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ISSN 2282-1694
Tempo di lettura:  6 minuti
Argomento:  Impresa sociale
data:  27 giugno 2020

Sentenza 131/2020: sta nascendo un diritto costituzionale del Terzo settore

Luca Gori

La sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale, chiamata a decidere in un contenzioso tra Stato e Regione Umbria, è destinata a divenire il punto di riferimento di diritto costituzionale del Terzo settore, capace di coglierne le peculiarità e di delineare di conseguenza le relazioni tra Terzo settore e poteri pubblici.


Qualche settimana fa, da questo blog, si rilevava criticamente come la questione dell’applicazione degli artt. 55 e 56 del Codice del Terzo settore fosse, oramai, appannaggio esclusivo dei giudici amministrativi, con una serie di ondivaghe e contradditorie pronunce. Si segnalava, però, l’interessante questione della legge regionale dell’Umbria (n. 2 del 2019) sulle cooperative di comunità. Ebbene, la sentenza è arrivata, in tempi assai rapidi (n. 131/2020 - redattore Antonini) ed è destinata a divenire il punto di riferimento del diritto costituzionale del Terzo settore.

Il caso è stato originato dal ricorso governativo sulla legge regionale Umbria n. 2 del 2019 (Disciplina delle cooperative di comunità). Le cooperative di comunità non sono, necessariamente, ETS ma possono acquisire tale qualifica, ricorrendo i presupposti previsti dal legislatore statale. La legge prevedeva che la Regione avrebbe dovuto disciplinare «le modalità di attuazione della co-programmazione, della co-progettazione e dell’accreditamento previste dall’articolo 55 del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 (Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106) (…)». Il Governo ha impugnato la legge umbra sostenendo che una siffatta formulazione violasse il Codice del Terzo settore e, quindi, violasse il riparto di competenza fra Stato e Regioni. In particolare, poiché l’art. 55 CTS prevede che i soli enti del Terzo settore possano essere coinvolti attivamente tramite co-programmazione, co-progettazione ed accreditamento (ai sensi dell’art. 55 CTS), l’ammissione delle cooperative di comunità - senza precisare che queste debbano essere anche ETS – avrebbe potuto determinare una violazione del riparto costituzionale di competenze. Invece, la legge regionale avrebbe dovuto delimitare alle sole cooperative di comunità - ETS la possibilità di accedervi.

La Corte ha risolto la questione in via interpretativa, affermando che gli istituti dell’art. 55 del Codice del Terzo settore, richiamati dalla legge regionale, non possano trovare applicazione qualora le cooperative di comunità non siano anche in possesso della qualifica di ETS.

Al di là del decisum, è l’itinerario argomentativo merita di essere analizzato ed apprezzato.

Un primo elemento che colpisce è l’ampiezza argomentativa. Nelle prime sentenze successivamente alla riforma (a partire dalla n. 185/2018, per proseguire con le successive 277 e 285 del 2019 e la n. 27/2020) la motivazione è sempre stata piuttosto stringata e legata direttamente alla questione da decidere. Ed anche in questo caso – essendo l’esito del giudizio abbastanza prevedibile– la motivazione avrebbe potuto essere più breve. La Corte, invece, ha ritenuto necessario premettere alla parte di motivazione più direttamente attinente al caso, un inquadramento del rapporto fra Costituzione e Terzo settore. Ed è questo il primo elemento di apprezzamento: sembra voler indicare che, nella questione sollevate, non è in gioco solo un problema di riparto di competenze fra Stato e Regioni, ma viene in rilievo direttamente uno degli elementi distintivi della forma di stato, attraverso l’intreccio del principio personalistico, di quello solidaristico solidaristico e di quello pluralistico, che si esprime in una complessa rete di relazioni giuridicamente rilevanti che si instaurano liberamente fra le persone al fine di concorrere all’attuazione del programma costituzionale. Una sentenza quasi didascalica – che ricorda la precedente “storica” sentenza n. 75 del 1992 sul volontariato – che, pur risolvendo un riparto di competenze legislative, parla in realtà alle istituzioni (a tutti i livelli: si pensi agli spazi ampi della potestà legislativa regionale!) ed alla società civile (nella ricchezza delle sue manifestazioni), richiamando ad una comune ed impegnativa responsabilità, a sgombrare il campo da tanti, preoccupanti equivoci cui negli ultimi anni si è assistito nel dibattito pubblico.

Un secondo elemento assai significativo, connesso al primo, è l’iter argomentativo che la sentenza segue, assai chiaro e convincente. Essa, infatti, costruisce un percorso logico-giuridico che, nella sua essenzialità, può essere applicato in una pluralità di ambiti rilevanti per la disciplina del Terzo settore.

