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ISSN 2282-1694
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Numero 9 / 2017

Policy

La nuova disciplina dell’impresa sociale. Una prima lettura sistematica

Antonio Fici

Abstract

Nell’ambito della generale riforma del Terzo settore, il nuovo decreto sull’impresa sociale si pone l’obiettivo di risolvere le insufficienze e lacune della precedente normativa, al fine di rilanciare l’impresa sociale quale modello organizzativo del Terzo settore imprenditoriale. L’articolo offre una prima lettura globale e sistematica della nuova disciplina dell’impresa sociale, focalizzando l’attenzione sulle norme incentivanti la costituzione e lo sviluppo delle imprese sociali, nonché sugli effetti dell’interazione tra decreto sull’impresa sociale e Codice del terzo settore. L’articolo si sofferma infine sulle cooperative sociali, per valutare, in particolare, le possibili conseguenze del loro riconoscimento normativo come imprese sociali “di diritto”.


In the context of the general reform of the Third Sector, the new decree on social enterprise aims at solving the faults and gaps of the previous norm, with the objective of relaunching social enterprise as an organizational model of the Third Sector characterized by an entrepreneurial nature. This paper presents a first global and systematic overview on the new regulations of social enterprise, by focusing the attention on norms enhancing the constitution and the development of social enterprises, and on the effects of the interaction between the decree on social enterprise and the third sector Code. The paper also investigates social cooperatives in order to evaluate especially the possible consequences of their normative acknowledgement as social enterprises "by law".

Generalità

In Italia, l’impresa sociale – già oggetto del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 155, adesso esplicitamente abrogato (dall’art. 19, d.lgs. 112/2017) – è oggi specificamente regolata dal decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 112[1], attuativo della legge delega 6 giugno 2016, n. 106.

In verità, tale decreto non esaurisce la disciplina dell’impresa sociale. All’impresa sociale, infatti, si applicano, se compatibili con le norme di cui al decreto 112/2017, anche le disposizioni del d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117[2], recante il Codice del terzo settore (CTS), nonché, in mancanza e per gli aspetti (che rimangono ancora) non disciplinati, le disposizioni del Codice civile concernenti la forma giuridica in cui l’impresa sociale è costituita (art. 1, comma 5, d.lgs. 112/2017).

Lo stesso CTS, del resto, menziona più volte l’impresa sociale: in primo luogo, al fine di chiarire che essa è, a tutti gli effetti, un ente del Terzo settore (art. 4, comma 1; art. 46, comma 1, lett. d); in secondo luogo, al fine di escludere l’applicabilità all’impresa sociale di alcune sue disposizioni (art. 5, comma 1; art. 11, comma 3; art. 71, comma 2; art. 79, comma 1; art. 82, comma 1) ed in rari casi, invece, al fine di ammetterla (art. 82, comma 4; art. 101, comma 8); infine, allo scopo di operare un collegamento con la sua fonte particolare di disciplina, cioè il d.lgs. 112/2017 (art. 40; art. 93, comma 2).

Nonostante le rilevanti novità introdotte dalla riforma, che costituiscono anche il portato dell’intervenuto inquadramento dell’impresa sociale nel terzo settore e nel suo Codice[3], l’impianto complessivo della disciplina non è stato rivoluzionato[4]. L’impresa sociale, come osserveremo, rimane infatti una qualifica che enti privati costituiti in una qualsiasi forma giuridica possono acquisire e mantenere se di essa presentano e conservano nel tempo i requisiti essenziali. Il legislatore della riforma ha, tuttavia, svolto un’importante opera di chiarificazione e sistemazione della normativa previgente, apportando peraltro innovazioni, di varia natura (non solo fiscale), utili e necessarie al possibile “rilancio” dell’impresa sociale.

In prospettiva comparata, la disciplina italiana dell’impresa sociale rappresenta ancora (anzi oggi forse ancor di più) il modello europeo più avanzato – assieme a quello inglese delle community interest companies – di legislazione sull’impresa sociale, e più precisamente il modello più avanzato di legislazione dell’impresa sociale come particolare qualifica normativa, o status giuridico, accessibile ad enti costituiti in diversa forma giuridica (modello che differisce da quello per cui l’impresa sociale è un particolare sottotipo di ente giuridico, più precisamente di società cooperativa, come nel caso delle cooperative sociali previste in vari ordinamenti giuridici europei a partire da quello italiano, o di società di capitali, come nel caso della CIC inglese) (Fici, 2017).

Nozione e qualifica di impresa sociale

L’impresa sociale è un particolare soggetto del Terzo settore. L’art. 4, comma 1, CTS, include infatti l’impresa sociale in un elenco di enti del Terzo settore “nominati”, che comprende altresì le organizzazioni di volontariato (ODV), le associazioni di promozione sociale (APS), gli enti filantropici, le reti associative e le società di mutuo soccorso[5]. In estrema sintesi, può dirsi che l’impresa sociale è la tipologia organizzativa del Terzo settore specificamente ipotizzata dal legislatore per l’esercizio di attività economica d’impresa, anche se tale esercizio non è in principio precluso agli altri enti del Terzo settore (ETS).

L’art. 1, comma 1, d.lgs. 112/2017, chiarisce che quella di impresa sociale è una “qualifica”, in principio acquisibile da tutti gli enti privati a prescindere dalla forma giuridica di loro costituzione (che deve comunque avvenire per atto pubblico: art. 5, comma 1), inclusa quella societaria. Ne deriva la possibilità di avere associazioni “imprese sociali”, fondazioni “imprese sociali”, società cooperative “imprese sociali”, società per azioni “imprese sociali”, e così via. Ovvero, detto altrimenti, imprese sociali costituite in forma di associazione, di fondazione, di cooperativa, di società per azioni, ecc. Ovviamente, la scelta della forma giuridica dell’impresa sociale dipenderà dalle specifiche esigenze sottostanti alla sua costituzione, essendo ciascuna forma giuridica la sintesi di un diverso modello di governance, e dunque di una diversa combinazione di risorse umane, patrimoniali e non patrimoniali, oltre che di una diversa cultura organizzativa che spesso affonda le sue radici in ragioni d’ordine storico o ideologico[6].

