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ISSN 2282-1694
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Saggi brevi

Quanto sono plurali le imprese sociali?

Luigi Corvo, Lavinia Pastore, Andrea Sonaglioni

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Numero 9 / 2017

Saggi brevi

Quanto sono plurali le imprese sociali?

Luigi Corvo, Lavinia Pastore, Andrea Sonaglioni

Abstract

Il ‘900 è stato il secolo delle dicotomie, la principale delle quali, in campo socio-economico, ha riguardato la relazione fra Stato e Mercato, indicativa di un quadro geopolitico fortemente connotato: da un lato i Paesi occidentali a forte prevalenza di Mercato, dall’altra lo Stato (paesi dell'est), con l’Europa alla ricerca di una terza via di equilibrio che si è concretizzata nell’introduzione di logiche di welfare state per la redistribuzione del valore e il bilanciamento delle dinamiche sociali. Un equilibrio che si fonda su una complessa rete di relazioni e scambi fra i tre principali attori del sistema socio-economico: lo Stato, le imprese for profit e le organizzazioni della società civile. La crisi del 2007-08 ha generato un forte calo della capacità di profitto (in particolare per le società non finanziarie), creando una spirale negativa che ha contagiato gli altri settori, in particolare ridimensionando la capacità del welfare di redistribuire valore attraverso politiche e servizi pubblici, a fronte anche di una crescente domanda di assistenza, tutela e servizi sociali.

Questo scenario sembra riproporre domande di ricerca già indagate da autori quali Weisbrod (1972), che tentò di teorizzare le ragioni della nascita e dello sviluppo del settore non profit in un’economia capitalista. Allo stesso tempo Salomon e Anheier (1998) concettualizzarono sei teorie per spiegare lo sviluppo del settore in relazione a specifiche dinamiche socio-economiche. Nel dibattito si inserisce anche Mintzberg (2015) che introduce il concetto di settore plurale, definendolo come quell’insieme di organizzazioni che, non essendo possedute o controllate né dallo Stato né da investitori privati, agiscono per il ribilanciamento della società. Estendendo la sua teoria, si potrebbe affermare che la missione sociale di queste organizzazioni si sostanzia con il raggiungimento di impatti sociali ed ambientali, e ha come effetto aggregato quello di creare condizioni di ribilanciamento delle disuguaglianze e quindi, ritornando a quanto introdotto da Weisbrod, di colmare quelle aree di insoddisfazione sorte per via dell’incapacità del settore pubblico e del settore for profit di far fronte a tutte le esigenze sociali.

Questo saggio ha l’obiettivo di verificare empiricamente il comportamento e le performance delle organizzazioni plurali, sperimentando la proposta concettuale di Mintzberg nell’ecosistema di imprese sociali e di organizzazioni non profit italiane. Per identificare la loro propensione ad agire come organizzazioni plurali è stato utilizzato il framework teorico della tripla elica, che rappresenta gli ambiti di collaborazione tra tre attori del sistema socio-economico (Stato, imprese, università).


The 20th century was a century of dichotomies. The main dichotomy in the socio-economic field concerned the relationship between the State and the Market: on the one hand, Western countries expressed a strong prevalence of the Market; on the other, Eastern countries expressed a prevalence of the State; Europe was in the middle, looking for a third path of balance introducing a welfare state logic for the redistribution of value and the balance of social dynamics. This equilibrium is based on a complex network of relationships and exchanges between the three major players in the socio-economic system: Government, for-profit organizations and civil society organizations. The crisis (2007-08) has led to a strong fall in profitability (especially for non-financial organizations), producing a negative contamination for the other sectors, in particular by reducing the welfare capacity of redistributing value through policies and services in the face of growing demand for assistance, protection and social services.

This context seems to repropose research questions already investigated by authors such as Weisbrod (1972), who tried to theorize the reasons for the birth and development of the non-profit sector in a capitalist economy. At the same time Salomon and Anheier (1998) conceptualized six theories to explain the sector's development in relation to specific socio-economic dynamics. Mintzberg (2015) introduces the concept of plural sector, defining it as the amount of organizations that, being neither owned nor controlled by the Government nor by private investors, act to rebalance the society. By extending its theory, it could be argued that the social mission of these organizations is to achieve  social and environmental impacts, and as a combined effect it creates conditions for rebalancing inequalities.

This paper aims to empirically test the behavior and performance of plural organizations by experimenting with Mintzberg's conceptual proposal in the ecosystem of social enterprises and non-profit organizations in Italy. In order to identify their attitude to act as plural organizations, the theoretical framework of the triple helix was used, which represents the areas of collaboration between three actors of the socio-economic system (Government, industry, universities).