Il punto di partenza è la risposta alla domanda: quale “fondamento” costituzionale ha la disciplina degli enti del Terzo settore? Già il documento del Club degli amici dell’art. 55, nel 2018, aveva individuato in questo “passaggio”, la questione primaria e decisiva da affrontare. La Corte risponde oggi affermando che gli «enti del Terzo settore» come espressione delle «libertà sociali», non riconducibili né allo Stato, né al mercato, sono la gemmazione sul piano della legislazione di quelle «forme di solidarietà» che, in quanto espressive di una relazione di reciprocità, devono essere ricomprese «tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente». Più concretamente, sulla base dell’esperienza e dell’evoluzione normativa, «gli ETS, in quanto rappresentativi della “società solidale”, (…) spesso costituiscono sul territorio una rete capillare di vicinanza e solidarietà, sensibile in tempo reale alle esigenze che provengono dal tessuto sociale, e sono quindi in grado di mettere a disposizione dell’ente pubblico sia preziosi dati informativi (altrimenti conseguibili in tempi più lunghi e con costi organizzativi a proprio carico), sia un’importante capacità organizzativa e di intervento: ciò che produce spesso effetti positivi, sia in termini di risparmio di risorse che di aumento della qualità dei servizi e delle prestazioni erogate a favore della “società del bisogno”».

Acquisito questo risultato, il successivo passaggio argomentativo della sentenza è costituito dalla necessità di definire giuridicamente un tipo di rapporto fra Terzo settore e pubblica amministrazione in grado di “valorizzare” quel ruolo costituzionale degli ETS. Se, infatti, il Terzo settore manifesta geneticamente «una specifica attitudine a partecipare insieme ai soggetti pubblici alla realizzazione dell’interesse generale», non sarebbe coerente sottoporre quel rapporto alle medesime regole previste per tutti i soggetti collettivi operanti nell’ordinamento. Ecco che si impone – nella logica costituzionale – la creazione di un “nuovo” «canale di amministrazione condivisa» (riprendendo una espressione la cui elaborazione teorica si deve principalmente al contributo di Gregorio Arena), alternativo a quello del profitto e del mercato, non fondato semplicemente su un rapporto sinallagmatico, bensì «sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico». Quest’ultimo passaggio della decisione potrebbe essere assunto a definizione generale di co-programmazione/co-progettazione, per evidenziare la ragione ultima ed il fondamento causale della coprogrammazione/coprogettazione rispetto agli altri istituti del Codice dei contratti pubblici.

Infine, la verifica di compatibilità dell’esito interpretativo raggiunto col diritto dell’Unione europea. Anziché sovvertire il quadro normativo di derivazione euro-unitaria, a giudizio della Corte è lo «stesso diritto dell’Unione che mantiene, a ben vedere, in capo agli Stati membri la possibilità di apprestare, in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, un modello organizzativo ispirato non al principio di concorrenza ma a quello di solidarietà (sempre che le organizzazioni non lucrative contribuiscano, in condizioni di pari trattamento, in modo effettivo e trasparente al perseguimento delle finalità sociali)». Cosicché, il Codice del Terzo settore costituisce una peculiare forma di attuazione, nell’ordinamento italiano, della disciplina europea. Il passaggio è significativo in due direzioni. Sotto il profilo processuale, perché il Governo non aveva censurato la disciplina legislativa umbra per contrasto con il diritto dell’Unione europea, così come recepito in Italia nel Codice dei contratti pubblici (generalmente ricondotto alla competenza legislativa esclusiva in tema di tutela della concorrenza): la precisazione della Corte, quindi, lascia intendere che il Giudice costituzionale è ben avvertito della “portata” del dibattito in corso sulla compatibilità delle norme del Codice del Terzo settore con il diritto europeo (a partire dal discusso parere del Consiglio di Stato n. 2052 del 2018). Ma sotto il profilo sostanziale, mette in evidenza anche come un corretto iter logico-giuridico non possa partire da una “supposta” ricostruzione assoluta della nozione di concorrenza nell’ordinamento europeo, il cui ingresso nell’ordinamento italiano modellerebbe – univocamente – finanche i principi costituzionali fondamentali, traducendosi sul piano legislativo nella possibilità, senza alternative, di impostare i rapporti fra pubblica amministrazione e Terzo settore su basi del tutto paritarie per tutti i soggetti che operano con la P.A. (a meno di non ipotizzare relazioni fra Terzo settore e P.A. del tutto gratuite; ed anche la gratuità – si ricorderà – sarebbe da guardare con sospetto, in quanto perturbazione degli equilibrii di quella concorrenza e di quel mercato, assunti come valori assoluti e non negoziabili a monte).

Se questo schema logico-giuridico delineato dalla Corte, si applica ai diversi ambiti dell’ordinamento, emerge – definitivamente – il fondamento costituzionale di un diritto del Terzo settore come diritto a sé stante, dotato di una logica autonoma e di una sistematica sua propria, in quanto chiamato a regolare relazioni improntate ad una logica diversa da quella del mercato e da quella propria dei poteri pubblici. Ciò vale tanto nella dimensione dei vantaggi, quanto in quella degli oneri: afferma la sentenza che presupposto per l’ammissione ad un trattamento di favore è «la rigorosa garanzia della comunanza di interessi da perseguire e quindi la effettiva “terzietà” (verificata e assicurata attraverso specifici requisiti giuridici e relativi sistemi di controllo) rispetto al mercato e alle finalità di profitto che lo caratterizzano».

Le piste aperte da questa sentenza, a partire dall’apparentemente piccolo caso della Regione Umbria, saranno di grande interesse.

Rivista-impresa-sociale-Luca Gori Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa

Luca Gori

Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa

Ricercatore presso l'Istituto di Diritto, Politica e Sviluppo, Scuola Sant'Anna di Pisa.

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