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ISSN 2282-1694
Tempo di lettura:  25 minuti
Argomento:  Attualità
data:  07 ottobre 2025

Gli aspetti economici della coprogettazione

Gianfranco Marocchi

Gli aspetti economici della coprogettazione rappresentano uno degli elementi che spesso rischiano di scoraggiare pratiche collaborative. Tale criticità è originata da una inadeguata comprensione dei fenomeni collaborativi che tendono ad essere inquadrati con categorie inadeguate.


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Gli aspetti economici della coprogettazione rappresentano, accanto al tema connesso della rendicontazione, uno degli elementi che spesso rischiano di scoraggiare pratiche collaborative. Si intende qui argomentare come tale criticità sia originata da una inadeguata comprensione dei fenomeni collaborativi che, per effetto della loro relativa novità, tendono ad essere impropriamente inquadrati nell’ambito di categorie più familiari, ma a ben vedere non consone.

A tal fine si provvederà pertanto, nella prima parte di questo scritto, a discutere la natura delle relazioni collaborative; si esamineranno quindi le conseguenze economiche di quanto prima sviluppato; si dedurranno, infine, indicazioni relative alle buone prassi da adottare ed agli errori da evitare.

Tre schemi. Non due

Senza pretesa di completezza e sistematicità, le relazioni tra soggetti economici pubblici e privati sono generalmente inquadrate in coerenza con due possibili contesti:

  • nel primo, la pubblica amministrazione, per perseguire le finalità di interesse generale, decide che è opportuno realizzare una certa azione; decide altresì che per realizzarla è utile acquistare beni o servizi da soggetti terzi e questo origina una transazione economica sinallagmatica.
  • nel secondo, un soggetto non pubblico decide di realizzare una certa azione (un’organizzazione di volontariato organizza gite per anziani, un imprenditore investe in energie rinnovabili, un cittadino acquista un immobile in un borgo in via di abbandono); la pubblica amministrazione ritiene che tali attività siano coerenti con le proprie finalità di interesse generale e vi contribuisce. Questo può originare un flusso di risorse economiche a favore del soggetto non pubblico sotto forma consistente in un contributo, generalmente parziale, alle spese sostenute.

I due meccanismi possono avere aree di interscambio, come ad esempio quando interventi realizzati da soggetti non lucrativi nell’ambito di un contesto del secondo tipo vengono, anche grazie ad una parallela opera di advocacy, successivamente inclusi nell’azione istituzionale di una pubblica amministrazione venendo pertanto ordinati dalle regole del primo contesto.

Quanto si vuole qui evidenziare è che un meccanismo collaborativo come quello della coprogettazione non obbedisce, a ben vedere, né al primo, né al secondo di questi schemi. Esso, infatti, avviene in un terzo contesto in cui due o più soggetti che condividono il medesimo obiettivo di interesse generale (alcuni pubblici, altri di Terzo settore) ideano e decidono insieme di realizzare azioni coerenti con tale obiettivo, individuando inoltre di comune accordo cosa ciascuno può fare a tal fine e come a tal fine allocare le risorse (in senso lato) necessarie e disponibili e come agire congiuntamente per procurarsi quelle necessarie ma al momento non disponibili.

Principio di sussidiarietà e collaborazione

Prima di approfondire il tema principale di questo scritto, relativa alle implicazioni economiche di un contesto del terzo tipo, è forse utile descriverne meglio le caratteristiche.

Un primo aspetto degno di attenzione è che tale terzo contesto declina il principio di sussidiarietà con alcune specificità, che talvolta sembrano trascurate. Risalendo alle origini di tale concetto, esso, al di là delle radici antiche, è stato sicuramente proposto con forza nel dibattito contemporaneo dalla dottrina sociale della Chiesa; in tale sede la sussidiarietà è declinata secondo un principio, per così dire, “sottrattivo”: si mira, cioè, a sottrarre all’influenza delle società superiori ciò che può essere svolto a livello comunitario, per preservare le comunità dall’essere mortificate nella loro autonomia:

È vero certamente e ben dimostrato dalla storia, che, per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche delle piccole. “… deve … restare saldo il principio importantissimo nella filosofa sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l'industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare… perché l'oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle. … Perciò è necessario che l'autorità suprema dello stato, rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta… [Quadrigesimo Anno, 1931, n. 80-81]

Questo, d’altra parte, prescrivendo alla società di ordine superiore, di sostenere, promuovere e sviluppare le società di ordine minore, così che esse riescano a svolgere autonomamente determinati compiti (“sussidiarietà positiva”), così che al tempo stesso la società di ordine superiore possa astenersi dall’occuparsene (“sussidiarietà negativa”), evitando così di restringere la libertà e lo spazio vitale delle società inferiori.

… Tutte le società di ordine superiore devono porsi in atteggiamento di aiuto («subsidium») — quindi di sostegno, promozione, sviluppo — rispetto alle minori. In tal modo, i corpi sociali intermedi possono adeguatamente svolgere le funzioni che loro competono, senza doverle cedere ingiustamente ad altre aggregazioni sociali di livello superiore, dalle quali finirebbero per essere assorbiti e sostituiti e per vedersi negata, alla fine, dignità propria e spazio vitale. Alla sussidiarietà intesa in senso positivo, come aiuto economico, istituzionale, legislativo offerto alle entità sociali più piccole, corrisponde una serie di implicazioni in negativo, che impongono allo Stato di astenersi da quanto restringerebbe, di fatto, lo spazio vitale delle cellule minori ed essenziali della società. La loro iniziativa, libertà e responsabilità non devono essere soppiantate. Diverse circostanze possono consigliare che lo Stato eserciti una funzione di supplenza. Alla luce del principio di sussidiarietà, tuttavia, questa supplenza istituzionale non deve prolungarsi ed estendersi oltre lo stretto necessario, dal momento che trova giustificazione soltanto nell'eccezionalità della situazione. [Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa (2004), n. 185 – 188]

È evidente come tale concezione si ponga in antitesi – anche esplicita, nei documenti risalenti ad epoche storiche in cui le teorie socialiste rappresentavano un termine di confronto culturale rilevante - con modelli statalisti, che vedono al contrario nell’avocazione di compiti e funzioni alle istituzioni la garanzia fondamentale per i cittadini; e che di conseguenza avversano la sussidiarietà nei termini prima enunciati come leva – pur accattivante, per le sue allusioni, si direbbe oggi, all’empowerment - per far venire meno la certezza dei diritti dei cittadini. Ciò con qualche ragione, se si considerano taluni epigoni della sussidiarietà “sottrattiva” come la dottrina britannica della big society promossa nel Regno Unito una quindicina di anni fa.