Introduzione

Il ‘900 è stato il secolo delle dicotomie. La principale dicotomia in campo socio-economico ha riguardato la relazione fra Stato e Mercato, indicativa di un quadro geopolitico fortemente connotato: da un lato, una parte di pianeta in cui a prevalere è stata la logica di Mercato (ovest); dall’altro, una parte in cui si è a lungo sperimentato un modello in cui lo Stato ha avuto una preponderanza significativa (est); e un continente, l’Europa, alla ricerca di una terza via di equilibrio che ha preso la forma della social-democrazia per ciò che attiene il dibattito politico e si è concretizzato nell’introduzione di logiche di welfare state quale modalità di redistribuzione del valore e di bilanciamento delle dinamiche sociali.

Questo equilibrio si fonda su una complessa rete di relazioni e scambi fra i tre principali attori del sistema socio-economico: lo Stato, le imprese for profit e le organizzazioni della società civile. La capacità di conseguire profitto da parte delle imprese ha rappresentato (e in larga parte ancora rappresenta) il meccanismo di generazione del valore da cui, da un lato lo Stato, mediante la tassazione, recuperava le risorse per attuare politiche redistributive di welfare state, dall’altro la società, attraverso il lavoro, veniva coinvolta nei processi produttivi acquisendo un reddito legato al proprio profilo professionale.

La crisi del 2007-08 ha generato un forte calo della capacità di profitto (in particolare per le società non finanziarie), creando una spirale negativa che ha contagiato altri settori. La quota di valore prelevato dallo Stato con la tassazione si è ridotta, alterando i saldi di finanza pubblica e facendo lievitare i debiti; ciò ha ridimensionato la capacità del welfare di redistribuire valore attraverso politiche e servizi pubblici, e si è scontrato con la crescita della domanda di assistenza, tutela e servizi sociali. Allo stesso tempo si è ridotta la quota di società coinvolta nei processi produttivi delle imprese attraverso il lavoro e ciò ha prodotto un ulteriore riverbero di domanda di ammortizzatori sociali e sussidi di disoccupazione verso lo Stato.

Tale spirale ha spinto l’OECD a pubblicare la raccomandazione “Breaking Out of Policy Silos: Doing More with Less” (OECD, 2010), puntando sul potenziale incremento di efficacia ed efficienza del settore pubblico per ridurre il gap fra domanda e offerta di beni e servizi pubblici. Tale impostazione pare non essere stata sufficiente, e in assenza di risposte efficaci da parte dei governi, si è assistito a diversi tentativi, alcuni molto sperimentali, di auto-produzione e auto-organizzazione da parte dei cittadini, che, attraverso l’istituzione o il rafforzamento delle organizzazioni della società civile hanno tentato di praticare la resilienza e di proporre nuovi modelli di welfare.

Tra elementi teorici e contestuali: il settore plurale in Italia

Lo scenario descritto rimanda ad un classico problema di public choice: di fronte ad una crescente domanda di beni e servizi pubblici, il public decision maker deve scegliere come allocare le risorse pubbliche (sempre più scarse) per massimizzare il beneficio sociale derivante dai beni e servizi pubblici. Nel fare ciò sceglierà quella quantità di beni e servizi che corrisponde alla domanda esercitata dall’elettore mediano, inteso come l’elettore che meglio esprime e sintetizza le preferenze della (maggioranza della) popolazione.

A riguardo Burton Weisbrod (1972) segnalava un problema non da poco: tale decisione lascerà insoddisfatto sia chi esprime una domanda maggiore di beni e servizi pubblici, sia chi manifesta una domanda minore. Tale insoddisfazione è alla base dello sviluppo delle organizzazioni private non orientate al profitto che, in assenza di risposte soddisfacenti da parte del settore pubblico, tenderanno a supplire la mancanza di offerta di beni e servizi attraverso forme di auto-produzione e di resilienza.

Tuttavia, in questo periodo storico, tale fenomeno sembra essere molto più visibile che in passato in quanto l’ampiezza e la profondità della crisi intervenuta a partire dal 2007 non ha eguali nella storia del capitalismo e le difficoltà dei governi nel fornire soluzioni hanno impattato negativamente sui livelli di fiducia dei cittadini verso le istituzioni, in particolare nei paesi con un più elevato livello di debito pubblico (Figura 1).

Figura 1. Il ruolo del debito pubblico e la fiducia nei governi | Fonte (OECD, 2013)

L’Italia è il paese con il terzo debito pubblico più alto del mondo e su cui la forbice fra la domanda di beni e servizi da parte dei cittadini (in special modo quelli colpiti dagli effetti della crisi) e la capacità di offerta da parte del settore pubblico ha prodotto un’area di insoddisfazione consistente, osservabile attraverso la riduzione delle possibilità di partecipazione ai processi produttivi (tasso di disoccupazione, aumento dei neet ecc.) e la caduta della fiducia dei cittadini verso le istituzioni (indice di fiducia, tasso di partecipazione alle elezioni ecc.). Si è quindi compreso come, particolarmente in periodi di forte crisi e in special modo per i paesi ad alto debito pubblico (fra cui l’Italia), l’area di insoddisfazione per la mancanza di risposte dello Stato e del mercato for profit alla domanda di beni e servizi di (crescenti) quote di cittadini, apre lo spazio per la nascita e lo sviluppo di organizzazioni private non orientate al profitto che tentano di dare risposta a bisogni sociali inevasi.

