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ISSN 2282-1694
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Flaviano Zandonai

Numero 9 / 2017

Casi studio

I 10 anni di Lama: una piattaforma di conoscenza “trasformazionale”

Flaviano Zandonai

Abstract

L’accompagnamento a processi di innovazione socio-tecnologica presuppone, nell’epoca contemporanea, la capacità di cogliere tensioni al cambiamento e segnali emergenti non necessariamente istituzionalizzati. L’operatività di LAMA Development and Cooperation Agency, nel suo primo decennio di vita, ha raccolto questa sfida operando all’interno di ambiti diversi – dalla cooperazione internazionale al terzo settore ed economia sociale italiana ed europea – e ricombinando approcci altrettanto diversificati. Intorno al “core business” della consulenza per importanti player economici e sociali – della cooperazione in particolare – si sono infatti via via affermati altri progetti di sviluppo più marcatamente imprenditoriali, come l’apertura di uno spazio di coworking e incubazione della rete Impact Hub nella città di Firenze. Un percorso che ha contribuito a modificare il progetto stesso di LAMA verso un modello di piattaforma per l’innovazione aperta che rappresenta una delle realtà più promettenti nel nostro Paese.

In occasione dei dieci anni di attività, Flaviano Zandonai ha intervistato Marco Tognetti, co-fondatore e direttore di LAMA Development and Cooperation Agency, Firenze.

Riflettendo sul ciclo di vita di LAMA in questi dieci anni, dall’esterno appare come un’organizzazione nata e cresciuta in una sorta di ecosistema che probabilmente LAMA stessa ha contributo ad alimentare – penso alla vostra mission, alle vostre peculiarità, alle progettualità soprattutto in tema di cooperazione allo sviluppo. Concordi con questa visione?

Penso di si, anche se credo sia necessaria una premessa. Quando fondammo LAMA, la nostra idea era di occuparci di cooperazione internazionale, con un focus non tanto sulla dimensione di aiuto, quanto più sullo sviluppo economico, proponendoci come accompagnatori/consulenti di quelle iniziative – imprenditoriali o affini – che potessero avere un impatto sociale nei paesi in via di sviluppo. Il nostro primo ecosistema di riferimento, se così lo vogliamo chiamare, è stato questo; fino al 2010 abbiamo lavorato con questa mission e con questo taglio operativo.

Il contesto è poi mutato, complice la crisi internazionale, la riduzione dei fondi di aiuto, nonché l’evoluzione del nostro, e non solo, pensiero sul ruolo dell’impresa in termini di CSR, vista non più come attività marginale ma strategica; avvenimenti che “accadevano” intorno a noi, che abbiamo “letto” mentre accadevano e vissuto, essendo al tempo molto giovani, più come un dato di contesto esterno, non identificandoci ancora a pieno titolo come attori di un ecosistema in evoluzione.

I cambiamenti in atto ci hanno posto di fronte ad un primo grande interrogativo: vale la pena rivolgersi solo a quegli attori che si auto-identificano come portatori di uno sviluppo intrinsecamente positivo – organizzazioni non profit, umanitarie etc. – oppure vanno tenute in considerazione anche tutte quelle imprese che, nello svolgere attività di mercato, possono produrre un impatto non solo economico ma anche socio-ambientale? Un interrogativo che ci ha portato, di fatto, ad avvicinarsi al mondo dell’impresa anche tradizionale, consentendo di proporci come consulenti strategici per progetti di sviluppo sostenibile.

Un secondo snodo è stata la riflessione sulla distribuzione della ricchezza: è ancora vero che il mondo è diviso in blocchi – da una parte i ricchi/felici e dall’altra i poveri/bisognosi – oppure siamo di fronte ad una distribuzione della ricchezza a macchia di leopardo, con zone di benessere anche nei paesi in via di sviluppo e sacche di povertà anche negli stati occidentali? La risposta a questa domanda ci ha spinto a riconvertire la nostra strategia, non rivolgendoci più solo ai paesi in via di sviluppo, consapevoli che anche a casa nostra è opportuno lavorare sulle trasformazioni dei modelli organizzativi, per renderli più efficaci da un punto di vista dell’impatto socio-ambientale e di engagement.