Per alcuni tipi di enti, ad esempio gli enti pubblici (nonché le società con unico socio persona fisica), l’accesso alla qualifica è invece espressamente escluso (art. 1, comma 2, d.lgs. 112/2017)[7], mentre per altri, cioè le cooperative sociali e i loro consorzi, la qualifica si ottiene “di diritto” (art. 1, comma 4, d.lgs. 112/2017)[8].

Come stabilisce l’art. 1, comma 1, d.lgs. 112/2017, la qualifica è riservata agli enti che operano in conformità alle disposizioni del decreto, che cioè osservano e rispettano tutte le regole in esso contenute, da quelle relative all’attività da esercitarsi (art. 2) a quelle relative all’assenza di scopo di lucro (art. 3), a quelle relative alla redazione e deposito del bilancio sociale (art. 9, comma 2) e al coinvolgimento di lavoratori ed utenti (art. 11), ecc. Tali precetti normativi, pertanto, costituiscono, tecnicamente, non già veri e propri obblighi di comportamento, bensì oneri di qualificazione. Servono più a delineare i confini e il perimetro dell’impresa sociale come fattispecie, che di per sé a prescrivere condotte. Coerentemente con ciò, le irregolarità accertate e non sanate in sede di controllo pubblico danno luogo alla perdita della qualifica di impresa sociale (e alla sua conseguente cancellazione dalla sezione speciale del registro delle imprese) e non già alla liquidazione dell’ente, ferma restando la devoluzione obbligatoria del patrimonio (art. 15, comma 8, d.lgs. 112/2017).

La qualifica di impresa sociale si ottiene con l’assolvimento del primo onere di qualificazione, cioè con l’iscrizione dell’ente nell’apposita sezione del registro delle imprese (art. 5, comma 2, d.lgs. 112/2017). Tale qualifica può perdersi per atto dell’autorità di controllo o anche volontariamente[9]. Possono acquisire la qualifica enti di nuova costituzione o enti già costituiti. Se da un lato l’iscrizione nella sezione apposita del registro delle imprese è sufficiente ai fini dell’inquadramento dell’ente nel Terzo settore (cfr. art. 11, comma 3, CTS, che a tal fine la equipara all’iscrizione nel registro unico nazionale del Terzo settore – RUN[10]), dall’altro lato, anche un ente già costituito come ETS può assumere la qualifica di impresa sociale, anche se tale assunzione determina la perdita delle altre qualifiche specifiche del terzo settore incompatibili con quella di impresa sociale (come quella di ODV), come testimonia l’art. 46, comma 2, CTS, che consente l’iscrizione in una sola sezione del RUN (con l’unica eccezione delle reti associative)[11].

Deve sottolinearsi che gli adeguamenti statutari necessari affinché un ETS già costituito possa assumere la qualifica di impresa sociale possono compiersi alla stregua dell’art. 101, comma 2, CTS. L’ETS, pertanto, può beneficiare della possibilità di modificare il proprio statuto “con le modalità e le maggioranze previste per le deliberazioni dell’assemblea ordinaria” entro diciotto mesi dall’entrata in vigore del CTS (dunque, dal 3 agosto 2017)[12]. Per di più, tali modifiche statutarie sarebbero esenti dall’imposta di registro poiché “hanno lo scopo di adeguare gli atti a modifiche o integrazioni normative” (art. 82, comma 3, CTS).

Attività, finalità e governance dell’impresa sociale

Al fine di acquisire e mantenere la qualifica di cui al d.lgs. 112/2017, le imprese sociali sono tenute a svolgere una certa attività per finalità e con modalità predeterminate dal legislatore.

a) L’attività deve essere un’attività d’impresa di interesse generale. Essa deve essere svolta in via stabile e principale, nonché nel rispetto della sua particolare disciplina, ove esistente (art. 2, d.lgs. 112/2017). Il legislatore non si è affidato ad una clausola generale, ma ha elencato le attività d’impresa che sono da considerarsi di interesse generale ai fini del decreto in questione. Come si noterà, l’elenco è molto lungo (più di quello presente nell’art. 2, comma 1, dell’abrogato d.lgs. 155/2006), ma non comprende tutte le attività di cui all’art. 5, comma 1, CTS. Ciò non deve sorprendere, perché l’art. 5 CTS è per sua natura norma generale rispetto all’art. 2 d.lgs. 112/2017, e comprende alcune attività (come ad es. la beneficenza) che, per la loro natura necessariamente gratuita o erogativa, non potrebbero essere svolte in forma d’impresa. L’elenco può altresì essere aggiornato, e dunque altre attività essere aggiunte, con le modalità e procedure di cui all’art. 2, comma 2. Il comma 3 dell’art. 2 chiarisce cosa debba intendersi per attività svolta in via principale. È tale l’attività i cui ricavi siano superiori al settanta per cento dei ricavi complessivi dell’impresa sociale. Tale calcolo deve svolgersi tenendo conto dei criteri fissati da un decreto ministeriale, ancora da emanarsi[13].

D’interesse generale si considera inoltre, a prescindere dal suo oggetto, l’attività d’impresa nella quale siano occupati i lavoratori molto svantaggiati di cui alla lettera a) del comma 4 dell’art. 2, o le persone svantaggiate o con disabilità o le altre persone indicate alla lettera b) della medesima disposizione, nella percentuale minima di cui al successivo comma 5 (30% dei lavoratori da calcolarsi per teste, ma ai fini del computo del 30% i lavoratori di cui alla lettera a) del comma 4 non possono contare per più di un terzo). In sostanza, in quest’ultimo caso, al fine di qualificare l’attività come di interesse generale, al legislatore non interessa il tipo di bene o servizio che l’impresa sociale produce ovvero il settore di attività in cui essa opera, bensì il semplice fatto che determinate persone siano impiegate nell’attività d’impresa. È quest’ultima la circostanza che realizza l’interesse generale, in considerazione delle particolari condizioni in cui versano i lavoratori da impiegarsi nella percentuale minima del 30%.