Le sei teorie di Salamon e il dibattito sulla semantica del settore non profit

Per comprendere il fenomeno descritto occorre ripercorrere le principali teorie che spiegano lo sviluppo di tali organizzazioni; in particolare, proponiamo l’approccio di Salamon e Anheier (1998), che consente di comparare in senso longitudinale l’evoluzione di queste organizzazioni nel tempo (in Italia, ad esempio, le organizzazioni non profit nel 1990 comprendevano il 2,9% di lavoratori retribuiti e volontari e i settori prevalenti erano servizi sociali e istruzione). I due autori si concentrano su sei teorie principali:

  • teoria dell’eterogeneità: una domanda insoddisfatta di beni pubblici o quasi-pubblici in situazioni di eterogeneità della domanda porta alla nascita di organizzazioni non profit;
  • teoria dell’offerta: le organizzazioni non profit, create da imprenditori che mirano alla massimizzazione di ritorni non monetari, costituiscono un riflesso dell’eterogeneità della domanda;
  • teoria della fiducia: in condizioni di asimmetrie informative, tali da rendere costoso il monitoraggio e da condurre al sospetto di profitto, il vincolo alla non distribuzione del profitto rende le organizzazioni non profit più meritevoli di fiducia;
  • teoria del welfare state: il processo di industrializzazione conduce al moderno sistema di welfare che spiazza le organizzazioni private non profit;
  • teoria dell’interdipendenza: a causa dei minori costi di transazione (in una fase iniziale), le organizzazioni non profit anticipano il governo nella fornitura di beni di pubblica utilità, ma, per via dei “fallimenti” del volontariato, si instaurano nel tempo relazioni sinergiche con il settore pubblico;
  • teoria delle origini sociali: le dimensioni e la struttura del settore non profit sono un riflesso delle caratteristiche del complesso sistema di relazioni, classi e regimi sociali in cui è coinvolto.

Queste teorie sono rilevanti nell’economia di questo saggio in quanto consentono di rappresentare l’intero spettro di possibilità interpretative dell’evoluzione del settore non profit italiano. In particolare, la teoria del welfare state appare particolarmente significativa in quanto consente di verificare l’ipotesi avanzata da Weisbrod circa la nascita e lo sviluppo di queste organizzazioni (presenze di aree di insoddisfazione non coperte da offerta di beni e servizi pubblici). In sintesi, a causa della crisi e della conseguente decrescita degli investimenti e della spesa pubblica in servizi sociali, si osserva una crescita del settore non profit. Nel contesto italiano, come verrà precisato in seguito, l’evoluzione del settore negli ultimi vent’anni pare confermare questa teoria.

Tuttavia in Italia il settore è caratterizzato da specificità che hanno portato ad un differente significato della terminologia utilizzata per delineare l’ampiezza del comparto e descrivere le caratteristiche principali delle organizzazioni che ne fanno parte.

Più in generale, come osservato in un recente lavoro di ricerca di Salamon e Sokolowski (2016), mentre nei paesi anglosassoni il concetto di settore non profit è legato all’evoluzione delle charities, al coinvolgimento dei volontari e al vincolo di non distribuzione dei profitti, nei paesi dell’Europa continentale e in alcuni paesi del Sud Europa, fra cui l’Italia, la terminologia settore non profit viene spesso accompagnata da terzo settore ed economia sociale, intendendo una concezione più ampia, che riguarda anche il mondo delle cooperative (in particolare quelle sociali), delle mutue e di altre organizzazioni che offrono beni e servizi anche al mercato.

Il lavoro di Salamon e Sokolowski identifica alcune caratteristiche fondamentali delle organizzazioni di terzo settore. In particolare: sono “organizzazioni”, sia formali che informali; di natura privata; autonome; spontanee; limitate, totalmente o significativamente, nelle possibilità di distribuzione ad investitori, soci o altri stakeholder di ogni tipologia di surplus generato.

Rispetto a queste caratteristiche, molto si è discusso in letteratura circa la loro appropriatezza e la capacità delle stesse di rappresentare una costellazione di organizzazioni così differenziate fra diversi contesti territoriali e diversamente legiferate nei vari paesi. Tuttavia, una delle critiche più profonde riguarda il vincolo totale o parziale alla distribuzione dei profitti quale elemento connotativo delle organizzazioni di terzo settore. Tale vincolo, come evidenziato da Marthe Nyssens e Jacques Defourny (2016), rischia di porre le non profit institution “pure” al centro della costellazione del terzo settore e di relegare altre organizzazioni dell’economia sociale (cooperative sociali, imprese sociali ecc.) ai margini. Gli autori, in risposta al paper di Salamon e Sokolowski, propongono di adottare un approccio integrativo, ponendo due centri di gravità nella costellazione: le organizzazioni non profit e le organizzazioni dell’economia sociale.