Nel 2010 queste due istanze si sono incontrate, in quanto LAMA ha avuto la possibilità di lavorare sia con organizzazioni di terzo settore italiane ed europee, che con imprese for profit italiane. E questo ci ha “costretti” ad affinare i nostri servizi e dotarci di una capacità tecnica solida per poter lavorare su mercati più maturi (fare un business plan per un gruppo di produttori di arachidi in Senegal è ben diverso dal ridefinire le strategie di impatto socio-ambientale di un’impresa che fa logistica in Italia). In quegli anni è iniziato un percorso che ha trasformato LAMA e il suo ecosistema di riferimento. Questi cambiamenti hanno creato delle opportunità ma anche delle difficoltà; una cosa è stare nei confini di una industry precisa, ma se siamo noi stessi ad ibridare l’interpretazione di chi siano i portatori di sviluppo, anche noi abbiamo dovuto iniziare ad abitare mondi diversi, che ancor oggi spesso non si parlano o che comunque non si auto-rappresentano come appartenenti ad un'unica comunità.

Così come la cooperazione internazionale ha rappresentato per voi un campo nel quale maturare competenze ed esperienza, chi o cosa, se esiste, ha svolto per LAMA un ruolo di sostegno nel compiere la virata di cui hai parlato? Penso ad un vostro committente o partner, oppure all’approcciarvi ad uno specifico settore di attività. Esiste oppure si tratta di un’operazione molto costruita?

Anche in questo caso farei una premessa. In termini di ibridazione dei modelli e dei settori di intervento, essendo noi stessi una cooperativa, abbiamo già nel nostro DNA una dualità tra funzione mutualistica e concretezza economico-finanziaria. Più in generale, il mondo cooperativo che abitiamo ha già in sé tutte le sfaccettature di questa complessità (spaziando dalla cooperazione sociale fino alle banche di credito cooperativo). Quindi, in qualche modo, la virata – o meglio l’ampiamento dei nostri settori di interesse – si motiva anche da questa osservazione.

In termini di ecosistema, devo dire che più che organizzazioni, abbiamo avuto la fortuna di incontrare persone. La nostra ricchezza è stata attrarre competenze che provenivano da una pluralità di mondi; sia dichiaratamente di terzo settore – penso a direttori o presidenti di associazioni e cooperative che, nell’intraprendere processi di cambiamento organizzativo, hanno trovato in noi dei consulenti molto attenti agli aspetti sociali; sia persone legate a percorsi tradizionali di consulenza (Ernst & Young, Deloitte etc.), con cui noi stessi abbiamo cercato collaborazioni perché sentivamo che ci mancava quel rigore metodologico delle big consulting (collaboratori che poi sono rimasti con noi come advisor di progetti o senior advisor).

Quindi gli incontri sono stati sempre molto personali. E’ stato questo aspetto che ha fatto crescere l’ecosistema attorno a noi, mentre nessuna organizzazione in particolare ci ha “adottati” o facilitati. La stessa idea di fondare Impact Hub Firenze nel 2013 si è alimentata dallo stesso principio; l’aspetto della rete Hub che più ci aveva colpito era stato proprio il modello di membership basato sulle persone e non sulle organizzazioni. Il cardine del network sono i membri: ogni persona è coinvolta assieme a tutti i cappelli che porta e con tutti i mondi che frequenta: lavorando in un’azienda, facendo volontariato, gruppo scout, corsi di cucina etc. Se prendi me, Marco, prendi tutti i miei mondi. Se invece coinvolgi solo LAMA, hai solo la funzione che rappresento, Marco-direttore-di-LAMA. In definitiva ci siamo uniti alla rete Impact Hub perché abbiamo sposato l’idea che le persone portano negli ecosistemi più di quello che porterebbero se dovessero scegliere un solo cappello con cui farlo.

Da questo punto di vista, l’approccio che avete al social business, è sempre legato più alle persone che non alle forme giuridiche o ambiti di attività? Mi riferisco al ruolo che l’imprenditore sociale può avere al di là dell’organizzazione, alla sua funzione di agente di cambiamento, dove la dimensione di assunzione di rischio imprenditoriale è legata ad un nome e cognome più che alla stessa impresa.