Naturalmente, niente in linea di principio impedisce che un’impresa sociale possa assumere entrambe le finalità, cioè quella di inserire al lavoro le persone di cui all’art. 2, comma 4, in una o più attività d’impresa di cui all’art. 2, comma 1.

b) Nonostante l’art. 1, comma 1, d.lgs. 112/2017, e la rubrica dell’art. 3 del medesimo decreto riferiscano all’impresa sociale l’assenza di scopo di lucro, in realtà, se si esamina con attenzione l’art. 3, emerge innanzitutto che l’assenza di scopo di lucro non è totale (cfr. comma 3) ed in secondo luogo che l’art. 3, comma 1, non tanto formula un divieto, quanto, in positivo, si preoccupa di vincolare l’impresa sociale ad una certa destinazione degli utili ed avanzi di gestione comunque denominati, segnatamente “allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio”.

Al fine di assicurare la destinazione impressa dal comma 1 ad eventuali utili o avanzi di gestione, il successivo comma 2 dell’art. 3 pone specifici divieti diretti ad impedire la c.d. distribuzione indiretta di utili, ossia l’aggiramento del vincolo di destinazione mediante atti e negozi che, pur avendo diversa causa, possono di fatto “incorporare” un’assegnazione di utili. Così, è vietato ad esempio all’impresa sociale remunerare i propri amministratori o i propri lavoratori oltre determinate soglie individuate dal legislatore in maniera più o meno rigida.

Il comma 3 dell’art. 3 opera, invece, in deroga al comma 1 del medesimo articolo. Al fine di favorire l’accesso di capitali di rischio nell’impresa sociale permette alle società imprese sociali (e non già, dunque, anche alle associazioni e fondazioni imprese sociali) non solo di rivalutare il capitale sottoscritto dai soci, ma anche di assegnare dividendi ai propri soci, ponendo però due limiti a questa facoltà: un limite oggettivo (può così destinarsi soltanto una quota inferiore al cinquanta per cento degli utili e degli avanzi di gestione annuali, dedotte eventuali perdite maturate negli esercizi precedenti) ed un limite soggettivo (il capitale effettivamente versato non può essere remunerato in misura superiore all’interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo).

La lettera b) del comma 3 trova invece una diversa giustificazione. Consente alle imprese sociali (in qualsiasi forma costituite) di erogare una quota inferiore al cinquanta per cento degli utili e degli avanzi di gestione annuali, dedotte eventuali perdite maturate negli esercizi precedenti, in favore di altri ETS, che non abbiano la qualifica di impresa sociale e non siano fondatori, associati o soci dell’impresa sociale erogante o enti controllati da quest’ultima. Tale erogazioni devono essere finalizzate alla promozione di specifici progetti di utilità sociale. In questo caso, il legislatore ha inteso l’impresa sociale, figura imprenditoriale del Terzo settore, come possibile strumento di supporto finanziario del Terzo settore non imprenditoriale. La prospettiva è quella dell’impresa sociale che produce utili sul mercato e ne destina parte per la promozione di iniziative socialmente utili intraprese da ODV o APS o altri soggetti del Terzo settore di natura erogativa.

c) Un terzo gruppo di norme del d.lgs. 112/2017 si occupa della governance dell’impresa sociale. In generale, come in precedenza si accennava, la struttura di governo dell’impresa sociale dipende dalla forma giuridica in cui l’impresa sociale è costituita. Ad esempio, l’impronta sarà capitalistica se l’impresa sociale ha forma di società per azioni. Mentre sarà personalistica se ha la forma di associazione o di cooperativa. Vi sono tuttavia delle norme comuni di base che ogni impresa sociale, indipendentemente dalla sua forma giuridica, deve osservare ai fini della conservazione della qualifica. Questo standard minimo, o minimo comune denominatore, è, appunto, individuato dal d.lgs. 112/2017 in diverse disposizioni.

Tra queste disposizioni particolare rilievo hanno quelle che, al fine di garantire l’autogestione dell’ente, riservano la nomina di almeno la maggioranza degli amministratori all’assemblea dei soci o degli associati dell’impresa sociale (art. 7, comma 1); per fini di trasparenza ed accountability, obbligano l’impresa sociale a redigere il bilancio di esercizio (secondo le regole di cui agli artt. 2423, 2435-bis o 2435-ter, Codice civile) e il bilancio sociale in conformità a linee guida ministeriali (art. 9); per ragioni di tutela della legalità e correttezza della condotta degli amministratori, anche sotto il profilo dell’osservanza delle finalità sociali, vincolano l’impresa sociale ad avere almeno un sindaco con i requisiti di cui agli artt. 2397, comma 2, e 2399 del Codice civile, nonché, in presenza di determinate circostanze, un revisore legale iscritto oppure un sindaco che sia revisore legale iscritto (art. 10); per assicurare il carattere partecipativo dell’impresa sociale, prevedono forme di coinvolgimento dei lavoratori, utenti ed altri stakeholder (art. 11); affinché l’impresa sociale sia un luogo dove regni l’equità nel trattamento dei dipendenti, fissano un tetto alla differenze retributive (art. 13).

Il controllo pubblico

Un’adeguata disciplina dell’impresa sociale deve contenere norme che istituiscano forme di controllo pubblico idonee a garantire che la qualifica di impresa sociale sia utilizzata soltanto da enti che siano realmente tali, che siano cioè costituiti ed operino nel rispetto delle norme di legge applicabili[14]. Ciò deve avvenire sia nell’interesse dello Stato che finanzia l’impresa sociale attraverso misure fiscali o d’altro genere (nonché degli altri enti pubblici che con le imprese sociali intrattengano rapporti convenzionali), sia nell’interesse stesso delle imprese sociali intese come sistema di imprese fondato su un “immagine” comune, quella appunto di impresa sociale, poiché l’uso improprio della qualifica, anche da parte di una sola unità del sistema, può causare danni d’immagine che si ripercuotono sull’intero sistema[15].