Il passaggio dall’approccio modulare, proposto da Salamon e Sokolowski, a quello integrativo, proposto da Nyssens e Defourny, lasciano intravedere la possibilità di estendere tale framework a molteplici forme organizzative che si muovono entro questo ambito (ad esempio i movimenti sociali, gli ordini religiosi, le organizzazioni informali che operano in diversi campi come lo sport, la cultura, etc.). Da questa lettura prende spunto Henry Mintzberg (2015), che introduce il concetto di settore plurale, definito come quell’insieme di organizzazioni che, non essendo possedute o controllate né dallo Stato né da investitori privati, agiscono per il ribilanciamento della società. Nel pervenire alla definizione di settore plurale Mintzberg passa in rassegna le terminologie più utilizzate, fra cui quelle identificate dagli autori citati, e descrive come nessuna di esse sembri centrare l’essenza che identifica tali forme organizzative. Il termine plural, invece, convince maggiormente l’autore: “I propose the word plural because of the variety of associations in this sector as well as the plurality of their membership and ownership. Not incidental is that the word starts with a p: when I have introduced it in discussion groups, plural has entered the conversations naturally alongside public and private” (Mintzberg, 2015).

Come ulteriore notazione, in questo saggio ci riferiremo al termine impresa sociale intendendo non la forma giuridica (introdotta dal d.lgs. 155/2006), bensì il modello imprenditoriale, organizzativo e di governance che assume come obiettivo quello di massimizzare l’impatto sociale generato dai propri processi sotto un vincolo di sostenibilità economica.

Aldilà della questione terminologica, che ha la sua significatività per cogliere l’oggetto del presente lavoro, è interessante notare il legame che Mintzberg stabilisce fra queste organizzazioni e la necessità di ribilanciare la società. Estendendo la sua teoria, dunque, potremmo dire che la missione sociale di queste organizzazioni, che si sostanzia con il raggiungimento di impatti sociali ed ambientali, ha come effetto aggregato quello di creare condizioni di ribilanciamento delle disuguaglianze e quindi, ritornando a quanto introdotto da Weisbrod, di colmare quelle aree di insoddisfazione sorte per via dell’incapacità del settore pubblico e del for profit di far fronte a tutte le esigenze sociali.

Possiamo quindi introdurre due elementi aggiuntivi rispetto a quelli finora esposti, uno legato ad una lettura di taglio economico, l’altra di tipo manageriale. Da un punto di vista economico, possiamo caratterizzare le organizzazioni plurali come quelle organizzazioni tese alla massimizzazione dell’impatto sociale sotto un vincolo di sostenibilità economica. Tale approccio porta a considerare il vincolo della non (o parziale) distribuzione del profitto come conseguenza della tensione dell’organizzazione ad utilizzare tutte le sue risorse, incluso il valore aggiunto generato, per la creazione di effetti sociali positivi e, in ultima istanza, finalizzati a ribilanciare la società. Tale vincolo, dunque, da elemento costitutivo ex ante, diviene conseguenza della mission sociale ex post. Da un punto di vista manageriale ciò ha delle significative implicazioni in termini di pensiero strategico e di conseguente implementazione. Per massimizzare l’impatto sociale, infatti, oltre ad un considerevole cambiamento di metriche assunte per la misurazione e valutazione delle performance organizzative, vi è un differente approccio alle strategie di relazione con l’ambiente esterno, muovendo da strategie competitive a strategie collaborative con quelle organizzazioni che, per diversi motivi, possono contribuire a migliorare la capacità d’impatto dell’organizzazione.

Il modello collaborativo della tripla elica

Un framework interpretativo rilevante, ampiamente rivalutato ed utilizzato negli ultimi anni, è il modello della tripla elica (Etzkowitz, Leydesdorff, 2000). Tale approccio è stato inizialmente adottato per l’analisi delle dinamiche esistenti fra gli attori chiave (governo, imprese e università) nei processi di innovazione e di trasferimento della conoscenza ed oggi è sempre più utilizzato come riferimento analitico per lo studio dei processi di innovazione sociale, in particolare per ciò che riguarda la previsione di una quarta elica costituita da “società fondata su cultura e informazione” o “società civile” (Carayannis, Campbell, 2009).

In condizioni di collaborazione fra le tre principali eliche, quindi, i modelli di produzione e di trasferimento della conoscenza hanno la capacità di generare format innovativi e più efficienti in grado di trasformarsi non solo in nuovi modelli sociali, ma anche in dispositivi istituzionali che portano alla creazione di un ecosistema d’innovazione (Figura 2).

Figura 2. Una configurazione del modello della tripla elica, con sovrapposizioni negative e positive fra gli attori chiave | Fonte (Leydesdorff, 2015)

Per questo motivo sposteremo l’analisi dalle relazioni bilateriali fra gli attori chiave (pubblica amministrazione e impresa sociale) alle interazioni di ecosistema, indagando la natura e l’evoluzione di queste organizzazioni attraverso la qualità e la varietà di relazioni collaborative che esse instaurano con gli attori della tripla elica.