In parte direi di sì, però con la variante – avendo comunque sempre presente quella che è la nostra forma giuridica, ossia la cooperativa – che l'agente di cambiamento deve stare in un contesto collettivo affinché il suo contributo non sia solo una scintilla nel vuoto. Le persone che si incontrano sono importanti, ma con delle differenze rispetto ad un approccio alla Ashoka, per cui il focus è prettamente l’imprenditore-innovatore.

A ben pensare, per tutto ciò che LAMA ha fatto in questi anni avrebbe benissimo potuto essere una srl di proprietà personale dei tre fondatori. Invece siamo convinti che le buone idee ed i processi di cambiamento funzionano e sono più stabili se hanno una dinamica collettiva. Questa ricerca “etica” di condivisione ha sempre caratterizzato LAMA e si può ritrovare anche in Impact Hub e nei progetti di consulenza. Abbiamo un focus sulle forze individuali e su quelle passioni che permettono di lasciare un’impronta personale, ma con la consapevolezza che l’impatto è superiore se poi queste spinte sono condivise e agite collettivamente.

Come dicevi, LAMA ha scelto di essere una cooperativa, potremmo dire una cooperativa ad “alta intensità di conoscenza”. In termini generali, quali pensi siano gli elementi di forza e debolezza del “fare cooperazione” mettendo insieme competenze e capacità che insistono soprattutto su elementi di conoscenza? Mi riferisco al dibattito sulle forma cooperativa non solo finalizzata a settori di attività molto specifici, ma anche per funzioni sofisticate, che richiedono livelli di partecipazione consistenti e che presuppongono la condivisione di un progetto culturale di fondo.

Usando una categoria in voga, e che sicuramente non avevamo in mente quando abbiamo iniziato, mi verrebbe da rispondere così: LAMA è una piattaforma che abilita progetti individuali di persone che si sono unite a noi e che oggi rappresentano la nostra compagine sociale.

Nel momento in cui si deve andare in verticale, massimizzando l'impiego degli input produttivi – che nel caso della conoscenza sono l'intelligenza e le competenze delle persone – non è detto che la cooperativa sia il modello più efficace/efficiente rispetto invece ad una società di capitali e di proprietà. Aver scelto la forma cooperativa ci ha permesso di essere più “piattaforma”; in tutto quello che abbiamo fatto abbiamo potuto spaziare molto, sia in termini di settori di attività che di territorio – Firenze, Milano, la Cina, paesi in via di sviluppo – attraendo persone che stavano cercando un “luogo”, non necessariamente in senso fisico, per poter arrivare più lontano di quanto avrebbero potuto da sole, senza però rinunciare ad un imprinting personale.

Direi che questo costituisce il fil rouge che accompagna LAMA dalla sua fondazione, anche se all’inizio non era tutto così chiaro: abbiamo fornito a molte persone la possibilità di dare una propria impronta imprenditoriale però all’interno di un'organizzazione collettiva. E direi che questa è la cosa che mi piacerebbe continuare a fare nei prossimi 10 anni.

Arrivare a LAMA significa a tutti gli effetti avere la possibilità di usare la piattaforma per progetti anche propri o a cui si tiene. Si può partire da un’attività più di tipo consulenziale per un certo cliente. Ma già passando ai progetti – seppur sempre dentro LAMA – compaiono elementi di creatività, di scelta personale, di visione. E poi ci sono i progetti imprenditoriali, che sono partiti come sperimentazioni “incubate” da LAMA per poi diventare spin-off con una propria forma societaria. Ad esempio, Impact Hub per i primi due anni altro non era che una “serie di iniziative”, poi è diventato un’impresa (srl) e Riccardo Luciani, partner di LAMA, ne è diventato l’amministratore delegato. LAMA è inoltre co-fondatrice della società cinese L3 che opera a Pechino e Shanghai e che offre consulenze di accompagnamento a soggetti ed imprese che vogliono inserirsi nel mercato cinese. Lapo Tanzj – co-founder di LAMA assieme a me e ad Andrea Rapisardi – nel 2012, per un suo percorso personale, si trasferisce a Shanghai, per arrivare nel 2016 a fondare L3, partecipata da LAMA che ne gestisce la parte di internazionalizzazione verso la Cina. L’ultima arrivata in ordine di tempo è Namaqua, una software house con base a Londra, che nasce da un’iniziativa di tre persone, all’inizio separate da noi, ma che cercavano un contesto più ampio per proseguire il loro percorso imprenditoriale, per cui si sono proposti di entrare nell'ecosistema di LAMA attraverso la forma della partecipazione al loro capitale.