Il legislatore si è occupato della questione nell’art. 15 del d.lgs. 112/2017, giungendo ad una revisione della disciplina previgente, attraverso il recepimento di soluzioni in vigore nel settore delle società cooperative. La titolarità della funzione di controllo rimane in capo al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che concretamente la esercita mediante l’Ispettorato nazionale del lavoro (art. 15, comma 2). Il Ministero, tuttavia, può in alternativa decidere di avvalersi di enti associativi tra imprese sociali, cui aderiscano almeno mille imprese sociali iscritte nel registro delle imprese di almeno cinque regioni o province autonome, nonché delle associazioni di cui all’art. 3, d.lgs. 220/2002, cioè le c.d. “centrali cooperative”, che già per legge esercitano (e continueranno ad esercitare, alla luce di quanto previsto dall’art. 15, comma 5, d.lgs. 112/2017) il controllo sulle cooperative sociali (art. 15, comma 3).

L’ispezione deve avere almeno periodicità annuale ed essere svolta sulla base di un verbale approvato con decreto ministeriale. Spetterà ad un successivo decreto ministeriale regolare più dettagliatamente l’attività ispettiva (art. 15, comma 4). Se si accertano violazioni, il soggetto esercente l’attività ispettiva diffida l’impresa sociale alla loro regolarizzazione entro un congruo termine (art. 15, comma 6). Se le irregolarità sono insanabili o non sono sanate nel termine indicato nella diffida, il Ministro dispone la perdita della qualifica di impresa sociale e la devoluzione del patrimonio residuo – dedotto, nelle imprese sociali societarie, il capitale effettivamente versato dai soci, eventualmente rivalutato, e i dividendi deliberati e non distribuiti – o al fondo di cui all’art. 16 o alla Fondazione Italia Sociale (art. 15, comma 8). L’impresa sociale è dunque conseguentemente cancellata dall’apposita sezione del registro delle imprese. Contro questi provvedimenti, è ammesso ricorso davanti al giudice amministrativo (art. 15, comma 9).

Disciplina fiscale e strumenti di promozione

Il mancato successo dell’abrogato d.lgs. 155/2006, sotto il profilo del numero delle imprese sociali (diverse dalle cooperative sociali) costituite, è usualmente imputato a vari fattori, anche organizzativi, come il divieto totale di distribuire dividendi ai soci; ma lo è, in particolar modo, alla mancanza di norme fiscali ed agevolative ad hoc, capaci di promuovere la costituzione di imprese sociali (soprattutto a cospetto del regime fiscale di particolare favore in vigore per le cooperative sociali). Il legislatore della riforma, sulla base delle indicazioni della legge delega, ha cercato di colmare questa lacuna attraverso l’art. 18 d.lgs. 112/2017. L’evidente speranza è che queste misure possano finalmente contribuire al “decollo” dell’impresa sociale.

La prima misura fiscale prevista dall’art. 18 è la detassazione degli utili ed avanzi di gestione destinati dall’impresa sociale allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio, eventualmente previa imputazione, per un periodo di tempo limitato, ad una riserva indivisibile in sospensione d’imposta, nonché al versamento del contributo dovuto per l’attività ispettiva o ad aumento gratuito del capitale sociale a fini della sua rivalutazione (commi 1 e 2), nei limiti in cui questa rivalutazione è ammessa dall’art. 3, comma 3, lett. a), d.lgs. 112/2017.

La seconda misura fiscale (commi 3-6) – mutuata dalla disciplina delle start-up innovative e delle PMI innovative di cui, rispettivamente, all’art. 29 del D.L. 179/2012 all’art. 4 del D.L. 3/2015 – è la detrazione d’imposta (per le persone fisiche) o la deduzione dal reddito (per le società e gli altri enti giuridici) del trenta per cento delle somme investite nel capitale sociale di un’impresa sociale in forma societaria (anche cooperativa). Per tale agevolazione sono previsti condizioni e limiti. L’impresa sociale, del cui capitale sociale si tratta, deve essere una società costituita dopo, o comunque non più di trentasei mesi prima, l’entrata in vigore del decreto (il 20 luglio 2017) e deve in ogni caso aver acquisito la qualifica di impresa sociale successivamente a tale data, cioè sulla base del nuovo decreto e non già dell’abrogato d.lgs. 155/2006. Questa seconda misura è estesa alle fondazioni imprese sociali, ovverosia agli atti di dotazione o ai contributi al patrimonio delle fondazioni che abbiano le caratteristiche testé descritte con riguardo alle imprese sociali in forma societaria.

La terza misura (comma 8) consiste nell’estensione alle imprese sociali costituite in forma di società (anche cooperativa) della possibilità di raccogliere capitale di rischio attraverso piattaforme online (c.d. crowdfunding). Le società imprese sociali sono state infatti incluse tra i soggetti in favore dei quali i soggetti autorizzati alla gestione di portali per la raccolta di capitali possono operare ai sensi dell’art. 50-quinquies e i cui strumenti finanziari possono essere oggetto di offerta al pubblico ai sensi dell’art. 100-ter del Testo unico in materia di intermediazione finanziaria (TUF).

Dato il carattere innovativo delle misure di cui all’art. 18, ai fini della loro efficacia è stata ritenuta necessaria l’autorizzazione della Commissione europea, da richiedersi a cura del Ministero del lavoro e delle politiche sociali (art. 18, comma 9). Autorizzazione che, considerata la posizione che le imprese sociali occupano nel dibattito europeo (Fici, 2017), nonché l’orientamento della Corte di giustizia europea in merito alle agevolazioni alle società cooperative (Fici, 2011), non dovrebbe esser complesso per il Governo italiano ottenere.

Alla promozione delle imprese sociali è altresì diretto l’art. 16, d.lgs. 112/2017. Si tratta di una misura fortemente ispirata dalla legislazione vigente sulle società cooperative, anche se essa è facoltativa, a differenza di quanto accade per le cooperative dove è obbligatoria. Mira, insieme con l’art. 15, comma 3, alla costituzione di gruppi di imprese sociali capaci non solo di autocontrollarsi ma anche di autopromuoversi in una prospettiva di sistema. L’agevolazione fiscale è l’incentivo pubblico destinato a tale specifico fine.