Le domande di ricerca

Definiamo dunque come organizzazioni plurali quelle organizzazioni con una maggiore propensione ad instaurare relazioni collaborative con i tre attori delle tripla elica. Le nostre domande di ricerca sono le seguenti.

Quanto è diffusa la propensione delle imprese sociali a stabilire relazioni collaborative rispetto al framework proposto dalla tripla elica?

C’è una relazione positiva fra l’intensità delle relazioni collaborative e le key performance areas delle imprese sociali nel contesto italiano?

Le aree chiave di performance, rifacendosi al dibattito in letteratura, possono essere rappresentate come segue.

Composizione dei ricavi: intesa come variabile che spiega la dimensione qualitativa della sostenibilità economica delle imprese sociali, ritenendo che una minore dipendenza da risorse pubbliche, alla luce dei trend di restrizione dei saldi di finanza pubblica, sia indice di migliori prospettive di sostenibilità economica.

  • Ipotesi 1: al crescere della propensione alla plural organization la composizione dei ricavi diviene più equilibrata fra ricavi derivanti dalla pubblica amministrazione, ricavi derivanti dalle imprese e altri ricavi (fundraising e altro).

Qualità delle relazioni con gli altri attori (collaborative vs contrattuale): intesa come variabile che spiega la differenza fra relazioni formali o di natura “meramente” contrattuale (in cui le imprese sociali svolgono un compito specifico nella supply chain) e relazioni collaborative, intese come attività di co-progettazione e co-produzione in cui le imprese sociali sono coinvolte lungo tutto il ciclo di vita del progetto (ideazione, progettazione, produzione, valutazione).

  • Ipotesi 2: al crescere della propensione alla plural organization, la tendenza a stabilire relazioni di tipo collaborativo tende a crescere.

Livello di accountability: intesa come variabile che spiega la propensione a comunicare agli stakeholder la capacità dell’organizzazione di generare impatti sociali ed ambientali, e, in ultima analisi, la capacità di ribilanciare la società.

  • Ipotesi 3: al crescere della propensione alla plural organization, la tendenza ad essere accountable cresce.

Propensione all’innovazione: intesa come variabile che spiega la continua tensione dell’organizzazione a migliorare le modalità di progettazione e produzione delle proprie performance e, quindi, dei propri impatti (intesi, in ultima analisi, come capacità di ribilanciare la società).

  • Ipotesi 4: al crescere della propensione alla plural organization, la tendenza a favorire processi di innovazione cresce.

Metodi di ricerca

I dati dell’ultimo Censimento Istat dell’Industria e dei Servizi del 2011 (Istat, 2013) forniscono importanti evidenze circa l’evoluzione del settore non profit in Italia e consentono di confrontare l’andamento del settore con l’evoluzione del settore pubblico.

Le organizzazioni non profit (ONP) (definite dall’Istat INP, Istituzioni Non Profit) risultano essere 301.191, il numero di addetti retribuiti è di 680.811 e il numero di volontari è di 4.758.622. Come evidenziato nelle Tabelle 1 e 2, comparando i dati riferiti al 2011 con quelli del 2001 si è assistito ad una rilevante crescita del numero di organizzazioni attive (+28%), numero di addetti retribuiti (+39%) e numero di volontari (+43,5%). Allo stesso tempo, nei dieci anni considerati, il settore pubblico ha ridotto sia il numero di istituzioni attive, che il numero di lavoratori, oltre che il numero di volontari, fenomeno che dimostra in modo chiaro l’effetto della crisi sulla finanza pubblica e il conseguente ridimensionamento del pubblico impiego e, più in generale, delle risorse disponibili nel settore pubblico.

Un ulteriore elemento di interesse è rappresentato dalle dimensioni delle ONP italiane: solo il 5,5% di esse, infatti, ha più di 5 addetti retribuiti e in questo 5,5% è concentrato l’83,6% del totale degli addetti retribuiti del settore.

Tabella 1. Evoluzione delle entrate del terzo settore e peso sul PIL in Italia | Anni: 1991-2001-2011 | Fonte: Censimento Istat 1991, 2001 e 2011

Tabella 2. Confronto per addetti e organizzazioni attive fra terzo settore (NP) e settore pubblico (PA) | Anni: 2001-2011 | Fonte: Censimento Istat 2001, 2011

Per rispondere alle nostre domande di ricerca, tenuto conto dello scenario restituito dal Censimento Istat, è stato redatto un questionario qualitativo che abbiamo somministrato, nel corso del 2013, ai top manager delle ONP italiane. Sulla base dei dati sugli addetti (83,6% del totale degli addetti nel 5,5% di ONP con più di 5 addetti), abbiamo deciso di escludere le ONP con meno di 6 addetti dal nostro campione e di rivolgerci a quelle ONP, in questo caso imprese sociali, che operano nei seguenti settori: ambiente, servizi sociali, cultura, filantropia, educazione e ricerca, sanità, coesione sociale. Abbiamo ricevuto 612 risposte, un numero che consente di contenere l’errore campionario intorno al 4%. La Tabella 3 riassume le caratteristiche del campione.