Ma, rispetto agli schemi analitici qui proposti, la sussidiarietà come sopra intesa può costituire senz’altro una delle premesse culturali per le interazioni del secondo contesto, ma richiede invece profonde revisioni per interpretare quelle del terzo contesto.

Il secondo contesto vede appunto la società civile che liberamente e autonomamente agisce, supportata per quanto serve dalle istituzioni; ed è questo, ad esempio, il principio posto a fondamento del parente più prossimo dell’art. 55 del Codice del Terzo settore, la LR 42/2012 della Regione Liguria, oggi in via di revisione: i patti di sussidiarietà che essa propone, che tanto impatto hanno avuto tra chi si occupa di questi temi; e che non a caso prevedono la presenza di risorse non pubbliche in misura non inferiore al 30%; questo perché il fondamento del patto è individuato nella sussistenza di una capacità autonoma – e dunque libera e autodeterminata - di agire del Terzo settore, che può essere riconosciuta e supportata dalla pubblica amministrazione.

Il terzo contesto ha presupposti differenti. Ha le sue origini nel decennio che va dal riconoscimento istituzionale dei soggetti non pubblici che operano per “l’interesse generale della comunità” (le leggi 266/1991 sul volontariato e 381/1991 che disciplina la cooperazione sociale) sino all’introduzione, nel 2001, del principio di sussidiarietà nell’articolo 118 comma 4 della Costituzione, passando, da un punto di vista culturale, per lo storico articolo di Gregorio Arena (1997) “Introduzione all’amministrazione condivisa” con il quale viene per la prima volta introdotto questo termine; con riferimento alle pratiche, questo contesto prende forma nello stesso periodo ad esempio nelle esperienze partenariali sviluppate sul fronte dell’integrazione lavorativa o dei progetti di riqualificazione urbana a finanziamento europeo. In questi casi il fondamento non è l’intento di preservare l’autonomia della società civile, ma il mutuo riconoscimento, da parte di Terzo settore e pubbliche amministrazioni, dell’essere accomunati dal medesimo intento a perseguire l’interesse generale. Non si tratta di sottrarre ruoli e prerogative al pubblico, ma di riconoscere i benefici che derivano dalla sinergia, condivisione e collaborazione tra soggetto pubblico e soggetto della società civile con finalità di interesse generale. Il contesto di relazione che così si va a costruire, se dalla sussidiarietà “sottrattiva” prima discussa mutua la convinzione che non solo lo Stato, ma anche la società civile può agire per il bene pubblico, innesta tale consapevolezza su filoni di pensiero eterogenei, a cavallo tra scienze economiche, sociologiche e filosofiche – dalle declinazioni delle teorie dei giochi che evidenziano i vantaggi degli assetti collaborativi, alle elaborazioni sociologiche sulla fiducia -, che evidenziano appunto come, in determinate condizioni, sistemi collaborativi possano costituire soluzioni più efficaci rispetto a quelli frutto di equilibrio tra diversi e contrapposti sistemi basati sul self-interest. Il terzo contesto non prevede soluzioni “sottrattive”, presupponendo che la disponibilità a partecipare ad un contesto dialogico (in cui si decide a seguito di confronto e discussione) anziché basato sull’imperio (del pubblico) o sulla salvaguardia delle autonomie (del terzo settore) non costituisca una limitazione delle prerogative degli attori coinvolti, ma un ausilio per realizzarle al meglio, nella consapevolezza, secondo la lezione di Habermas, che la qualità degli argomenti può far emergere le soluzioni migliori, a cui tutti i convenuti mirano vista la loro comune finalità. In questo contesto la pubblica amministrazione, lungi dal farsi da parte dopo avere sostenuto la società civile, è pienamente coinvolta da una parte nell’impegno economico a supporto delle soluzioni individuate e dall’altra a partecipare pienamente alla co-definizione delle politiche e dei progetti; e questa è nei fatti l’esperienza delle migliori esperienze di coprogettazione, in cui gli amministratori pubblici testimoniano di assolvere un ruolo ben più attivo, creativo e gratificante rispetto ai casi di esternalizzazione; e il fatto che, in un gruppo di lavoro collaborativo, una determinata idea sia stata proposta in principio da un attore non pubblico (e poi rielaborata, perfezionata e integrata con altre idee nel tavolo di lavoro) appare tutt’altro che una diminuzione di ruolo.

È in questo contesto che assume significato quanto notato dai commentatori circa il ruolo “ordinario” assunto dalla coprogettazione, non più confinata ai casi di interventi sperimentali e innovativi come prevedevano i provvedimenti conseguenti alla 328/2000, ma utilizzabile nella generalità degli interventi nei settori di interesse generale, compresi i casi in cui siano coinvolti aspetti che rappresentano un livello essenziale di assistenza; si tratta, secondo le parole di Arena (2020),  di realizzare “funzioni pubbliche la cui titolarità rimane ovviamente in capo alla pubblica amministrazione procedente, ma il cui svolgimento viene condiviso con enti del Terzo settore, applicando il modello dell’amministrazione condivisa”. L’incipit che muove l’intento collaborativo non è certo dato dall’intenzione dell’amministrazione istituzionalmente responsabile di lasciare alla libera ed eventuale determinazione della società civile la soddisfazione di un diritto, ma alla consapevolezza che, ferma restando la responsabilità istituzionale e conseguentemente le risorse allocate a garanzia di tale diritto, si ritiene funzionale al miglior esito avviare un processo dialogico con gli altri soggetti – non pubblici - di interesse generale che operano sui medesimi temi e che possono portare visioni, competenze, idee e proposte in grado di arricchire gli interventi.