Altre misure di sostegno alle imprese sociali possono trovarsi in fonti diverse da quelle esaminate in questo articolo, come ad esempio il fondo da 200 milioni di euro di cui al decreto del Ministro dello sviluppo economico, 3 luglio 2015, destinato a finanziamenti agevolati per la realizzazione di programmi di investimento ed oggi in procinto di diventare operativo[16].

Le cooperative sociali dopo la riforma del Terzo settore

Le cooperative sociali costituiscono, come noto, la prima forma giuridica di impresa sociale in Italia, essendo state introdotte dalla legge 8 novembre 1991, n. 381. Questa legge è stata d’esempio per molti legislatori europei e non europei, che sulla sua scia hanno introdotto le cooperative sociali (in alcuni casi solo quelle di tipo b), ovvero di inserimento lavorativo di persone svantaggiate) nei loro ordinamenti giuridici nazionali. Le cooperative sociali sono destinatarie, tanto nel decreto sull’impresa sociale quanto nel CTS, di una disciplina particolare. Il loro volto, dopo la riforma del Terzo settore, appare leggermente mutato, ed in ogni caso la nuova disciplina pone alcuni specifici interrogativi a loro riguardo.

Il CTS menziona innanzitutto le cooperative sociali all’art. 4, comma 1, e all’art. 46, comma 1, lett. d). L’obiettivo di queste disposizioni è semplicemente di chiarire che le cooperative sociali appartengono al Terzo settore, ciò che forse neanche era necessario fare, essendo esse imprese sociali di diritto ai sensi dell’art. 1, comma 4, d.lgs. 112/2017. Le cooperative sociali confluiranno nel RUN, nell’ambito della sezione “imprese sociali”. Anche per esse, come per le imprese sociali, non sarà tuttavia necessaria un’apposita iscrizione al RUN, poiché i relativi dati transiteranno verso quest’ultimo registro dal registro delle imprese presso il quale, in quanto società cooperative, devono iscriversi.

In secondo luogo, il CTS si occupa di cooperative sociali all’art. 40, comma 2, per affermare che esse sono disciplinate dalla legge 8 novembre 1991, n. 381. Si tratta di una norma di collegamento tra il CTS e una “disciplina particolare” ai sensi dell’art. 3, comma 1 del medesimo CTS. La riconduzione della legge 381/91 (e delle cooperative sociali e loro consorzi) nel sistema legislativo del Terzo settore è però importante nella misura in cui consente proprio di applicare alle cooperative sociali la regola secondo cui “le disposizioni del presente Codice si applicano, ove non derogate ed in quanto compatibili, anche alle categorie di enti del Terzo settore che hanno una disciplina particolare”. Le norme del CTS sono dunque potenzialmente applicabili anche alle cooperative sociali. Prova ne è che, là dove il legislatore del CTS ha voluto escludere le cooperative sociali dal suo ambito di applicazione, lo ha fatto esplicitamente (cfr. art. 5, comma 1, CTS)[17]. Il CTS non precisa quanto invece fa il d.lgs. 112/2017, ovverosia che le disposizioni del CTS “si applicano [alle cooperative sociali] nel rispetto della normativa specifica delle cooperative”, ma l’art. 3, comma 1, CTS è già sufficientemente chiaro nello stabilire una gerarchia tra norme allorché prevede che le disposizioni del CTS si applicano agli ETS che hanno una disciplina particolare, come le cooperative sociali, solo “ove non derogate ed in quanto compatibili”. La disciplina particolare delle cooperative sociali, per di più, non si rinviene soltanto nelle norme della legge 381/91, ma anche in quelle del Codice civile, per effetto di quanto stabilito dall’art. 2520, comma 1.

In terzo luogo, le cooperative sociali sono talvolta specificamente considerate nelle disposizioni di natura fiscale del CTS. Ciò avviene, segnatamente, agli artt. 82, comma 1,e 89, comma 11.

Nell’ambito del d.lgs. 112/2017 sull’impresa sociale, invece, le cooperative sociali (e i loro consorzi) sono destinatarie di un particolare trattamento.

In linea con quanto previsto nella legge delega, esse “acquisiscono di diritto la qualifica di impresa sociale” (art. 1, comma 4). In sostanza, sono imprese sociali ope legis, senza che sia perciò necessario verificare per esse la sussistenza dei requisiti essenziali per la qualifica, come invece avviene per tutte le altre imprese sociali, sempre che, s’intende, le cooperative sociali rispettino la normativa specifica loro applicabile. Se è vero pertanto che le disposizioni del d.lgs. 112/2017 sono in gran parte norme di qualificazione di una fattispecie, quella della “impresa sociale”, la conseguenza è che le cooperative sociali sono sottratte alla loro applicazione. Del resto, ciò è in sintonia con le intenzioni del legislatore delegante, che ha voluto migliorare la situazione delle cooperative sociali rispetto alla previsione di cui all’art. 17, comma 3, dell’abrogato d.lgs. 155/2006, che riservava “di diritto” la qualifica di imprese sociali alle sole cooperative sociali che osservassero le disposizioni di cui agli artt. 10, comma 2, e 12, cioè quelle sull’obbligo di redazione del bilancio sociale e sul coinvolgimento di lavoratori e destinatari dell’attività. Per fare dunque un esempio, l’attuale art. 9, comma 2, d.lgs. 112/2017, sul bilancio sociale, non dovrebbe applicarsi alle cooperative sociali. Né dovrebbe trovare applicazione l’art. 6, comma 1. Mentre per quanto riguarda il coinvolgimento di lavoratori, utenti e stakeholder, la questione è risolta dal comma 5 dell’art. 11, che esclude dal suo ambito di applicazione le cooperative a mutualità prevalente, tra cui dunque le cooperative sociali, che tali sono di diritto. Cionondimeno, pur se giuridicamente non vincolanti, le cooperative sociali farebbero bene a decidere di sottoporsi ugualmente, in modo spontaneo, a queste misure di governance che rafforzano la particolare identità delle imprese sociali rispetto alle imprese ordinarie. Non è pensabile, infatti, che la forma giuridica più antica e diffusa di impresa sociale in Italia abbia uno statuto normativo più debole e meno attento ai profili di trasparenza, accountability sociale e coinvolgimento degli stakeholder rispetto alle imprese sociali costituite in altra forma giuridica.

