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ISSN 2282-1694
impresa-sociale-9-2017-i-30-anni-del-gruppo-cooperativo-cgm-come-nasce-una-rete-d-impresa-sociale

Saggi brevi

Quanto sono plurali le imprese sociali?

Luigi Corvo, Lavinia Pastore, Andrea Sonaglioni

Impresa sociale e gender gap

Francesca Picciaia

Casi studio

I 30 anni del Gruppo cooperativo Cgm

Alberto Ianes

I 20 anni di Avanzi

Flaviano Zandonai

I 10 anni di Lama

Flaviano Zandonai

Recensioni

Spazi fuori dal comune

Flaviano Zandonai

Numero 9 / 2017

Casi studio

I 30 anni del Gruppo cooperativo Cgm: come nasce una rete d'impresa sociale

Alberto Ianes

Abstract

Il tema delle reti attraversa, fin dalla sua origine, la storia della cooperazione sociale. In particolare le vicende organizzative, personali e di contesto legate alla costituzione, trent'anni fa, del gruppo cooperativo Cgm sono ricche di elementi conoscitivi e di apprendimento che, con le dovute accortezze comparative, possono contribuire a leggere la fase attuale e il futuro prossimo di quello che rimane il più importante "conglomerato" imprenditoriale della cooperazione sociale. Inoltre, le stesse considerazioni e analisi possono essere utili per interpretare i processi di nascita e affermazione di nuovi network che reinterpretano in forme diverse il mix tra legami inter-organizzativi e comunità imprenditoriali vocate all'innovazione sociale al fine di rilanciare lo sviluppo dell'impresa sociale in questa cruciale fare post riforma.

In occasione dei vent’anni di attività, Alberto Ianes ha intervistato Carlo Borzaga e Felice Scalvini.


Per raccontare le vicende del sistema d’imprese, che è stato ed è Cgm, bisogna tornare indietro nel tempo, di circa trent’anni e più. Non esisteva ancora la legge 381/91, eppure la cooperazione sociale aveva già compiuto i suoi primi passi. D’altronde la vostra matrice era piuttosto chiara: eravate figli del volontariato, del volontariato organizzato.

CARLO BORZAGA. Quando agli inizi degli anni Ottanta, con Luciano Tavazza e monsignor Nervo, si discuteva della legge sul volontariato, si ipotizzava in realtà una normativa onnicomprensiva, capace di raccordare le diverse espressioni di quello che poi venne definito come “terzo settore”. Stava emergendo un fenomeno nuovo, il volontariato organizzato, inteso come insieme di iniziative private e gestite in modo autonomo rispetto al settore pubblico. Si trattava indubbiamente di una novità, visto che già nel 1990 lo studioso americano Ted Perlmutter si chiedeva: “Italy: Why No Voluntary Sector?”. La legge sul volontariato voleva essere una legge sul terzo settore: noi avevamo in mente questo, poi è diventata altro. Pensavamo alle associazioni, alle organizzazioni di volontariato, alle cooperative sociali, ma dopo l’approvazione della legge 266 a predominare sono state altre declinazioni, come i donatori di sangue, le Misericordie, ecc.

Esiste un momento particolare, o un episodio specifico, a cui è possibile far risalire l’espressione “terzo settore”?