La traduzione procedimentale dei contesti di terzo tipo

A completamento della discussione sugli aspetti culturali connessi ai contesti collaborativi e prima di entrare nel merito delle implicazioni a livello di rapporti economici, è utile una breve analisi di come – ad di là, si intende, di quanto previsto dall’art. 55 del Codice del Terzo settore, il nostro sistema normativo sia in grado di accogliere tali contesti. Si concentrerà l’attenzione, in particolare, sulla norma, richiamata dall’articolo 55, che governa il procedimento amministrativo.

Già in un precedente contributo (Marocchi 2025a) si era evidenziato, seguendo le tesi già espresse altri autori (ad esempio Ferroni 2017), come l’individuazione – peraltro lungimirante e provvidenziale – dei fondamenti procedimentali della coprogettazione nella 241/1990 comporterebbe forse alcune evoluzioni. Oggi, infatti, anche grazie alla scelta di fondare i l’art. 55 sulla solidità della legge 241/1990 anziché su improbabili costruzioni procedimentali ad hoc, l’alterità dei procedimenti collaborativi rispetto a quelli sinallagmatici è ben digerita dal nostro ordinamento, come dimostrato tanto dalle espressioni dell’ANAC, quanto dallo stesso articolo 6 del Codice dei contratti pubblici, alcune revisioni della stessa 241/1990. Ed è quindi possibile aprire una discussione su un possibile passo ulteriore, più coerente con il contesto collaborativo.

Il riferimento più evidente è probabilmente quello relativo agli accordi che chiudono il procedimento di coprogettazione e che sono oggi stipulati, come ricordano anche le Linee Guida approvate con DM 72/2021, ai sensi dell’articolo 11 della 241/1990:

Art. 11 - (Accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento) - L'amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo.

Si tratta di una norma indubbiamente sufficiente allo scopo di fornire un riferimento procedimentale agli accordi che chiudono le coprogettazioni; ma senza dubbio non è assente, in tale previsione, un’ombra di controinteresse nel descrivere i rapporti tra le parti – pubblica e non pubblica – coinvolte, come è normale che sia per una norma concepita per procedimenti riferibili a qualsiasi soggetto che interloquisca con la pubblica amministrazione, compreso un privato cittadino o un’impresa for profit. Non sarebbe forse più adeguato, più rispettoso dello spirito autenticamente collaborativo, inquadrare gli accordi che chiudono i tavoli di coprogettazione ai sensi dell’articolo 15 della stessa legge, quello che oggi disciplina i rapporti tra pubbliche amministrazioni, qualora fossero introdotte le modifiche di seguito evidenziate (in grassetto) o equivalenti?

Art. 15 - (Accordi fra pubbliche amministrazioni e con Enti di Terzo settore) - Le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro e con Enti di Terzo settore a seguito di procedimenti di coprogettazione accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune.

In altre parole, gli schemi giuridici che oggi assicurano la praticabilità degli strumenti collaborativi vanno pensati all’interno di una logica evolutiva, che porti progressivamente e nel corso del tempo il diritto ad assumere forme diverse e sempre più coerenti con la logica collaborativa.

Prima di addentrarsi nelle implicazioni economiche di questo schema si noti, per inciso, che esso disegna un ruolo nuovo e richiede consapevolezze inedite sia per le amministrazioni pubbliche, sia per il Terzo settore. Per le pubbliche amministrazioni, cresciute in una cultura che ne enfatizza le prerogativa di direzione e controllo, ma non le vede ingaggiate, soprattutto dopo il sostanziale abbandono delle gestioni dirette, nella quotidianità dei servizi, lasciata alla competenza delle imprese appaltanti; in questo schema, invece, l’entrare nel merito (reciprocamente: ad esempio il mettere in discussione, da parte di un ETS, il modo di agire degli assistenti sociali pubblici o, da parte dei servizi pubblici, delle scelte gestionali degli ETS) diventa la norma, non a partire da atti di imperio, ma nell’ambito di una cultura dialogica e tesa al mettersi in discussione per il miglioramento degli interventi. Per il Terzo settore significa darsi gli strumenti e sentirsi addosso il ruolo di soggetti chiamati a ragionare non solo più sulla gestione quotidiana di un servizio, ma sull’assetto dei servizi stessi, tanto in logica di programmazione che di progettazione degli interventi. E non è un caso che chi si confronta con più impegno su questa sfida trova il tutto, oltre che produttivo e innovativo, anche creativo, stimolante e, in ultima analisi, divertente.

I tre contesti e i rapporti economici

Il flusso di risorse nei tre contesti

Con riferimento agli aspetti economici, il terzo contesto prima descritto, quello collaborativo, presenta taluni elementi di somiglianza con il secondo: se ne ravvede il richiamo ad una comune logica sussidiaria, seppure, come si è visto, con declinazioni diverse; inoltre, per emergere, esso ha dovuto enfatizzare gli strumenti di diversità dal primo (adottando, per similitudine, linguaggi e strumenti del secondo), come è ben noto a chi ha seguito il lungo confronto (e scontro) seguito all’introduzione dell’art. 55 del Codice del Terzo settore (Marocchi 2020). Ma tali convergenze e similitudini non devono farci dimenticare che si tratta di un contesto comunque profondamente differente, nelle logiche che lo presiedono e negli schemi relazionali che ne derivano, dagli altri due; e che pertanto i flussi economici che hanno luogo nei diversi contesti, per quanto apparentemente simili (ad esempio, 1000 euro trasferiti da un Comune ad una cooperativa o ad una associazione), hanno significati diversi. Schematicamente:

Contesto Cosa sono i flussi economici
Acquisto di beni e servizi Pagamento di un corrispettivo / scambio tra equivalenti
Attività autonoma di un soggetto non pubblico, cui è riconosciuta una valenza (almeno in parte) di interesse generale Contributi a (generalmente parziale) rimborso dei costi sostenuti
Interventi svolti a seguito di processi collaborativi Allocazione di risorse funzionale a realizzare il comune obiettivo

Non deve ingannare il fatto che, per carenza di vocabolario e di schemi giuridici – di nuovo, il riferimento all’art. 12 della 241/1990 richiederebbe qualche sviluppo -, si denomini generalmente “contributo” anche un flusso economico in un contesto del terzo tipo, similmente a come viene definito nel secondo contesto e talvolta, inappropriatamente, anche attirando logiche e principi provenienti da esso provenienti. Si tratta, in verità, di situazioni distinte e diverse nelle premesse e nella logica.

I flussi che seguono la logica allocativa, diversamente da quelli del primo contesto (scambio) non sono regolati dalle leggi della domanda e dell’offerta che presiedono al mercato, ma ad un’esigenza di dotare tutti i soggetti collaboranti delle risorse necessarie a metterli in condizione di operare come convenuto. Le risorse, in altre parole sono allocate “nella misura in cui servono” alla finalità (Marocchi 2021), in coerenza con quanto fatto dal singolo partner per realizzarla. Il fatto che una coprogettazione si basi un impianto rendicontativo ha pertanto tale significato: come quando un gruppo di persone condivide l’idea di organizzare un pranzo comune e una acquista il cibo per tutti e viene pertanto rimborsata, non in quanto “venditore di alimenti e bevande” (mercato), ma in quanto soggetto che, in accordo con gli altri, si è attivato per dare attuazione al progetto comune. Il motivo per cui si “rendiconta” non è, primariamente, quello di evitare il lucro e tantomeno l’avere uno strumento per esigere a precondizione della collaborazione che “anche il terzo settore ci metta la sua parte” (… “altrimenti tanto vale fare un appalto”, generalmente continua chi pronuncia la frase precedente, probabilmente non cogliendo l’essenza di quanto si sta facendo), ma per allocare risorse nella misura in cui sono necessarie a rendere possibile ad uno specifico partner di realizzare quanto si è convenuto che esso faccia per realizzare la finalità condivisa.

Ma i flussi che seguono la logica allocativa, diversamente da quelli del secondo contesto (contributo), non si originano nell’autonoma volontà della parte privata – essendo pertanto la contribuzione pubblica un mero ausilio, anche secondario -, ma sono frutto di una co-decisione che impegna pienamente le politiche pubbliche nell’adempimento dei propri compiti istituzionali. Ciò comporta che tale rimborso sia completo, perché il soggetto che assume su di sé uno specifico aspetto della realizzazione di quanto convenuto sta operando su mandato comune di tutti gli altri, risultando pertanto immotivata ogni eccezione al riconoscimento delle spese a qualsiasi titolo sostenute (nell’esempio precedente: abbiamo deciso insieme la lista della spesa e che tu la facevi per tutti, ma ti rimborsiamo il cibo mentre le bevande le devi pagare di tasca tua; e perché mai?). Ovviamente questo pone – nella gestione di attività economiche complesse, diversamente da quando il gruppo di amici organizza una grigliata – alcuni problemi operativi, soprattutto per le spese che, pur indispensabili affinché l’attività sia realizzata, hanno un carattere indiretto: le spese generali, gli oneri finanziari, ecc.; ma il fatto che si debba convenire tra partner su sistemi di ripartizione di costi presumibilmente comuni anche ad attività diverse da quelle convenute è solo un problema operativo, da affrontare con criteri di proporzionalità e ragionevolezza, e non certo un elemento che può essere oggetto (come avviene in talune poco meditate espressioni della giustizia amministrativa, tra i tanti esempi, si veda Santuari 2024) di dubbi e restrizioni.

Le risorse in uno schema collaborativo

Ciò premesso, si tratta ora di sviluppare una più approfondita riflessione su come inquadrare le questioni relative alle risorse in un contesto collaborativo. Va preliminarmente tenuto conto che, quando si parla di risorse, si può fare riferimento a oggetti molto diversi tra loro; vi sono, ad esempio:

  • Risorse materiali (denaro, immobili, ecc.) e risorse immateriali (reti di relazione, competenze, ecc.);
  • Risorse presenti ex ante, già nella disponibilità dei soggetti coinvolti nel momento in cui si iniziano a definire le azioni da svolgere e risorse magari auspicate, ma non certe ex ante ed eventualmente reperibili o attivabili ad esito di quanto insieme agito;
  • Risorse potenzialmente equidistribuite nel partenariato (tali sono ad esempio le risorse immateriali sopra citate) e risorse spesso presenti in modo asimmetrico; ad esempio:

  • Le risorse economiche sono spesso concentrate nel soggetto pubblico, che incamera i flussi fiscali dei cittadini per destinarli ad attività di interesse generale o, laddove presenti, in soggetti specifici quali fondazioni erogative;
  • Le capacità imprenditoriali, e quindi la possibilità di intraprendere azioni di mercato che contribuiscano a definire la sostenibilità di un intervento, sono spesso concentrate negli ETS con forma di impresa;
  • Le capacità di suscitare, attrarre e organizzare il volontariato sono spesso concentrate negli ETS non imprenditoriali;

Senza pretesa di completezza, possiamo formulare questo primo provvisorio elenco in cui sono elencate alcune voci abbastanza frequenti nelle coprogettazioni.