A conclusioni parzialmente diverse da quelle testé prospettate, in particolar modo con riguardo all’obbligo per le cooperative sociali di redigere il bilancio sociale, si potrebbe giungere puntando sulle già ricordate disposizioni di cui all’art. 1, commi 4 e 5, d.lgs. 112/2017 e all’art. 3, comma 1, CTS. Se, infatti, alle cooperative sociali, in quanto imprese sociali, possono applicarsi anche le norme del CTS in quanto non derogate e compatibili con le disposizioni del decreto sull’impresa sociale e con la normativa specifica delle cooperative sociali, allora potrebbe applicarsi alle cooperative sociali l’art. 14, comma 1, CTS. Il punto, però, è se davvero quest’ultima norma, ancorché non derogata, sia compatibile con le disposizioni del d.lgs. 112/2017, ed in particolare con quella disposizione secondo cui le cooperative sociali di cui alla legge 381/91 sono imprese sociali di diritto, norma che, come spiegato, ha lo scopo di sottrarre le cooperative sociali all’onere di osservare le norme che servono a qualificare un ente come impresa sociale[18].

Senza dubbio applicabili alle cooperative sociali sono invece tutte le disposizioni del d.lgs. 112/2017 che non hanno natura di norme di qualificazione della fattispecie, come quelle di cui all’art. 18 o, come diremo, all’art. 17, comma 3, d.lgs. 112/2017. Quanto ai controlli e alle loro possibili conseguenze, vale invece quanto previsto dall’art. 15, commi 5 e 8.

La questione più spinosa, o meglio quella che tale si è dimostrata essere durante l’iter di approvazione del nuovo decreto sull’impresa sociale, è quella delle attività di interesse generale che le cooperative sociali sono ammesse a svolgere. La questione è data dal fatto che l’art. 1, comma 1, legge 381/91, là dove elenca le attività che una cooperativa sociale può esercitare, non è allineato all’art. 2, comma 1, d.lgs. 112/2017. Non si comprende, allora, se la cooperativa sociale, in quanto impresa sociale di diritto, sia ammessa a svolgere (anche) le (altre) attività di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. 112/2017, nonostante la più restrittiva disciplina particolare di cui all’art. 1, comma 1, legge 381/91.

Malgrado ciò non fosse necessario, poiché la disciplina particolare non può che prevalere su quella generale (anche alla luce di quanto oggi previsto dall’art. 3, comma 1, CTS), il legislatore, volendo dirimere ogni dubbio e paralizzare ex ante ogni eventuale contraria interpretazione, ha risolto la questione espressamente nel senso che resta fermo per le cooperative sociali l’ambito delle attività di cui all’art. 1, comma 1, legge 381/91 (art. 1, comma 4, d.lgs. 112/2017). Allo stesso tempo, però, ha modificato quest’ambito mediante l’art. 17, comma 1, d.lgs. 112/2017, includendovi le attività di cui all’art. 2, comma 1, lettere a), b), c), d), l) e p) del decreto sull’impresa sociale[19].

In tal modo il legislatore ha mediato tra chi, correttamente, invocava l’estensione alle cooperative sociali della possibilità di svolgere tutte le attività di interesse generale di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. 112/2017, e chi, invece, si dichiarava a ciò contrario, anche sulla base di (altrettanto comprensibili) ragioni di natura fiscale e dunque di bilancio pubblico. Invero, dal punto di vista teorico-sistematico nessuna apparente ragione sussiste per limitare il raggio d’azione delle cooperative sociali rispetto a tutte le altre imprese sociali. Anzi, risulta poco comprensibile perché mai un’impresa sociale in forma di cooperativa ordinaria ex art. 2511 e ss. del Codice civile possa, ad esempio, operare nel settore della salvaguardia ambientale (lettera g) dell’art. 2, comma 1), mentre non possa farlo una cooperativa sociale ex legge 381/91[20]. Né di per sé la legge delega 106/2016 impediva al legislatore delegato di modificare l’art. 1, comma 1, lettera a), legge 381/91, perché essendo la cooperativa sociale un ente del Terzo settore la sua disciplina era sicuramente riformabile (persino sotto altri, ulteriori profili) dal legislatore delegato (come lo è stata, tra le altre, quella delle ODV e delle APS), senza necessità di un criterio espresso di delega, quanto meno per ragioni di coerenza sistematica, come quelle relative agli ambiti di attività di interesse generale. Se la preoccupazione era quella che, estendendo l’ambito di attività della cooperazione sociale, si estendeva anche l’ambito dei benefici fiscali di cui quest’ultima gode, poteva essere sufficiente, per non gravare sul bilancio pubblico, distinguere tra piano sostanziale e piano fiscale, ammettendo le cooperative sociali allo svolgimento di tutte le attività di interesse generale (di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. 112/2017) ma contemporaneamente limitando i benefici particolari di cui le cooperative sociali oggi godono (rispetto a tutte le altre imprese sociali) ai campi di attività “tradizionali” (di cui all’art. 1, comma 1, lettera a), legge 381/91), nell’attesa che la finanza pubblica fosse in grado di sopportare oneri maggiori.

Ai sensi dell’art. 17, comma 3, d.lgs. 112/2017, “Le imprese sociali già costituite al momento dell’entrata in vigore del presente decreto, si adeguano alle disposizioni del presente decreto entro dodici mesi dalla data della sua entrata in vigore. Entro il medesimo termine, esse possono modificare i propri statuti con le modalità e le maggioranze previste per le deliberazioni dell’assemblea ordinaria”. Questa disposizione non qualifica la fattispecie “impresa sociale” ed è dunque applicabile anche alle cooperative sociali in quanto imprese sociali “di diritto” (per le medesime ragioni per cui ad esse si applica, ad esempio, l’art. 18). D’altronde, nessun ragionevole argomento potrebbe essere addotto a sostegno della tesi contraria.

