fase precedente della co-programmazione. Altri, invece, ritengono la disposizione di cui al comma 3 citato quale indicazione “di massima”, nel senso che, come talvolta accade, la fase della co-programmazione potrebbe non essere esperibile o possibile, anche per la circostanza che i progetti da realizzarsi a mezzo della co-progettazione potrebbero rispondere ad esigenze e bisogni emersi nei Piani Sociali di Zona, convocati ai sensi dell’art. 19, l. 328/2000 (ovvero ai sensi delle leggi regionali di settore).
Nella predetta cornice legittimante le scelte degli enti locali (e delle P.A. tutte), risulta però difficile comprendere come un ente locale avrebbe contravvenuto la legge optando a favore della co-progettazione, in luogo di esperire una procedura ad evidenza pubblica di natura competitiva (sul punto, si veda Tar Emilia-Romagna, Parma, 18 ottobre 2022, n. 294). E ciò a fortiori quando, come nel caso di specie, la procedura è preceduta da un atto di indirizzo politico-indirizzo, volto chiaramente ad individuare la co-progettazione quale percorso collaborativo con gli ETS.
Da quanto sopra discende che, sebbene si riconosca alla fase di co-programmazione un “luogo” utile e funzionale ad impostare successive azioni ed interventi, si può ritenere che il Codice del Terzo settore non l’abbia intesa come fase prodromica e necessaria per poter accedere alla co-progettazione.
La questione della selettività nell’ambito di un procedimento di coprogettazione solleva questioni complesse, che non riguardano soltanto gli aspetti giuridici. Da un punto di vista strettamente giuridico, non pare possibile impedire all’amministrazione procedente di introdurre nel procedimento elementi selettivi più o meno marcati, inserendo negli avvisi relativi requisiti e parametri tipici delle procedure competitive; l’amministrazione, infatti, può legittimamente darsi dei criteri per individuare interlocutori affidabili e in grado di contribuire validamente al lavoro comune. Questo, nella pratica, viene fatto con diversi strumenti, talvolta discutibili, come, ad esempio, la valutazione di elaborati progettuali con la relativa attribuzione di punteggi per specifici aspetti (es. aderenza alle finalità dell’avviso, innovatività, competenze ed esperienze sul tema, ecc.). Tale valutazione può dare origine a scelte di tipo comparativo (es. si coprogetta solo con il soggetto con il punteggio più alto) o di tipo assoluto (si coprogetta con tutti i soggetti che conseguono un punteggio superiore ad una certa soglia).
D’altra parte, non va nascosto che – sempre, al di là della decisione che il giudice amministrativo vorrà adottare sul caso specifico – non è infondato il timore che queste prassi, soprattutto nei casi di giudizio “comparativo” nel senso sopra richiamato, possano introdurre surrettiziamente elementi che mal si conciliano con la logica collaborativa. Da questo derivano, inevitabilmente, richieste di chiarimento, anche in sede giurisdizionale.
Premesso che è ragionevole interesse dell’amministrazione procedente non “perdere tempo” con aspiranti partner incompetenti e improvvisati, la stessa diffusione, nel frasario comune in certi territori, dell’espressione “aver vinto una coprogettazione” denuncia uno slittamento che, a prescindere dalle espressioni delle aule giudiziarie, dovrebbe essere attentamente valutato nel momento in cui si concepisce un procedimento.
Il profilo che, tuttavia, sembra più controverso – non essendo la prima volta che la giurisprudenza amministrativa vi si concentra - è quello relativo al rimborso delle spese in un procedimento collaborativo. Sul punto specifico, le appellanti hanno addirittura richiesto un intervento della Corte di giustizia dell’Unione europea, al fine di verificare la compatibilità di una procedura collaborativa che riconosca il costo del lavoro rispetto al diritto eurounitario. Risulta evidente che, in specie nelle attività di interesse generale di cui all’art. 5, comma 1, lett. a), b) e c) del Codice del Terzo settore, siano necessarie professionalità e competenze difficilmente garantibili senza ricorrere ad operatori retribuiti. E di questo il Consiglio di Stato appare del tutto consapevole (“Non dubita il Collegio che la remunerazione del fattore lavorativo (e dunque il compenso per il lavoro svolto dagli enti del terzo settore coinvolti nel progetto) sia un elemento essenziale della co-progettazione”), salvo poi – come già avvenuto in altri pronunciamenti, trovarsi in difficoltà a causa di un fraintendimento non infrequente tra i soggetti che meno padroneggiano la norma in questione, consistente nel confondere le “convenzioni” – sarebbe meglio dire: gli accordi conclusivi di un procedimento di cui all’art. 11 della legge 241/1990 – stipulate ad esito di una coprogettazione ex art. 55 del CTS con le convenzioni ex art. 56, che rappresentano un istituto del tutto distinto.
Ciò detto, la questione relativa agli aspetti economici di una coprogettazione è senz’altro ampia e complessa (per una trattazione più articolata si rimanda all’articolo Gli aspetti economici della coprogettazione), che purtroppo, per una serie di resistenze su diversi livelli rischia di creare seri ostacoli (vedi l’articolo Come affaticare la coprogettazione), stante anche la confusione circa i concetti di gratuità e non lucratività (vedi questo articolo di Santuari e questo articolo di Antonini)
In attesa del parere del Ministero, così come richiesto nell’ordinanza in oggetto, sembra opportuno rimarcare l’importanza di far conseguire alle scelte discrezionali delle pubbliche amministrazioni, avvisi di co-progettazione che genuinamente possano individuare uno o più enti del terzo settore con i quali, insieme, si possano realizzare i progetti e gli interventi ritenuti necessari e adatti.
Al tempo stesso, si vogliono qui richiamare due aspetti di processo.
Il primo riguarda una riflessione, da sviluppare nell’ambito del Terzo settore, su come contemperare il diritto di ciascuno a far valere le proprie ragioni in ogni sede, compresa quella del contenzioso amministrativo, con un’attenzione alla natura delle questioni sollevate, cosa che richiede una valutazione responsabile sulla conseguenza delle proprie azioni, compresa l’eventualità che – magari per effetto di una considerazione affrettata di un giudice amministrativo - si creino conseguenze negative di ampia portata per l’intero Terzo settore. Tale rischio si verifica laddove si utilizzino, nella foga di sostenere le proprie ragioni, argomenti che collocano sulla scelta del giudice questioni di portata molto ampia, che meglio si addicono ad un esame circostanziato di un livello diverso; che, fortunatamente, è quanto accaduto in questo caso, grazie ad una maturità delle istituzioni che ha portato ad rinvio degli aspetti di maggiore delicatezza al di fuori dell’aula dei tribunali, all’attenzione del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, senz’altro in grado di orientare l’interpretazione della norma in modo coerente con gli intenti del legislatore.
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