  Note
Risorse certe ex ante  
Risorse dei cittadini provenienti dalla fiscalità Spesso è la voce principale, in coerenza con i compiti istituzionali delle amministrazioni procedenti. In misura residuale, anche alcuni ETS possono disporre di fondi tratti dal 5x1000.
Volontari Voce che può essere significativa soprattutto da parte degli ETS non imprenditoriali; secondariamente anche pubbliche amministrazioni e ETS imprenditoriali possono disporre di volontari
Altre risorse economiche Voce che può riguardare risorse messe a disposizione da soggetti filantropici che partecipano ai tavoli di lavoro
Eventuali asset disponibili Si tratta di un insieme molto esteso di asset nella disponibilità dei partecipanti. Comprende immobili o mezzi parzialmente inutilizzati, progetti complementari e integrabili già finanziati da altri canali, ecc.
Risorse immateriali: capitale relazionale Voce che riguarda la possibilità di coinvolgere nelle azioni progettuali una pluralità di stakeholder frutto delle relazioni di ciascun partecipante al tavolo.
Risorse immateriali: competenze, idee, professionalità, ecc. È il valore aggiunto caratteristico della coprogettazione, derivante dalla condivisione di idee, punti di vista, sensibilità, proposte, ecc.
   
Risorse da individuare in corso di progetto  
Possibilità di operare per conseguire risorse da parte di enti terzi Si tratta della risorsa più significativa che, sulla base dell’esperienza, rafforza ex post i budget di progetto, sino a divenire in alcuni casi prevalente. In alcuni casi può rappresentare la voce più rilevante, quando ETS e PA, inizialmente sprovvisti di altre risorse, progettano insieme per accedervi.
Possibilità di attivare risorse volontarie nella società civile Voce significativa soprattutto nei progetti di attivazione di comunità, che mirano ad attivare e coinvolgere nelle azioni progettuali altri cittadini
Possibilità di attivare raccolte fondi Voce significativa soprattutto in alcuni ambiti, ad esempio in campo sanitario, in cui vi è propensione a donare; generalmente più rilevante per gli ETS non imprenditoriali.
Possibilità di realizzare attività di mercato Voce caratteristica per gli ETS imprenditoriali, nei casi in cui il progetto possa prevedere attività di mercato (ad esempio attività economiche in un immobile riqualificato); la voce non si adatta a diversi altri casi (es. una comunità alloggio per minori, un ricovero notturno per homeless) in cui è improponibile immaginare destinatari paganti.

Il quadro descritto nella tabella ha un valore indicativo: possiamo immaginare una impresa sociale che riesce a raccogliere fondi o un comune con un’antica tradizione di attivazione di volontariato civico, e così via. Per offrire un esempio della possibile articolazione del quadro delle risorse si propongono di seguito tre esempi rielaborati da situazioni reali.

Esempio 1 – Un comune mette a disposizione un’ex fabbrica precedentemente riqualificata grazie a fondi regionali per farne un luogo di incontro e socialità. Nel sito sarà possibile aprire un esercizio di ristorazione, affittare sale per attività di associazioni o di soggetti privati, attivare un coworking, un doposcuola e molto altro.

  PA ETS
Risorse certe ex ante    
Risorse dei cittadini provenienti dalla fiscalità    
Volontari già presenti    
Altre risorse economiche    
Eventuali asset disponibili (es. locali, mezzi inutilizzati, integrazione con altre progettazioni) «««  
Risorse immateriali: capitale relazionale «« «
Risorse immateriali: competenze, idee, professionalità, ecc. «« ««
     
Risorse da individuare in corso di progetto    
Possibilità di operare per conseguire risorse da parte di enti terzi «« ««
Possibilità di attivare risorse volontarie nella società civile « «
Possibilità di attivare raccolte fondi   «
Possibilità di realizzare attività di mercato   «««

Esempio 2 - ASL e Terzo settore coprogettano interventi a tutela della salute della popolazione detenuta, integrando aspetti sociali e sanitari e costruendo percorsi integrati a favore dei ristretti

  PA ETS
Risorse certe ex ante    
Risorse dei cittadini provenienti dalla fiscalità «««  
Volontari già presenti    
Altre risorse economiche    
Eventuali asset disponibili (es. locali, mezzi inutilizzati, integrazione con altre progettazioni)   «
Risorse immateriali: capitale relazionale «« ««
Risorse immateriali: competenze, idee, professionalità, ecc. «« ««
     
Risorse da individuare in corso di progetto    
Possibilità di operare per conseguire risorse da parte di enti terzi « «
Possibilità di attivare risorse volontarie nella società civile « «
Possibilità di attivare raccolte fondi    
Possibilità di realizzare attività di mercato    

Esempio 3 - Un comune intende avviare un progetto nell’ambito delle politiche giovanili, presentando una candidatura, frutto di condivisione con gli ETS e in partenariato con essi, a valere su un fondo regionale.

  PA ETS
Risorse certe ex ante    
Risorse dei cittadini provenienti dalla fiscalità                                                    
Volontari già presenti    
Altre risorse economiche    
Eventuali asset disponibili (es. locali, mezzi inutilizzati, integrazione con altre progettazioni)    
Risorse immateriali: capitale relazionale «« ««
Risorse immateriali: competenze, idee, professionalità, ecc. «« ««
     
Risorse da individuare in corso di progetto    
Possibilità di operare per conseguire risorse da parte di enti terzi ««« «««
Possibilità di attivare risorse volontarie nella società civile   ««
Possibilità di attivare raccolte fondi    
Possibilità di realizzare attività di mercato   «

Come si può vedere le combinazioni possono essere infinite, dipendono dai soggetti coinvolti, dal contesto locale, dal tipo di iniziativa da realizzare. In generale, stante questa situazione, non sarebbe corretto ritenere che il Terzo settore vada considerato come effettivamente e autenticamente partecipe di un’esperienza collaborativa in relazione alle risorse materiali apportate al budget di progetto. La quantità di risorse materiali può dipendere certo da caratteristiche del Terzo settore, ad esempio la sua capacità di mobilitazione comunitaria, che tutti oggi sono chiamati a sviluppare, compresi gli ETS evolutisi in temini più aziendali a seguito dei decenni di ubriacatura mercatista collettiva; ma dipende anche dal tipo di intervento – ad esempio, per tratti radicati nella nostra cultura, per alcune finalità si dona e si fa volontariato, per altre meno -, dal fatto che, con riferimento alle imprese sociali, per quel tipo di intervento esista una domanda pagante o meno, ecc.