Tabella 3. La rappresentatività del campione

Per poter rispondere alla prima domanda di ricerca abbiamo proposto un item per indagare le relazioni delle imprese sociali con i diversi attori della tripla elica (governo, imprese e università). A questa domanda poteva essere fornita più di una risposta, in modo da valutare se le relazioni instaurate fossero bilaterali, multilaterali o sistemiche (coerentemente con l’approccio della tripla elica).

Come sottolineato da Leydesdorff (2015), mentre nelle relazioni classiche Stato-Mercato sono prevalenti due tipi di sistemi di interazione – quelli relativi alle dinamiche di equilibrium-seeking e quelli che si riferiscono ai meccanismi normativi di controllo delle interazioni pubblico-privato – nell’analizzare le relazioni sottese ad un’economia knowledge-based occorre considerare una terza forma di interazione: quella riferita alle dinamiche di ricerca continua di nuovi equilibri offerti dalla generazione sociale di conoscenza. Tale prospettiva offre l’opportunità di concepire il modello della tripla elica non solo come framework per analizzare i processi e le dinamiche del trasferimento di conoscenza dalla ricerca di base alla società civile, ma esso diviene anche un utile strumento epistemologico per comprendere come l’innovazione si manifesta in un sistema socio-economico contemporaneo nel quale agiscono diversi stakeholder.

Risultati

I primi risultati (in risposta alla prima domanda di ricerca) mostrano la diffusione delle pratiche collaborative fra le imprese sociali osservate, fornendo evidenza del numero di attori con cui avviene l’interazione. Le possibili configurazioni collaborative sono:

  • singola elica (il gruppo di imprese sociali interagisce con uno solo dei tre attori della tripla elica);
  • doppia elica (il gruppo di imprese sociali interagisce con due dei tre attori della tripla elica);
  • tripla elica (il gruppo di imprese sociali interagisce con tutti e tre gli attori della tripla elica).

Figura 3. Livello di diffusione di singola, doppia e tripla elica nelle imprese sociali italiane

Come mostrato in Figura 3, l’approccio più diffuso è quello della singola elica, con il 40% del campione che dichiara di avere relazioni con un singolo attore. Il 35% delle imprese sociali intervistate ha dichiarato di stabilire relazioni con due attori, e il 26% ha dichiarato di stabilire relazioni collaborative con i tre attori della tripla elica. Una quota residuale, pari all’8% del campione (44 imprese) dichiara di non avere alcun tipo di relazione con gli stakeholder della tripla elica. Andando ad approfondire la composizione delle relazioni si osserva che (Tabella 4):

  • le imprese sociali che operano in relazioni da doppia elica escludono le relazioni con la pubblica amministrazione solo nel 3% dei casi, indicando quindi la centralità del rapporto con il settore pubblico
    •  
  • le imprese sociali che operano in relazioni da singola elica hanno come unico interlocutore la pubblica amministrazione nell’89% dei casi.

Tabella 4. Dettaglio dell’orientamento collaborativo delle imprese sociali da doppia e singola elica

La risposta alla prima domanda di ricerca, oltre fornire un framework circa la propensione all’orientamento collaborativo, ha consentito di suddividere il campione in tre cluster e di riferire ad essi le risposte fornite agli item relativi alla seconda domanda di ricerca (in modo da poter verificare le ipotesi formulate sopra):

  • cluster 1: gruppo di imprese sociali che adottano la tripla elica;
  • cluster 2: gruppo di imprese sociali che hanno relazioni con 2 attori;
  • cluster 3: gruppo di imprese sociali che hanno relazioni con 1 attore.

La prima ipotesi è confermata; infatti, come mostrato dalla Figura 4, la composizione dei ricavi appare più equilibrata per il cluster di imprese sociali che operano nella tripla elica.

Occorre premettere che il campione è bilanciato rispetto al rapporto fra ampiezza dei cluster e quota di ricavi che ciascun cluster realizza rispetto al totale del campione: il cluster 1, che rappresenta il 26% delle imprese sociali del campione, ha una quota di ricavi pari al 29% del totale del campione; il cluster 2, che rappresenta il 35% delle imprese del campione, ha una quota di ricavi pari al 37% del totale del campione: il cluster 3, che rappresenta il 40% del campione, ha una quota di ricavi pari al 35% del campione.

Figura 4. Struttura dei ricavi dei tre cluster

Considerando tre fonti di ricavo (derivanti da pubblica amministrazione, imprese e fundraising), le imprese sociali che hanno relazioni collaborative con i tre attori hanno la minore quota di ricavi derivanti dalla pubblica amministrazione rispetto agli altri due cluster. Ciò è particolarmente significativo, in quanto, in un periodo storico di forte stress dei saldi di finanza pubblica, la diversificazione dei ricavi consente di essere più resilienti nel rispondere a probabili riduzioni di ricavi derivanti dalla PA.