CB. Era l’estate del 1987 e Fondazione Zancan organizzò a Malosco, in Val di Non, un seminario di studio dal titolo “L’area del volontariato organizzato oggi”. Monsignor Nervo presentò in apertura una relazione molto problematica, piena di interrogativi, domande, questioni aperte, cui seguì un dibattito molto sfrangiato dove emergevano spunti estremamente interessanti, ma difficili da ricondurre a fattor comune. Era necessario mettere ordine alle idee, anche perché il volontariato si era evoluto e iniziava a confrontarsi con la gestione di processi economici che richiedevano una certa preparazione anche di carattere imprenditoriale. Al termine della prima giornata di lavori, sul terrazzino della struttura che ci ospitava, ci trovammo io, Felice Scalvini, Luciano Tavazza e Stefano Lepri, e iniziammo a discutere. Più o meno tutti avevamo letto il volume di Giorgio Ruffolo, “La qualità sociale”, nel quale era contenuto un breve paragrafo dedicato al “terzo sistema” che riprendeva un concetto sviluppato dalla stesso Ruffolo con Jacques Delors presso la Comunità Europea. Con Lepri preparammo poi una comunicazione da presentare all’apertura dei lavori il giorno seguente. Proponemmo l’ipotesi di un terzo sistema (non “terzo settore”, definizione che sarebbe emersa solo in seguito) come concetto unificante all’interno del quale potevano trovare collocazione le varie forme dell’azione sociale, sia quelle più redistributive sia quelle più di natura imprenditoriale, come la cooperazione di solidarietà sociale. Attorno a quella prima ipotesi si creò un consenso via via crescente. Si decise di proseguire su questa strada: valeva la pena ragionare, approfondire, studiare. Seguirono le prime ricerche e il primo importantissimo convegno di Bassano, del 1988, intitolato emblematicamente: “Il terzo sistema: una nuova dimensione della complessità economica e sociale”.

A un certo momento i primi cooperatori sociali furono alle prese con il problema di convincere il legislatore e il movimento cooperativo - c’erano delle resistenze al riguardo - dell’idea che si potesse fondare una cooperativa non per mutualità ma per solidarietà. Ciononostante stavate già pensando all’architettura istituzionale del movimento. Ci puoi raccontare com’è andata, quali difficoltà avete dovuto affrontare?

FELICE SCALVINI. Al tempo esisteva già un gruppo dirigente che si andava strutturando all’interno di Confcooperative, così come un primo ufficio a Roma presidiato da Gino Mattarelli, mentre io seguivo le vicende da Brescia. Dopo il primo seminario nazionale nella primavera dell’81 a Foligno, e il seminario estivo di Fondazione Zancan dedicato alla cooperazione nei servizi sociali dove presentammo la bozza della proposta di legge che in autunno l’onorevole Salvi presentò in parlamento, nel 1982 si tenne un secondo appuntamento nazionale dove entrò in squadra anche Carlo Borzaga, che aveva già iniziato a introdurre nel dibattito qualche elemento di riflessione più di taglio accademico. Personalmente mi sentivo impegnato a portare nel gruppo la visione e le competenze aziendali che avevo maturato nei sei anni trascorsi nel cuore del Gruppo Ambrosiano, allora il più grande sistema bancario del Paese. Mi era dunque naturale ragionare su scenari e ipotesi di scala nazionale. Nell’82 ebbi poi l’opportunità di partecipare a un incontro organizzato da Inecoop nazionale sui temi della formazione per lo sviluppo cooperativo. Lo ricordo ancora: ci riunimmo presso il Centro Studi dell’Eni, vicino a Urbino, un luogo stupendo dal punto di vista paesaggistico e architettonico, ma soprattutto una fondamentale scuola di management per la più ambiziosa azienda italiana. Mi convinsi che dovevamo pensare come l’Eni con il suo centro di formazione, come Comit con il suo centro studi, come Montedison con il Centro ricerche, come Olivetti con la sua squadra multidisciplinare di studiosi: provare a impostare un disegno di grande respiro creando una struttura nazionale, in grado garantire al sistema che stava nascendo la capacità di gestire al proprio interno anche le funzioni strategiche di lungo periodo, quali la ricerca, la formazione, l’assistenza e i grandi progetti di sviluppo. Fu in quel periodo che accarezzai l’idea di un consorzio nazionale come chiave di volta di un sistema imprenditoriale integrato a tre livelli: le cooperative sociali di base, specializzate e in relazione con la comunità locale di riferimento; i consorzi provinciali a monte, con la funzione di integrare la gestione dei servizi generali di primo livello; e infine una qualche organizzazione di terzo livello, che fosse in grado di garantire lo sviluppo, l’omogeneizzazione e la diffusione della cooperazione sociale come fenomeno nazionale specifico, unitario e integrato. Questa visione aveva un corrispondenza anche sul piano politico e consentì di dare vita ad un’architettura che interessava due fronti: quello della rappresentanza politica (con la nascita prima del Segretariato generale nel 1985 e di Federsolidarietà nel 1988) e quello imprenditoriale, che risultò già compiuto nell’assetto con la costituzione nel 1987 deI consorzio Cgm.