Ogni automatismo, ogni meccanismo (ad esempio regolamenti) che in modo sommario condiziona l’avvio di un contesto dialogico alla presenza di risorse materiali diverse da quelle dell’amministrazione procedente rischia di creare distorsioni assai superiori dei supposti benefici. D’altra parte, il fatto che il terzo settore dismetta gli abiti esecutive e prestazionali forzatamente indotti dalla lunga deriva mercatista e si riconnetta al ruolo di “costruttore comunitario dell’interesse generale” qui descritto richiede un lavoro lungo e consapevole sia da parte dei dirigenti di Terzo settore, sia delle pubbliche amministrazioni. In altre parole, per dirla con Fazzi (2023b), si tratta di fare i conti con “due decenni di regolazione basata su principi come la concorrenza, il controllo e il New Public Management, [che] inevitabilmente hanno radicato, sia nei funzionari pubblici che negli enti di terzo settore, modelli di comportamento e di pensiero che frizionano con forza con lo spirito delle nuove agende collaborative”.

Quali indicazioni trarre

Al termine di questo percorso, si tratta di ragionare su alcune indicazioni relative al regime economico delle coprogettazioni in coerenza con il contesto del terzo tipo tra quelli descritti in apertura, quello collaborativo. Se ne propongono sei.

1) Il valore aggiunto della coprogettazione e il suo senso profondo risiedono nella qualità della progettazione comune, non nel conferimento economico da parte del Terzo settore. La prima – e forse più importante – conseguenza di quanto sino ad ora argomentato è che l’essenza del “vantaggio” che è legittimo attendersi dell’amministrazione condivisa sta nella qualità della progettazione comune; e non sta, come spesso viene erroneamente affermato, nel “guadagno economico” che un’amministrazione si attende di trarre dal cosiddetto “cofinanziamento”. In altre parole: come un Comune e la scuola possono ritenere auspicabile collaborare per un progetto che riguarda i giovani, dal momento che si riconoscono reciprocamente per avere una finalità di interesse generale comune, così per lo stesso motivo possono ritenere qualificante collaborare anche con un’associazione che fa doposcuola e cooperativa che opera in ambito educativo; lo si fa perché si ritiene che condividendo sensibilità, idee, proposte progettuali, ecc. il risultato a favore dei cittadini sia migliore. Perché si ritiene che, in assenza di tali elementi, semplicemente non sarebbe stato possibile concepire e realizzare gli interventi che si sono invece così attuati. La collaborazione nasce su questo piano, non su pretese economiche nei confronti degli ETS partner, ancorché, proprio per il comune intento, è ragionevole ipotizzare che emergano, nel corso della relazione, delle opportunità di messa a sistema di risorse (nell’esempio precedente, la disponibilità della palestra della scuola che, inutilizzata per attività didattiche nelle ore pomeridiane, può essere utilizzata per attività progettuali) vantaggiose anche in termini economici. Ma non è questo l’ingaggio iniziale che condiziona l’avvio della collaborazione. Laddove una pubblica amministrazione non vede (per sua incapacità di apprezzarlo, o per effettiva povertà dei tavoli di lavoro) il valore aggiunto connesso al valore aggiunto progettuale e ricerca affannosamente di poter giustificare la coprogettazione “perché gli ETS ci hanno messo del loro”, probabilmente quella coprogettazione è nata su basi errate o da soggetti non pronti a realizzarla. Ma, purtroppo, una mentalità amministrativa di corte vedute porta invece ad essere tolleranti rispetto a progettazioni scadenti, purché, anche con carte fittizie (una dichiarazione che talune ore di operatori ETS sono “regalate” a titolo di finanziamento), si possa formalmente sostenere che la pubblica amministrazione “ci ha guadagnato qualcosa”.

2. Ciascun partener si corresponsabilizza secondo la sua natura e la sua vocazione. La seconda indicazione è che l’eventuale asimmetria nel conferimento dell’una o dell’altra risorsa è un elemento fisiologico e che è bene far sì che ciascun partner si corresponsabilizzi in coerenza con la sua vocazione; al contrario, è censurabile, da parte di una pubblica amministrazione, porre un ETS di fronte allo sgradevole dilemma tra 1) autoescludersi da una coprogettazione su un tema e su un territorio per il quale potrebbe utilmente esprimere il proprio contributo e 2) doversi forzare ad una forma di contribuzione impropria al budget di progetto (come accade, ad esempio, laddove vengano imposte percentuali fisse del cosiddetto “cofinanziamento”); casi in cui, come scrive Fazzi (2023a), “gli enti di terzo settore accettano di partecipare egualmente alle coprogettazioni obtorto collo con la speranza di garantire una stabilizzazione dei rapporti con le pubbliche amministrazioni, ma gli effetti sulla loro motivazione a partecipare e sulla tenuta economica e organizzativa sono chiaramente negativi.”