Conclusioni

La strategia legislativa sottesa al d.lgs. 155/2006, che introdusse l’impresa sociale nell’ordinamento giuridico italiano, era quella di accrescere il numero complessivo di imprese sociali andando oltre la già nota e diffusa cooperazione sociale di cui alla legge 381/91. Si voleva in sostanza consentire ai soggetti potenzialmente interessati a costituire un ente imprenditoriale del Terzo settore di fare ricorso a forme giuridiche alternative a quella cooperativa, qualora per qualsiasi ragione non reputassero quest’ultima quella più idonea ai propri scopi. La “neutralità”, o meglio, la “pluralità” delle forme giuridiche e l’impresa sociale come “qualifica” (piuttosto che come particolare tipo o sottotipo di ente giuridico) furono gli strumenti tecnici a tal fine impiegati. Il d.lgs. 155/2006, oltre che per alcune imprecisioni di natura formale ed alcune disposizioni eccessivamente restrittive, non si è dimostrato capace di attuare quella strategia, soprattutto a causa della mancanza di norme incentivanti la costituzione di imprese sociali.

Oggi la situazione appare senz’altro diversa. Il nuovo d.lgs. 112/2017, che rimpiazza la precedente disciplina, oltre che per una più elevata qualità legislativa del testo, si caratterizza per il fatto di offrire diverse opportunità di sviluppo dello strumento dell’impresa sociale. L’impresa sociale, in ragione della rimozione di vecchi vincoli e soprattutto dell’introduzione di nuove misure agevolative, diventa una forma organizzativa del Terzo settore particolarmente “attraente”. Può interessare tanto chi è alla ricerca di un modello d’impresa non speculativo ispirato ai principi e valori del Terzo settore, quanto chi intende “trasformare” il proprio ETS da “erogativo” ad “imprenditoriale”. Può consentire forme di stabile collaborazione sia tra enti pubblici ed ETS che tra enti privati for profit ed ETS, anche al fine di attuare insieme pratiche di responsabilità sociale d’impresa. Può essere impiegata per il finanziamento di “reti” di ETS a carattere prevalentemente erogativo. In conclusione, il decreto qui sinteticamente presentato e commentato ha tutte le carte in regola per inaugurare una nuova stagione dell’imprenditorialità sociale con effetti positivi sul Terzo settore complessivamente considerato e sull'interesse generale.

Bibliografia

Fici A. (2007),“Impresa sociale”, voce del Digesto delle discipline privatistiche, sezione civile, aggiornamento, vol. 3, t. II, UTET, Torino, pp. 663-680.

Fici A. (2011), “L’identità delle società cooperative nella decisione della Corte di Giustizia UE in tema di aiuti di stato” (nota a Corte di Giustizia dell’Unione europea, 8 settembre 2011, C-78-80/08), Enti Non Profit, 12, pp. 33-38.

Fici A. (2017), A European Statute for Social and Solidarity-Based Enterprise, Study for the Committee on Legal Affairs of the European Parliament, Brussels. 