Si trattava di declinare dentro queste realtà un sacrosanto principio cooperativo, quello della cooperazione tra cooperative…

FS. Condivido, anche perché si tratta di un tema ricorrente all’interno del movimento che si ripropone ancora oggi. Il punto è che il VI principio cooperativo non rappresenta un auspicio per anime pie che non conoscono le dinamiche reali delle imprese, ma una precisa indicazione per affrontare in modo originale due questioni decisive, soprattutto oggi, per le imprese cooperative: le crescita dimensionale sino a diventare campioni nazionali e multinazionali, e la modalità di presenza nei mercati e capacità di condizionarli in chiave cooperativa. Lo snodo più complesso del fenomeno cooperativo non sta tanto nell’organizzazione degli interessi all’interno della singola cooperativa, quanto nelle relazioni tra cooperative superando le logiche di mercato e inventando nuove forme di collaborazione. E a guardar bene “la cooperazione tra cooperative” rimane un nodo irrisolto su cui si sono verificati i maggiori fallimenti.

Quello che stava prendendo forma quindi era un modello di cooperazione sociale costruito su più livelli: le cooperative sociali di dimensioni piccole, per presidiare meglio il territorio, e il consorzio, come soggetto chiamato a perseguire le economie di scala per conto delle associate. Ora, in quello stesso periodo in Italia, e a dire il vero già a partire dalla fine degli anni ‘70, entrò in crisi il modello fordista della grande impresa e si affermarono per contro altri assetti imprenditoriali. Penso alla definizione che diede Arnaldo Bagnasco di Terza Italia, o ai distretti industriali e al mito della piccola impresa, intesa “come piccolo è bello”. Sarebbe interessante sapere se queste dinamiche più generali del Paese, dell’Italia produttiva, influenzarono in qualche modo il corso degli eventi e la costruzione, così come poi è avvenuta, del fenomeno della cooperazione sociale?

FS. Erano dinamiche che mi entusiasmavano, per questo studiavo tematiche di tipo strategico e organizzativo. Leggevo soprattutto i distrettualisti, mi appassionava la visione di Schumacher e del suo “piccolo è bello”, ma di cui si dimenticava troppo spesso la seconda parte che dice “ma su grande scala”, approfondivo l’idea, cara a Adriano Olivetti, dell’impresa come “impresa di comunità”. Ero convinto che stessimo facendo ciò che aveva ipotizzato proprio Olivetti: costruire la grande dimensione, attraverso la proliferazione dell’impresa sociale diffusa e articolata, coordinata a livelli superiori con meccanismi partecipativi, non gerarchici. La nostra sfida era: come generare sviluppo mantenendo la dimensione delle singole cooperative compatibile con la capacità di essere impresa di comunità, e al tempo stesso riuscendo ad agire su larga scala? La direzione giusta, se vuoi, fu presa nel 1983 quando fondammo il primo consorzio, Sol.co Brescia, che nacque volutamente come unità provinciale, in un ambito, quello di Confcooperative, dove, di solito, chi partiva per primo puntava subito ad accreditarsi e operare su scenari più ampi, sino al livello nazionale. Tanto è vero che Sol.co Brescia ricevette quasi subito una serie di richieste di adesione da parte di cooperative di altri regioni, che rifiutammo, mantenendo una linea ferma e confermando il nostro orizzonte locale. Ci impegnammo però a sostenere la nascita di esperienze simili in altri territori. Di qui l’avvio dei consorzi di Forlì, Parma, Roma e Potenza e l’azione diretta di sviluppo (il progetto Aquario) che portò alla nascita di Sol.co Cremona, Bergamo, Mantova e Sondrio. Furono denominati tutti Sol.co in quanto l’intenzione era di farne un marchio. In verità, tra i primissimi solo quello di Roma si chiamò così, gli altri fecero scelte diverse.