È normale che le risorse economiche siano apportate, prevalentemente o anche totalmente, dalla pubblica amministrazione che ha competenze istituzionali sul tema oggetto di lavoro e che a tal fine riceve (diversamente da un ETS) le risorse dei cittadini provenienti dal gettito fiscale. È normale che un ETS non imprenditoriale contribuisca al budget di progetto attraverso il volontariato dei suoi membri e sviluppando azioni di animazione di comunità che reperiscano, motivino e organizzino nuovi e ulteriori volontari in corso di progetto. È normale chiedere ad un’impresa sociale di investire, cioè di impiegare proprie risorse non coperte da budget pubblico per realizzare azioni per le quali è legittimo attendersi un ritorno economico futuro, che compensi (o, meglio, superi) l’investimento oggi effettuato. Tali sono i casi di gruppi di progettazione che lavorano per costruire filoni progettuali complementari a quelli inizialmente realizzati, individuando le corrispondenti risorse da soggetti terzi (es. fondazioni, unione europea, ecc.); tali sono anche i casi in cui, nell’ambito di una progettazione, sorgono attività di mercato (es. un ristorante in un immobile riqualificato, un bar o un affitto bici in un parco pubblico). Non è normale, ma patologico, che ad un’impresa sociale sia richiesto come precondizione per la partecipazione ad una coprogettazione di contribuire (al pari della pubblica amministrazione) con dazioni dal proprio conto economico (anche indirettamente, con la costrizione alla rinuncia al rimborso di determinate spese) o prestando opera di volontariato coatto, ad esempio una quota di ore lavoro non riconosciute a rimborso; questo senza escludere che talune imprese sociali siano invece anche in grado di impegnarsi sul fronte di attivazione di comunità, di aggregazione e organizzazione di attività di volontariato, che però sarebbe scorretto pretenderlo come condizione vincolante.

3. I margini economici non vanno evitati, al contrario! E il loro utilizzo va reso oggetto di condivisione. Quanto detto costituisce al tempo stesso – e questa è la terza indicazione - un corretto inquadramento della questione del cosiddetto “utile” (Marocchi 2023), altro termine – come cofinanziamento – che andrebbe rimosso e sostituito con espressioni più appropriate. Come si è avuto modo di evidenziare (Marocchi 2025b), le imprese sociali non fanno “utile” nell’accezione comunemente utilizzata per le imprese for profit: piuttosto, è corretto affermare, destinano una parte del valore aggiunto alla formazione di capitale intergenerazionale, intangibile per i soci, ma prezioso per la comunità in cui operano. La questione va allora riconsiderata includendo in modo coerente tale accantonamento nella logica collaborativa. Ad esempio, nel caso sopra citato di un’impresa sociale che apra un esercizio di ristorazione in un immobile riqualificato oggetto di coprogettazione, non si tratta di limitare le attività di somministrazione affinché non siano redditizie, ma di concordare che eventuali avanzi che residuano dopo aver pagato i costi di produzione siano utilizzati nell’ambito del progetto, ad esempio investendo, dopo alcuni anni di accantonamento, per la creazione di una sala prove musicale nell’immobile, auspicando peraltro che tale sala prove produca ulteriori avanzi che consentano l’implementazione di ulteriori attività. Questa visione appare molto più coerente con la natura delle imprese sociali e più confacente all’interesse generale rispetto alle ristrette vedute di chi propone visioni recessive e penalizzanti per le imprese sociali, di chi, per timore del lucro (inesistente), mortifica lo sviluppo di progetti utili alla cittadinanza. La logica partenariale non è un “gioco a somma zero”, in cui l’interesse pubblico si salvaguarda tanto più si riesce ad impoverire il Terzo settore tramite l’imposizione di cofinanziamenti, ma una scommessa comune che punta a costruire condizioni di prosperità di tutti i partner nell’ambito di un patto di reciproco investimento di lungo periodo.

4. Le risorse aggiuntive più significative sono quelle che il partenariato trova congiuntamente in corso di progetto. Ancora – quarta indicazione - è bene essere consapevoli che, con le dovute eccezioni, generalmente i casi in cui le risorse disponibili per un progetto lievitano in modo significativo rispetto a quelle inizialmente assicurate dall’amministrazione procedente sono quelli in cui il partenariato lavora con reciproca fiducia e con spirito collaborativo cercando risorse aggiuntive in corso di progetto. Ciò che è disponibile in fase di prima progettazione, infatti, anche quando appaia aggiuntivo rispetto alle risorse pubbliche, null’altro è che quanto già esistente: è irrealistico pensare che, ad esempio, un’organizzazione di volontariato tenga chiusi in una stanza nuovi potenziali volontari, per liberarli e scatenarli in occasione dei tavoli di coprogettazione. I volontari che vengono dichiarati in sede di individuazione dei partecipanti ai tavoli o in sede di definizione del progetto con ogni probabilità c’erano anche prima e ci sarebbero stati comunque anche qualora la coprogettazione non fosse mai avvenuta, rappresentano quindi un valore aggiunto molto parziale; ed esempi simili si potrebbero fare per risorse inizialmente apportate da imprese sociali. Diverso è invece il possibile esito – questo sì, tale da generare risorse effettivamente aggiuntive rispetto alla situazione di partenza – dell’azione integrata del partenariato nel corso del tempo che può, come documentano talune esperienze, moltiplicare le risorse a disposizione della comunità. Ma tali esiti auspicabili, frutto di un convinto investimento del partenariato, sono collegati ad un clima fiduciario e collaborativo, incompatibile con la sensazione dei partner ETS di essere “presi per il collo” da pretese insostenibili di finanziamento (rispetto alla sostenibilità dei cofinanziamenti per le imprese sociali, si veda Marocchi 2024b). In sostanza, si rinunci a chiedere cofinanziamenti coatti, si investa in patti di lungo periodo creando reciproca fiducia.

5. Rendere la collaborazione una scelta culturale e pertanto ordinaria. Già in altri contributi si è evidenziato come l’affermazione, giuridicamente ineccepibile, che la pubblica amministrazione deve valutare “quando è più opportuno collaborare e quando intraprendere la via competitiva”, non rappresenta nella sostanza una opzione ragionevole, in quanto appare improbabile una effettiva e aperta condivisione di idee, risorse, punti di forza e di debolezza nell’ambito di tavoli collaborativi da parte di soggetti che al contempo sono impegnati l’un contro l’altro in contesti competitivi. In aggiunta, rispetto ai temi qui trattati, va rimarcato come la tendenza a ricorrere all’amministrazione condivisa in contesti magari creativi e innovativi, ma economicamente marginali (mentre sulle iniziative che prevedono importi significativi si compete) ha l’effetto negativo di rendere la collaborazione legata a situazioni in cui l’impegno -sui tavoli prima e sulla rendicontazione dopo - è sproporzionato rispetto alle risorse a disposizione. Con i presupposti qui sviluppati vi sono le condizioni per rendere le pratiche collaborative – con gli ingaggi economici qui descritti, si intende - la soluzione ordinaria per l’insieme degli interventi nei settori di interesse generale.