Pensando al vostro lavoro per Fondazione Unipolis sul tema della sharing economy e dell’economia collaborativa, leggo un tentativo da parte vostra di ricercare un’interazione tra l’innovazione socio-tecnologica emergente e realtà imprenditoriali di natura sociale – ad esempio le cooperative – quanto meno in termini di conoscenza reciproca e forme di convergenza su attività, iniziative etc. Dal tuo osservatorio, quali sono gli innesti più interessanti? A quali condizioni alcune innovazioni dell’economia collaborativa possono essere strumenti di cambiamento organizzativo e fino a che punto sono realmente funzionali?

Il tema delle relazioni tra innovazioni digitali e trasformazioni imprenditoriali, soprattutto per le organizzazioni non profit, è complesso e mi soffermerei su due livelli di lettura.

Un primo livello riguarda l’adattamento al contesto che cambia – ricordo che il payoff di LAMA è proprio “soluzioni per un mondo che cambia” – ovvero, dato che gli stili di vita, i mercati, le modalità di relazioni fra le persone, i modelli di consumo e di produzione si trasformano, se un’organizzazione vuole vivere per molti anni – addirittura centinaia di anni – è opportuno che legga il contesto per comprenderne l’evoluzione e trovi le forme per adattarsi al cambiamento. E’ un atteggiamento fondamentale – per dirla nel solito modo un po’ retorico – per essere “resilienti” al cambiamento ed è un approccio “trasformativo”. Se oggi un supermercato – cooperativo o meno – non si chiede in che modo i sistemi informativi permettano non solo di gestire il magazzino, ma di interagire direttamente con gli utenti (tramite piattaforme di e-commerce, la possibilità di segnalazione del gradimento dei prodotti, fino addirittura a forme appunto di maggiore partecipazione ad alcune scelte), si sta perdendo una grande possibilità di rimanere concorrenziale sulla sua fetta di mercato. Questo è un blocco “trasformativo” e incontra tutti i limiti e le problematiche del sistema italiano; da un lato in termini di età anagrafica (penso al fatto che le persone giovani siano naturalmente più predisposte all’innovazione digitale e in Italia non ci sono grandi possibilità di essere alla guida di un’organizzazione sotto i 40 anni), ma soprattutto di cultura manageriale (molte piccole-medie imprese italiane hanno un approccio manageriale familiare, per cui è difficile introdurre elementi di “professionalizzazione”). Dentro un blocco trasformativo non è facile operare; anche in questo caso chi fa la differenza sono le persone, che riescono a interpretare il contesto e guidare le organizzazioni verso questo tipo di adattamenti.

Un secondo livello riguarda quelli che “nascono nel cambiamento”, nel nuovo contesto. Per un consulente come noi, lavorare con queste persone può essere più eccitante, in quanto sono allineati in termini di innovazione; il nostro apporto, in questo caso, è di provare a capire come portare nel “nuovo mondo” quei principi di condivisione e cooperazione che già perseguivamo nel contesto tradizionale.

Per arrivare al focus della domanda, ossia i punti di contatto tra forme imprenditoriali come le cooperative e le innovazioni portate dalla sharing economy, anche qui distinguerei due approcci.

Dal punto di vista delle organizzazioni, non si tratta si trasformare tutte le cooperative in piattaforme digitali cooperative, assolutamente no. Però è anche vero che alcune delle attività tradizionali delle cooperative, in particolare quelle che presuppongono l’acquisto di servizi da parte di utenti, possono essere affiancate da un’attività digitale su una piattaforma (ad esempio, il poter acquistare un servizio online oltre che recandosi fisicamente in cooperativa). Un’evoluzione di una cooperativa in questo senso ricade nell’alveo dei fattori “trasformativi” di cui sopra.

Invece esistono delle piattaforme digitali cooperative che nascono oggi già come piattaforme digitali, rispetto alle quali il tema è come infrastrutturare meccanismi di governance che permettano di poter “fare lo stesso mestiere” delle piattaforme digitali di capitali, valorizzando però un meccanismo di condivisione della proprietà.