Ma i consorzi cos’erano, cosa si proponevano?

FS. Erano agenzie di coordinamento, integrazione e servizio delle cooperative sociali presenti nei territori. L’idea era che potessero diventare una sorta di distretti integrati delle imprese sociali, organizzati come un’impresa-rete. E ci piaceva giocare su concetti che si presentassero provocatoriamente come ossimori, aporie: lo sviluppo spontaneo coordinato; la pianificazione che fa leva sullo spontaneismo. Cercavo di creare degli snodi attraverso una condivisione del modello (anche in modo evocativo, con la metafora del campo di fragole) e il consorzio nazionale doveva rappresentare la chiave di volta ed il motore di questo modello.

E quindi la rete della cooperazione sociale si perfezionò con il consorzio nazionale. Come prese corpo il tutto?

FS. C’era molto fermento, con dinamiche non sempre evolutive, soprattutto sul piano legislativo. Si susseguivano diversi disegni di legge sulla cooperazione sociale, ma il Parlamento non sembrava intenzionato a procedere speditamente con l’approvazione, anche alla luce di un profondo dissenso all’interno dello stesso movimento cooperativo. Il fenomeno della cooperazione sociale però cresceva in modo irruento e si strutturava. Nel 1985 ci fu la memorabile prima assemblea di Assisi, con una partecipazione straordinaria di cooperatori, ma si faticava a gestire il dopo. Gino Mattarelli avrebbe voluto fare un passo indietro dal coordinamento nazionale perché stava assumendo un altro incarico. Così il direttore di Confcooperative, Vincenzo Mannino, prima di Assisi chiese al sottoscritto di assumere la guida del progetto, ma preferii conservare un ruolo meno esposto e più operativo. Il Comitato di coordinamento nacque perciò sotto la presidenza di Mattarelli, mentre l’azione di sviluppo vedeva impegnato il gruppo composto dal sottoscritto con Franco Marzocchi, Massimo de Rosa per il sud, in Veneto Lorenzo Pilon, a Trento Carlo Borzaga e Egidio Formilan, e altri nelle varie regioni. I consorzi provinciali iniziavano a diffondersi e ad operare. Intanto ci eravamo già confrontati con l’esperienza formativa attraverso i corsi per cooperatori di solidarietà sociale che avevo condotto presso Fondazione Zancan dall’82 all’85. Era importante continuare a far fruttare il know how accumulato. Nel 1986, con la benedizione di monsignor Nervo, organizzammo in Trentino, presso la cooperativa Villa Sant’Ignazio, un primo seminario per dirigenti con un taglio più aggregativo e comunitario, grazie al supporto di Carla Acler. Al termine del seminario si svolse, sempre a Villa sant’Ignazio, una riunione del Comitato di coordinamento nazionale. Fu in questa la sede che decidemmo di andare alla costituzione di un consorzio nazionale.

Era un’operazione ardita che anticipava i tempi, visto che in fondo i consorzi provinciali erano solo cinque.