6. Ripensare i meccanismi rendicontativi in modo coerente con il contesto collaborativo. Infine, la sesta indicazione riguarda la rendicontazione. Il tema richiederebbe di essere sviluppato in modo specifico, ma alcuni elementi possono essere dedotti da quanto sino ad ora evidenziato. Una cosa è delineare un modello rendicontativo in un contesto in cui il soggetto cui sono indirizzate le risorse è un privato mosso dall’autointeresse la cui azione, in una specifica circostanza, incontra l’interesse pubblico, giustificando un flusso di risorse; una cosa è un modello rendicontativo che nasce all’interno di una logica partenariale e fiduciaria. Questo non fa venire meno il diritto e dovere dell’amministrazione di compiere le verifiche necessarie ad evitare un uso scorretto del denaro dei cittadini, ma invita a immaginare modelli più equilibrati, ad esempio in cui si ricorra – in assenza di diverse previsioni da parte di autorità terze – ad un utilizzo generalizzato delle autocertificazioni con previsione di successivi controlli a campione. D’altra parte, il Terzo settore è chiamato ad organizzarsi per un contesto in cui rendere la propria gestione economica trasparente nei confronti del partenariato con cui collabora diventa normale e quindi ad organizzarsi ex ante, anche con il supporto di tecnologie, per rendere più immediata l’individuazione delle spese relative ad ogni specifico intervento. Mentre nel caso di un contesto di mercato i costi dei fattori produttivi sono questioni attinenti all’autonomia e alla libertà di impresa, in un contesto collaborativo, come si è visto, il flusso di risorse segue un criterio allocativo basato sui costi ed è pertanto necessario attrezzarsi per poterli avere sotto controllo.

In conclusione

In questa fase sono sempre più forti le spinte a adottare schemi collaborativi. Oltre ad una vivacità in sede di applicazione locale (Bellin e altri 2025), il tema ha ormai assunto un ruolo di rilievo in sede normativa (si veda ad esempio Santuari 2024c a proposito della riforma della disabilità) e programmatoria (ad esempio Santuari 2025 rispetto al Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali o Santuari 2024 rispetto alla riorganizzazione degli Ambiti Territoriali Sociali).

D’altra parte, come evidenziato in un precedente contributo (Marocchi 2025b), vi è oggi la tendenza a sviluppare una visione ristretta e sterilizzante dei procedimenti collaborativi. È la logica, mai sopita, di chi, tanto nella pubblica amministrazione, quanto nel Terzo settore, non riesce in fin dei conti a concepire che possa esservi uno spazio autenticamente collaborativo. Si perde nella ricerca ossessiva di possibili rivoli del lucro, gonfia le coprogettazioni di oneri burocratici e rendicontativi, adotta una visione punitiva e penalizzante soprattutto per le imprese sociali. Qui, al contrario, si propone una visione autenticamente collaborativa, promozionale, volta alla ricerca di benefici effettivi per le comunità ove si coprogetta, che valorizza tutti i soggetti coinvolti rendendo il lavoro comune qualcosa di sostenibile, creativo e, in ultima analisi, piacevole.

Certo va esplicitato un aspetto problematico. Laddove un amministratore pubblico, convinto della bontà delle tesi presenti in queste pagine, chiedesse garanzia che, adottandole, potrebbe comunque uscire indenne da qualsiasi contenzioso innanzi a TAR e Consiglio di Stato, nessuno sarebbe in grado di fornirla. Non è infrequente leggere, ancor oggi, tesi originali sul tema della gratuità (Santuari 2022; Antonini 2025), sentenze che presentano errori materiali piuttosto grossolani (Marocchi 2024b), e, striscianti, previsioni amministrative che provano a erigere barriere burocratiche per la malcelata ostilità a tutto ciò che si allontani dal Codice dei contratti pubblici. Dunque, no, non si è in grado di garantire che seguendo le indicazioni qui esposte non si possa incontrare sulla propria strada un qualche giudice amministrativo o qualche burocrate ostile all’amministrazione condivisa che eccepisce sull’uno o sull’altro aspetto; per questo motivo non si può non esprimere comprensione per chi nella pubblica amministrazione, pur considerando e apprezzando l’impostazione qui proposta, scegliesse infine di adottare scelte più prudenti.

Ma, d’altra parte, si è invece in grado di garantire che laddove queste scelte “prudenti”, come spesso accade, si risolvano in condizioni punitive per gli ETS e in particolare per le imprese sociali, si otterrà il risultato di ampliare l’area della diffidenza e dell’insoddisfazione – e fino dell’ostilità - verso l’amministrazione condivisa, aggiungendo ai “diffidenti ideologici” – quelli che considerano gli appalti e la concorrenza l’unica via all’interesse pubblico – anche “diffidenti acquisiti”, coloro che sono usciti insoddisfatti da esperienze faticose di coprogettazione. Con il risultato di ritornare, irresponsabilmente, in un mondo monopolizzato dalla competizione, che tanti danni (Borzaga 2018; Borzaga 2019) ha portato in questi decenni.

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Gianfranco Marocchi

Impresa Sociale

Nel gruppo di direzione di Impresa sociale, è anche vicedirettore di Welforum.it. Cooperatore sociale e ricercatore, si occupa di welfare, impresa sociale, collaborazione tra enti pubblici e Terzo settore.

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