È altrettanto interessante notare come il cluster 2 (doppia elica) mostri una composizione dei ricavi, sebbene meno equilibrata del cluster 1 (tripla elica), preferibile rispetto al cluster 3 (singola elica). Ciò rafforza l’ipotesi secondo cui al crescere della propensione collaborativa, e quindi al crescere della propensione alla plural organization, migliora la composizione dei ricavi.

Figura 5. Relazioni collaborative vs adempitive rispetto ai tre cluster

Con la Figura 5 vengono mostrati i risultati relativi all’ipotesi 2, secondo cui al crescere della tendenza alla plural organization, la propensione a stabilire relazioni collaborative (rispetto a relazioni adempitive) cresce.

Per relazioni collaborative intendiamo:

  • Co-produzione: intesa come attività che coinvolge le imprese sociali in tutto il ciclo di definizione, gestione ed erogazione del servizio e può essere intesa sul livello micro (un servizio o un progetto), meso (un programma di più servizi/progetti) e macro (una politica che contempla uno o più programmi). In tale senso quindi, nei processi di co-produzione sono incluse le attività di co-progettazione e co-gestione (Brandsen, 2004), indicando quindi un coinvolgimento circolare e non solo un ingaggio delle imprese sociali come fornitori di beni e servizi nel classico senso dell’esternalizzazione.
  • Consultazione: intesa come attività di ascolto e coinvolgimento delle imprese sociali nei processi preparatori alla costruzione delle politiche o dei programmi da cui scaturisce il design dei servizi e dei progetti.

Per relazioni adempitive intendiamo:

  • Esternalizzazione: intesa come attività che viene delegata alle imprese sociali (generalmente dalla pubblica amministrazione, ma non solo) in una logica top-down. In questo caso le imprese sociali, dunque, non hanno né le capacità né il potere per incidere sulla definizione degli interventi per cui sono ingaggiate e si limiteranno ad erogare prestazioni in cambio di un riconoscimento monetario. Generalmente ciò avviene attraverso l’indizione di una gara o di un bando ad evidenza pubblica a cui le imprese sociali partecipano, per poi rispettarne le previsioni contenute nel testo e, quindi, adempiendo alle indicazione preimpostate dall’organizzazione che esternalizza. Tale tipologia di relazione è stata fortemente utilizzata grazie alla diffusione del paradigma del new public management e rischia di condurre le imprese sociali ad una condizione di dipendenza dalle commesse esternalizzate ed a limitare il proprio approccio collaborativo.
  • Advocacy: intesa come attività di aggregazione ed intermediazione di soggetti portatori di specifiche istanze e diritti. Svolgendo questa attività le imprese sociali divengono organizzazioni che esercitano una pressione per la promozione di specifici interessi, rischiando di smarrire la capacità di costruire soluzioni d’impatto sociale per i bisogni sociali più vasti.

I risultati mostrano che le imprese sociali che hanno la tendenza ad operare con i tre soggetti della tripla elica hanno una maggiore propensione a stabilire relazioni collaborative, mentre quelle che interagiscono con un singolo attore (anche considerando che questo attore è quasi sempre la pubblica amministrazione) sono più probabilmente ingaggiabili in relazioni adempitive. Ciò ci porta a confermare l’ipotesi 2.

Passando all’ipotesi 3, possiamo osservare (Figura 6) come le imprese sociali del cluster 1 abbiano una maggiore tendenza a rendicontare i risultati ai propri stakeholder. Per esprimere il livello di accountability abbiamo chiesto alle imprese se pubblicano documenti di rendicontazione sociale (Bilancio Sociale, Bilancio Ambientale, Bilancio di Genere) e se conducono rilevazioni sistematiche di soddisfazione degli utenti. Abbiamo quindi costruito un indice fra 0 e 1 e possiamo constatare che, al crescere della propensione ad essere plurali (ad interagire con più attori), cresce la tendenza ad essere accountable. Ciò conferma l’ipotesi 3.

Figura 6. Indice di accountability per i tre cluster

In ultimo, abbiamo verificato l’ipotesi 4, analizzando la relazione fra i cluster e la propensione a generare innovazione (Figura 7). Considerando la forte correlazione fra il framework teorico della tripla elica e i processi di innovazione, tale analisi appare particolarmente rilevante in quanto consente di verificare se è confermata la teoria secondo cui gli ecosistemi innovativi nascono e si evolvono con maggiore probabilità in presenza di relazioni collaborative che interessano i tre attori fondamentali dei contesti socio-economici tipici delle economie fondate sulla conoscenza. I risultati mostrano che le imprese sociali del cluster 1 hanno una propensione all’innovazione significativamente più alta rispetto agli altri cluster, e che il cluster 2 ha risultati migliori del cluster 3. Ciò conferma l’ipotesi 4.