FS. La nostra voleva essere un’operazione generosa, a servizio di un disegno nazionale. Ciò che avevo in mente era un consorzio in grado di raggiungere tutti i territori, un progetto complessivo e non solo rappresentativo delle cinque realtà che andavano a formarlo. Quindi bisognava partire per tempo e posizionarsi sul livello nazionale. Volevamo costituire un motore imprenditoriale di coordinamento e gestione delle funzioni strategiche tipiche delle grandi imprese: la ricerca, la formazione del management, le azioni strategiche di sviluppo (avevamo anche delle entrature con Formez, incubatore di azioni di sviluppo nel Mezzogiorno in grado di sostenere la fioritura della cooperazione sociale al sud). Vi era inoltre una certa disponibilità finanziaria di derivazione europea, così come quella proveniente dall’Istituto Luzzatti che finanziò le prime ricerche negli anni Novanta. Un soggetto che si facesse carico della gestione di questi progetti nell’interesse di tutti, anche delle realtà che erano di là da venire, era dunque una necessità di cui incaricò il primo gruppo di consorzi.

Si sa che la costituzione del consorzio non fu semplice, fu tutta in salita. Ci fu anche un piccolo caso politico. Ci puoi raccontare?

FS. Sì, alcuni personalismi ostacolarono ulteriormente le intenzioni. Avevamo cinque consorzi, il numero necessario per la normativa del tempo per costituirne uno di livello ulteriore. Decidemmo di incardinare la sede a Forlì, in quanto Franco Marzocchi si era reso disponibile per la gestione amministrativa del consorzio (inoltre non volevo “brescianizzare” troppo il progetto e dare delle incombenze aggiuntive a Sol.co Brescia, che rimaneva pur sempre l’esperienza pilota). La decisione di prendere casa in Emilia Romagna indispettì Saverio Lamiranda, presidente di Confcooperative Basilicata, che si attivò per impedire che il consorzio di Potenza potesse far parte della compagine fondativa. Rimanemmo così in quattro, un numero insufficiente. Grazie a Pilon però recuperammo la disponibilità di una cooperativa veneta, il Girasole, che ci permise di proseguire con la costituzione del consorzio nazionale. Ci si mise poi subito all’opera per rastrellare nuove adesioni, soprattutto con la promozione di nuove realtà consortili provinciali, così da allargare la maglia del sistema, favorire il radicamento in differenti ambienti, cercando di ramificarci sull’intero territorio nazionale.

Con la collocazione del consorzio nazionale a Forlì fu ancora più naturale intitolarlo alla memoria del forlivese Gino Mattarelli che era venuto a mancare solo poco tempo prima...

FS. Si, la scomparsa ancora viva di Mattarelli ci portò ad intitolare il consorzio alla sua memoria, devo dire anche nella speranza di suscitare interesse, sensibilità e apertura in ambienti in cui il suo nome evocava qualcosa, ma soprattutto per dare giusto riconoscimento a ciò che aveva rappresentato, per la fiducia che ci aveva dato, per la libertà con cui avevamo potuto operare sotto il suo coordinamento. Il Consorzio nazionale si chiamò così Cgm, Consorzio Gino Mattarelli.

Da subito il consorzio nazionale si dedicò alla Ricerca e allo Sviluppo (con il suo Centro Studi e di documentazione), cioè all’innovazione, oltre che alla formazione e alla consulenza per le associate. Il movimento aveva bisogno di creare una propria identità da condividere con i cooperatori attraverso la rivista “Impresa Sociale”. Pare sia questo uno degli elementi principali che contraddistinse l’operato di Cgm di quegli anni. Partire dalla “cultura” per allargare le maglie e diffondere il “verbo” della cooperazione sociale…. 