Sono due livelli che, secondo me, non andrebbero nemmeno troppo mescolati. E non si escludono, nel senso che ci sono organizzazioni che nascono oggi e già da subito acquisiscono le caratteristiche dell’oggi; e realtà nate cent’anni fa che si devono fare la domanda di come esistere per altri cento anni. E le soluzioni non sono uguali per tutti e due.

E non è detto che per forza debbano interagire in qualche modo o convergere su questi aspetti, no?

No, certo. Faccio una brevissima digressione. Lo scorso novembre si è tenuta a New York la più autorevole conferenza internazionale sul platform cooperativism. Premesso che negli Stati Uniti la cooperazione è meno forte, per me è stato evidente come, per loro, la discussione sia su come democratizzare il capitale al tempo del digitale, non come trasformare in modo digitale la cooperazione che già esiste. Come accaduto nei primi del Novecento con la democratizzazione dei mezzi di produzione – ed erano mezzi fisici – oggi il dibattito si sposta sul digitale, perché il focus è sul quel tipo di industria e su quei mezzi di produzione. Si tratta di una riflessione diversa e non equivale assolutamente a chiedersi che cosa dovrebbero fare la Coop o le BCC per cogliere le opportunità del digitale. La risposta non è per tutte, evidentemente, “diventare una piattaforma digitale cooperativa”.

Come LAMA vi occupate anche di dimensione d'impatto, andando a misurare risorse o capacità spesso “intangibili”, ossia che producono valore non passando attraverso lo sfruttamento di beni materiali. Secondo te, a che punto siamo nella consapevolezza del valore che hanno le risorse intangibili per le organizzazioni? Si tratta di aspetti entrati di fatto nelle catene di produzione del valore o sono più elemento di cornice e di cultura organizzativa?

Personalmente credo che gli intangibili dovrebbero essere assolutamente centrali per le organizzazioni. Dal mio osservatorio poi, vedo due tipi di stimoli. Uno è più di taglio aziendalista e colloca gli intangibili nel filone della cultura aziendale (penso allo sviluppo delle risorse umane, apprendimento continuo etc.) rendendoli, di fatto, strumentali. Faccio un esempio: Apple, rispetto a Microsoft, si contraddistingue non solo per il prodotto, ma anche per tutto quell’intangibile che porta il prodotto ad essere quello che è, senza il quale quel prodotto non esisterebbe. Riconoscendo quindi il valore dell’intangibile, le aziende lo traducono in una strumentazione di accompagnamento di tipo estremamente funzionale, per cui “tu imprenditore, che hai riconosciuto il valore di un intangibile, lo devi alimentare, manutenere, infrastrutturare come fai con il resto del tuo business; come ti occupi di finanza ti devi occupare della crescita dell’intangibile”.

L’altro approccio, più di stampo sociale e tipico del terzo settore, aggiunge un livello di profondità in termini di impatto pubblico non strettamente legato all’organizzazione. Riconoscere e valorizzare gli intangibili ha ricadute non solo sulle imprese in cui vengono manutenuti e accompagnati, ma più in generale sulla società. In fondo garantire una buona qualità di vita delle persone nelle organizzazioni – facendole stare bene, abilitandole a fare quello che hanno voglia di fare, rendendo per loro accessibili beni e servizi non solo di natura strettamente di sussistenza – è un pezzo della cultura del bene pubblico.

Entrambi gli approcci offrono spazi su cui lavorare. Nel mondo “as usual” si riscontrano elementi di efficienza nel manutenere e valorizzare gli intangibili, anche se poi devono rimanere comunque funzionali alla mission primaria dell'organizzazione (se lo scopo di un’impresa è vendere smartphone, la prova del nove che tutto il processo è servito sarà la vendita degli smartphone, altrimenti l’impresa chiude), mentre le ricadute indirette sono meno centrali (l’eventualità che poi questi utenti-compratori-di-smartphone siano anche dei buoni cittadini, felici e capaci di capire la complessità della società e non solo la complessità di uno smartphone non è contemplata). Il terzo settore viceversa è molto attento all’impatto pubblico, mentre potrebbe essere meno efficiente nel calare gli intangibili nella propria organizzazione; non è infrequente incontrare organizzazioni che hanno un'altissima e dichiarata sensibilità al “impatto pubblico generato”, mentre poi tralasciano l'accompagnamento ad una reale partecipazione dei propri soci.