Note

  1. ^ Decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 112, Revisione della disciplina in materia di impresa sociale, a norma dell’articolo 2, comma 2, lettera c) della legge 6 giugno 2016, n. 106. (17G00124) (GU Serie Generale n. 167 del 19 luglio 2017).
  2. ^ Decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106. (17G00128) (GU Serie Generale n. 179 del 02 agosto 2017 - Suppl. Ordinario n. 43).
  3. ^ Si pensi soltanto alla possibilità di applicare il titolo IV del CTS, ed in particolare l’art. 22 sull’acquisto della personalità giuridica, alle associazioni e fondazioni “imprese sociali”, le quali, in assenza del CTS, sarebbero rimaste unicamente soggette alla “scarna” disciplina degli enti del primo libro del Codice civile.
  4. ^ Per l’esame dell’abrogato d.lgs. 155/2006 rinviamo a (Fici, 2007).
  5. ^ Oltre agli ETS “nominati”, v’è la possibilità di avere, e dunque di costituire, ETS “innominati” in forma di associazione, fondazione o altro ente di carattere privato diverso dalle società (cfr. art. 1, comma 1, CTS). Le imprese sociali sono l’unica figura del Terzo settore che può avere forma societaria.
  6. ^ Le differenze tra forme giuridiche sotto il profilo della governance sono ovviamente attenuate dalle norme “comuni” del d.lgs. 112/2017 in tema di governance dell’impresa sociale, cioè quelle disposizioni del decreto che si applicano a prescindere dalla forma giuridica di costituzione dell’impresa sociale: cfr. infra par. 3, sub c).
  7. ^ E, coerentemente, quegli stessi enti che non possono assumere la qualifica di impresa sociale non possono neanche controllarla: cfr. art. 4, comma 3, d.lgs. 112/2017; né loro rappresentanti possono assumere la presidenza dell’impresa sociale: art. 7, comma 2, d.lgs. 112/2017. Evidentemente, queste ultime disposizioni non impediscono che delegati di enti con scopo di lucro o di amministrazioni pubbliche siedano nel consiglio di amministrazione di un’impresa sociale, purché non svolgano il ruolo di presidente e purché tale partecipazione non dia luogo a direzione, coordinamento o controllo dell’impresa sociale.
  8. ^ Ancora più particolare è il regime degli enti religiosi civilmente riconosciuti (cfr. art. 1, comma 3, d.lgs. 112/2017, ed ancora più in generale l’art. 4, comma 3, CTS), su cui però non ci soffermeremo in questa sede.
  9. ^ Nel caso di perdita volontaria della qualifica, cioè per scelta dell’ente, così come nel caso di suo scioglimento volontario, il patrimonio residuo non seguirà le sorti di cui all’art. 15, comma 8, bensì quelle di cui all’art. 12, comma 5. Il legislatore ha preferito applicare l’art. 15, comma 8, al patrimonio che residua al termine della procedura concorsuale (art. 14, comma 5), quasi attribuendo a quest’ultima carattere sanzionatorio.
  10. ^ Nell’ambito di questo registro, tuttavia, esiste una sezione dedicata alle imprese sociali (art. 46, comma 1, lett. d, CTS) cui i dati dovranno affluire dal registro delle imprese secondo modalità da definirsi ai sensi dell’art. 53, comma 1, CTS.
  11. ^ Questo ragionamento, ovviamente, non si applica all’ETS “innominato”, privo di qualifiche specifiche, e perciò iscritto nella sezione g) del registro. Quest’ultimo cambierà soltanto sezione del registro, ma non perderà una precedente qualifica, che, appunto, non possedeva.
  12. ^ Le imprese sociali già costituite, invece, devono adeguarsi alla nuova normativa entro dodici mesi dall’entrata in vigore del d.lgs. 112/2017, cioè dal 20 luglio 2017, beneficiando della possibilità di modificare lo statuto “con le modalità e le maggioranze previste per le deliberazioni dell’assemblea ordinaria” (art. 17, comma 3, d.lgs. 112/2017), nonché dell’agevolazione fiscale di cui all’art. 82, comma 3, CTS, che però è preclusa alle imprese sociali in forma societaria (diverse dalle cooperative sociali), dal momento che il comma 3 dell’art. 82, CTS, limita il suo raggio d’azione agli enti di cui al comma 1 del medesimo articolo, ovverosia “agli enti del Terzo settore comprese le cooperative sociali ed escluse le imprese sociali costituite in forma di società” (art. 82, comma 1, CTS). L’esclusione delle imprese sociali societarie da questo beneficio fiscale appare priva di un’apparente giustificazione (e potrebbe, pertanto, divenire oggetto di revisione nel decreto correttivo di cui all’art. 1, comma 7, legge 106/2016), anche se la sua incidenza è invero molto limitata, non essendo ad oggi particolarmente consistente il numero di imprese sociali in forma di società che sono iscritte nel registro delle imprese.
  13. ^ Anche se esiste già un decreto emanato nel gennaio del 2008 in esecuzione di un’analoga disposizione contenuta nel d.lgs. 155/2006, che potrebbe costituire la base per l’emanando decreto. È vero però che su quest’ultimo potrà influire la previsione di cui all’art. 6 CTS, ovvero le scelte che si opereranno nel decreto ministeriale da emanarsi in attuazione di quest’ultima norma del CTS.
  14. ^ Ricordiamo che l’art. 6 d.lgs. 112/2017, se da un lato, al comma 1, obbliga l’impresa sociale ad utilizzare l’indicazione di “impresa sociale”, dall’altro, al comma 3, vieta l’uso di tale indicazione a soggetti diversi dalle imprese sociali.
  15. ^ Basti pensare alle vicende di “Mafia Capitale”, dove peraltro il danno d’immagine al sistema della cooperazione sociale è stato riconosciuto da Trib. Roma, 20.7.2017, in favore di Legacoopsociali, costituitasi parte civile.
  16. ^ Si veda ad esempio: http://bit.ly/2vXT53f
  17. ^ Neanche di potenziale applicabilità alle cooperative sociali può invece ovviamente parlarsi con riguardo ad alcuni gruppi di norme del CTS, come quelle che disciplinano, al titolo IV, le associazioni e le fondazioni del Terzo settore.
  18. ^ Si potrebbe giungere a conclusioni parzialmente diverse da quelle prospettate nel testo, in particolar modo con riguardo all’obbligo per le cooperative sociali di redigere il bilancio sociale, puntando sulle già ricordate disposizioni di cui all’art. 1, commi 4 e 5, d.lgs. 112/2017 e all’art. 3, comma 1, CTS. Se alle cooperative sociali, in quanto imprese sociali, possono applicarsi anche le norme del CTS in quanto non derogate e compatibili con le disposizioni del decreto sull’impresa sociale e con la normativa specifica delle cooperative sociali, allora potrebbe applicarsi alle cooperative sociali l’art. 14, comma 1, CTS. Il punto, però, è se davvero quest’ultima norma sia compatibile con le disposizioni del d.lgs. 112/2017, ed in particolare con quella disposizione secondo cui le cooperative sociali di cui alla legge 381/91 sono imprese sociali di diritto, norma che, come spiegato, ha lo scopo di sottrarre le cooperative sociali all’onere di osservare le norme che servono a qualificare un ente come impresa sociale. Sulla base di questo nostro ragionamento, a conclusioni diverse deve invece giungersi con riguardo all’art. 14, comma 2, CTS, posto che l’obbligo di pubblicazione ivi contemplato non costituisce un requisito della qualifica di impresa sociale ai sensi del d.lgs. 112/2017.
  19. ^ Si badi che l’espressa inclusione di queste attività non preclude che altre attività di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. 112/2017, possano comunque ricondursi al concetto di “servizi socio-sanitari ed educativi”, per come questo concetto è stato interpretato, anche evolutivamente, nel tempo, ed essere dunque svolte dalle cooperative sociali. Pare che qualcosa di simile possa ad esempio dirsi con riguardo all’attività di cui alla lettera r) dell’art. 2, comma 1, d.lgs. 112/2017. Ancora, le cooperative sociali sono inoltre ammesse a svolgere quelle attività che altre leggi loro riferiscono, come ad esempio l’attività di cui alla lettera t) dell’art. 2, comma 1, d.lgs. 112/2017, in ragione di quanto previsto dall’art. 2, comma 4, legge 18 agosto 2015, n. 141.
  20. ^ Che una cooperativa ordinaria, e dunque non sociale ai sensi della legge 381/91, possa assumere la qualifica di impresa sociale è pacifico. Non solo l’art. 1, comma 1, d.lgs. 112/2017 consente l’accesso alla qualifica a tutti i tipi di enti, inclusi quelli costituiti nelle forme di cui al libro V del Codice civile (dove, appunto, si trova collocata e disciplinata la forma della società cooperativa), ma l’art. 17, comma 2, d.lgs. 112/2017 parla proprio “società cooperative che assumono la qualifica di impresa sociale”. Si veda inoltre l’art. 11, comma 5, d.lgs. 112/2017, là dove fa generico riferimento alle “cooperative a mutualità prevalente”.
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