CB. Uno dei limiti del mondo cooperativo (indipendentemente dal colore politico e dall’appartenenza ideale) era quello di non essere in grado di sviluppare pensiero cooperativo. Ricordo un pranzo con Dario Mengozzi, allora presidente di Confcooperative, in cui pensammo istituire un centro studi di Confcooperative a Roma, ma non se ne fece nulla. Fu questa la ragione per cui decidemmo di far ruotare la principale attività del consorzio attorno al settore ricerca, al centro studi e alla formazione. Va aggiunto che Cgm svolse in quella fase la funzione di piattaforma di elaborazione e di negoziazione a supporto della legge sulla cooperazione sociale, quella che sarebbe diventata la 381 del 1991. Prese avvio il percorso di formazione per dirigenti (affinato sempre più, anno dopo anno), a cui presero parte molti dei cooperatori che poi avrebbero assunto ruoli di responsabilità nel mondo della cooperazione sociale. Fu in questo periodo che iniziarono le pubblicazioni della rivista Impresa Sociale. Vennero poi avviati i progetti di sviluppo del Sud, responsabili, in alcune circostanze, delle difficoltà di gestione di Cgm. Anche se il problema principale di Cgm fu di non avere un reale investitore alle spalle, in grado di finanziarne lo start-up e lo sviluppo.

Arriviamo al nodo finanziario, che non riguardava solo Cgm.

FS. Il tema finanziario rappresentava la quarta gamba del modello. Accanto alle persone, da far crescere con un sistema dedicato di formazione, al modello imprenditoriale della rete con Cgm chiave di volta, alla struttura politica incardinata su Federsolidarietà, mancava il pilastro finanziario. Fu così che nacque Cgm Finance. Anche in questo caso il laboratorio fu bresciano dove, grazie anche alla mia esperienza in ambito finanziario, creammo Sol.co Finanza nel 1986 per mutualizzare i saldi attivi di cassa delle cooperative di Sol.co Brescia, oltre che fondi personali (allora la normativa lo permetteva) e utilizzarli per prestiti alle cooperative che ne avevano bisogno, con una gestione autonoma e oculata di cui era garante il presidente, un professionista esterno. Il tutto sotto il controllo di un collegio sindacale piuttosto robusto, così da consentire una valutazione sui finanziamenti di carattere puramente tecnico. Si trattava ora di capire se l’esperienza bresciana fosse replicabile in altri territori. Pensammo che fosse più praticabile operare a livello nazionale con una struttura unica. Fu così che, con un atto di generosità dei bresciani, Sol.co Finanza si trasformò in Cgm Finance, un contenitore finanziario al servizio del sistema complessivo, come è ancora oggi. Poi arrivarono Cosis, Banca Etica, Banca Prossima, ma questa è un’altra storia.

Sotto la tua presidenza, Cgm ha cambiato più volte quartier generale, siete poi saliti agli onori e all’attenzione di una delle più quotate società di consulenza, McKinsey, che non ha mancato di manifestare interesse nei confronti della vostra rete d’imprese. Com’è nato il tutto?

FS. Nel nostro peregrinare, ci trasferimmo prima a Milano e poi a Brescia, dove Sol.co Brescia che s’incaricò di gestire l’assistenza tecnica: una sorta di ritorno alle origini, di destino già scritto. Fu in questo periodo che nacque lo studio strategico pro bono di McKinsey. Cgm iniziava a diventare un centro di competenze, ma anche di valorizzazione di talenti, che richiedeva un’alta formazione. Contattai due vecchi amici, dei tempi di Milano, che avevano fatto carriera in grandi società di consulenza e chiesi loro di regalarmi una due giorni formativa per il gruppo impegnato con me in attività di promozione e consulenza per conto del consorzio nazionale. Furono coinvolti alcuni giovani promettenti accanto ad altri con esperienza di più lungo corso; sto pensando a Jonny Dotti, Valerio Luterotti, ma anche a Massimo De Rosa ed altri ancora. Per i miei amici consulenti fu l’occasione di conoscere più da vicino il “sistema” Cgm e s’incuriosirono. Dopo qualche giorno mi chiamarono e mi proposero di presentarmi l’allora direttore generale di McKinsey, Rolando Polli, al quale chiedere una consulenza strategica, proprio come le grandi aziende, soltanto che la nostra fu gratuita, anche se vide impegnato per circa due mesi uno staff di 4/5 persone. Seguì il rapporto finale che pubblicammo su Impresa Sociale nel 1993.