Figura 7. Indice di innovazione per i tre gruppi

Conclusioni

I risultati di questa ricerca forniscono lo spunto per una serie di riflessioni circa il ruolo e la funzione che le imprese sociali possono svolgere in questo periodo storico. Come anticipato, l’equilibrio individuato nel ‘900 fra i tre attori del sistema socio-economico ha acquisito come elemento centrale il profitto generato dalle imprese e, di conseguenza, la capacità del settore pubblico di provvedere a rimediare agli scompensi (o esternalità) attraverso la tassazione e le politiche di welfare. La caduta della capacità di profitto, manifestatasi con la crisi degli anni 2007-08, ha messo sotto forte stress la finanza pubblica proprio nel momento in cui la società domandava (e domanda) maggiori e migliori servizi pubblici e, più in generale, una capacità di soluzione dei bisogni da parte delle politiche di welfare.

Figura 8. Quota di profitto delle società non finanziarie e tassi di variazione congiunturale | Anni: 2009-2015 | Fonte (Istat, 2015)

L’impresa sociale, dunque, si inserisce in un contesto particolarmente complesso e si trova nel mezzo del gap fra la crescita di domanda di servizi sociali e la riduzione di possibilità finanziarie della pubblica amministrazione. Tale condizione, accentuata dalle trasformazioni prodotte dall’innovazione tecnologica e da nuovi paradigmi socio-economici, ha fatto emergere il tema dell’ibridazione fra modelli di business, organizzativi e approcci imprenditivi. Impresa sociale, dunque, quale possibile sintesi fra le esigenze di sostenibilità economica di chi opera nel mercato e l’urgenza di offrire soluzioni (prodotti, servizi, e non solo) in grado di rispondere ai bisogni sociali in modo duraturo, fino a portare alla fuoriuscita dal bisogno.

La manifestazione di tale capacità, che definiamo impatto sociale, diviene quindi il tema centrale su cui ripensare il ruolo e la funzione dell’impresa sociale. Per tale ragione abbiamo proposto l’identificazione dell’impresa sociale come quell’organizzazione che tende alla massimizzazione dell’impatto sociale sotto il vincolo di sostenibilità economica.

Il contributo fornito da Henry Mintzberg (2015) offre una chiave di lettura interessante per cogliere la traiettoria dell’impatto in chiave sistemica, intendendo l’impatto sociale come il contributo che un’organizzazione è in grado di fornire al ribilanciamento della società. Mintzberg sostiene inoltre che tali organizzazioni appartengono al settore plurale, ovvero un settore che opera in collaborazione con i due attori chiave (Stato e imprese) e facilita l’aggregazione della cittadinanza nelle relazioni con essi. Il ribilanciamento, dunque, è da intendersi sia in chiave economica (disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza), che in chiave democratica (accesso alle relazioni con gli attori che muovono le principali decisioni circa lo sviluppo di un contesto sociale).

Il modello che meglio interpreta tale vocazione collaborativa è quello della tripla elica: le organizzazioni in grado di operare con i tre attori dell’elica (Stato, imprese e università) sono più verosimilmente le organizzazioni che meglio interpretano il ruolo di organizzazioni plurali.

Per tale ragione, i risultati della presente ricerca forniscono delle indicazioni particolarmente interessanti: in tutti i casi esplorati emerge che le imprese sociali che collaborano con i tre attori della tripla elica sono quelle maggiormente in grado di affrontare la sfida della generazione di impatto sotto il vincolo di sostenibilità economica. Nello specifico, le imprese sociali con orientamento collaborativo mostrano di avere una struttura dei ricavi più equilibrata rispetto alle tre fonti principali (ricavi da pubblica amministrazione, imprese e fundraising), con una minore dipendenza dalla PA e ciò, considerando i già citati vincoli della finanza pubblica, le pone in condizioni di migliore sostenibilità economica.

Allo stesso tempo esse tendono ad avere un orientamento maggiore all’accountability e ciò diviene determinante per i processi di rendicontazione degli impatti generati e del livello di soddisfacimento dei bisogni degli stakeholder. Considerando, inoltre, che tali organizzazioni prediligono relazioni collaborative (a dispetto di relazioni definite “adempitive”, o di compliance), risulta ancora più rilevante il tratto di organizzazioni plurali, capaci cioè di influenzare l’intero processo di costruzione degli interventi attraverso attività di co-produzione e non più di mero adempimento in esternalizzazione.

In ultimo, queste stesse imprese sociali mostrano una innovation readiness maggiore delle altre; ciò conferma la teoria alla base del modello della tripla elica, secondo cui gli ecosistemi collaborativi aprono a prospettive di sviluppo in cui la dimensione economica e quella sociale trovano una sintesi nel concetto di sostenibilità e i modelli di business godono dell’ibridazione fra orientamenti differenziati ma convergenti nella prospettiva del valore condiviso come portato del valore pubblico – inteso come estensione degli outcome delle politiche e dei programmi della PA –, del valore aggiunto di natura economica – inteso come maggior valore che l’impresa è in grado di creare con l’attivazione dei processi produttivi – e del valore sociale quale elemento di capitalizzazione degli impatti sociali generati nella logica del ribilanciamento della società.

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