Per riassumere in poche righe alcuni punti che hai toccato, potremmo dire che siete stati dei pionieri di una sorta di “terza via del consulting”; non siete né i consulenti della porta accanto o a sostegno di una consulenza autoprodotta nei dintorni delle organizzazioni, né la grande società di consulenza corporate della consulting industry. Percorsi i primi dieci anni, come vedi la via da percorrere? Non mi riferisco solo al futuro di LAMA, ma più in generale alla crescita di un nuovo modello consulenziale che risponda anche a particolari categorie di organizzazioni, come le imprese sociali e gli enti di terzo settore.

Concordo sulla visione della terza via. Da un po’ di tempo come LAMA abbiamo consolidato un auto-rappresentarci come una società di “change and innovation management”; non ci presentiamo più come una consulting ma ci focalizziamo sul fatto che cambiamento e innovazione sono i due cardini rispetto ai quali operiamo.

Una sfida su cui ci stiamo interrogando – per ora senza una risposta precisa – è capire se questo modello-piattaforma possa essere ancora più aperto e ampio di quanto lo sia stato sinora. LAMA è una piattaforma per i suoi soci, però in definitiva sono solo 14 persone. Il passo successivo è stato Impact Hub Firenze, che conta oggi 250 membri. Ci sono poi le altre società partecipate, i nostri clienti e partner. La questione è: se come piattaforma vogliamo attrarre le migliori competenze di cambiamento e innovazione e allo stesso tempo permettere a chi ce le domanda di incontrarle, cosa possiamo inventarci per andare oltre l’esperienza di piccola impresa per come siamo stati sinora? A cosa possiamo pensare affinché questa non sia solo un’esperienza – seppur ben fatta – partita da tre persone, ma possa scalare di dimensione e in termini di impatto?

Non abbiamo ancora una risposta. Da una parte si pone sicuramente un tema di strumentazione. Vale anche per noi quello che dicevo in precedenza; esistono sia strumenti interni di digitalizzazione che strumenti esterni di aggregazione che dovremmo sfruttare, sui quali stiamo facendo i primi pensieri.

D’altra parte c’è una dimensione di commistione o, passatemi il termine, di compromissione di un’esperienza per lo più auto-creata con altri sistemi. Non nego che mi piacerebbe immaginare di riuscire ad aggregare, condividere, fondere la piattaforma con altre realtà per ampliare lo spettro. Se c'è una cosa che ci insegna la teoria dei sistemi è che i sistemi più stabili non solo riescono ad adattarsi, ma hanno la capacità di inglobare ciclicamente nuovi sottosistemi; e una volta fatto, ciò consente di “compromettere” il sistema originale nel suo allargamento.

Siamo partiti da un meccanismo di consulenza per cui io, a uno a uno, vado dai miei clienti, offro un servizio, produco orientamenti, visioni, rapporti e un po' chirurgicamente poi me ne vado e la cosa finisce lì. Poi ci siamo evoluti, ad esempio introducendo anche la figura di un temporary manager, ossia accanto ai servizi di consulenza più pura abbiamo iniziato a proporre periodi di co-gestione temporanea dei nuovi progetti entrando di fatto nell’organizzazione, cosa che prima non avevamo fatto. E’ comunque poco rispetto a quello che ci piacerebbe fare. La sfida è alimentare la piattaforma attraverso la capacità di attrarre sia le competenze migliori (chi sta cercando lavoro e sceglie noi invece di andare in una realtà di consulting tradizionale, anche se a mio avviso non si tratta solo di un tema di risorse umane) che per imprenditori – cooperativi o meno – che vogliono “abitare” l’ecosistema di LAMA.

In definitiva stiamo affrontando un ragionamento di come “aggiornare il nostro software”. E’ una riflessione che stiamo elaborando da un po’ meno di un anno, in occasione del nostro compleanno appunto! Vi aggiorneremo presto sugli sviluppi futuri.

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