C’è da pensare che il pro bono di McKinsey abbia procurato una qualche visibilità a Cgm?

CB. In effetti sì. Cgm stava diventando un attore importante e autorevole: questa ricerca mise un importante tassello nella costruzione del modello, supportato anche dalle riflessioni sviluppate su Impresa Sociale, dalla legge 381/91 che finalmente aveva visto la luce, dalle attività di formazione sempre più consolidate, dall’Ufficio studi affidato alla professionalità di Stefano Lepri e poi di Marco Maiello.

FS. Cominciarono anche i progetti finanziati grazie ai PON del Ministero del Lavoro, mentre Fondosviluppo (il fondo mutualistico di Confcooperative) fece il suo ingresso nella compagine sociale del Consorzio.

Insomma Cgm si proponeva come agente di sviluppo strategico per l’intero sistema della cooperazione sociale. L’ambizione era di diventare un consorzio unificante, capace di andare oltre le appartenenze politiche e di dare supporto tecnico all’intera cooperazione sociale, quella di derivazione cattolica e quella di matrice rossa. È così?

FS. Dopo l’approvazione della 381 maturammo l’idea che Cgm potesse integrare le esperienze di Legacoop e di Federsolidarietà-Confcooperative. Livia Consolo e Beppe Possagnolo, di area Lega, tennero le fila di questa operazione. Nel 1993 organizzammo un’assemblea a Riccione, a cui parteciparono gli allora presidenti di Legacoop Giancarlo Pasquini e di Confcooperative Luigi Marino. Era un tentativo, anche simbolico, per legittimare un terreno di dialogo, tanto che il settore sociale si candidò a diventare la prima piattaforma in cui i due movimenti avrebbero potuto convergere. Non se ne fece nulla. Possagnolo, che faceva da pontiere tra i due mondi, si trovò sempre più isolato. Fu un’occasione mancata: ad ogni modo Cgm incluse anche una parte della rete di Legacoop, che portò all’ingresso di Livia Consolo nel CdA.

Livia Consolo che, tra l’altro, diventò presidente di Cgm…

FS. Il passaggio di presidenza tra me e Livia avvenne alla prima convention di Fiuggi, se non erro nel 1997. In quella fase stavo costituendo Cosis (Compagnia Sviluppo Imprese Sociali) e decisi di esternalizzare l’attività di assistenza tecnica e di supporto di questa nuova società a favore di Cgm, garantendogli così un buon budget, ma anche la possibilità di valorizzare quanto compiuto fino ad allora. Livia Consolo rimase presidente per sei anni, fino al 2002, mentre il ruolo di amministratore delegato venne ricoperto in un primo momento da Stefano Bernardi a cui subentrò Jonny Dotti. Questa fase proseguì all’insegna della continuità. Iniziarono i primi piani strategici, di integrazioni specifiche, anche settoriali, come tutto il lavoro nel settore psichiatrico. L’ottica però era sempre la stessa: lavorare sul modello, fare assistenza, affinare e manutenere un approccio. L’ipotesi continuava ad essere quella di essere, sempre meglio, una struttura di supporto nazionale a un sistema di imprese specializzate nei diversi settori di intervento sociale e profondamente radicate nelle comunità locali.

Poi c’è stata discontinuità ? A partire da quando?

FS. È innegabile che con la presidenza di Jonny Dotti, subentrato a Consolo, si volle segnare una forte discontinuità. Dotti si proponeva come il nuovo che andava verso altri orizzonti. Si ebbe la virata di Cgm, che cominciò a sviluppare azioni imprenditoriali in proprio attraverso politiche di marchio e società di scopo. Quello che prima era pensato come “core” – la formazione, la ricerca, la cultura – fu considerato come una sorta di commodity, acquistabile da questa o da quella università o centro di ricerca. Il consorzio di fatto si cimentò in un nuovo mestiere, dal quale precedentemente l’avevo tenuto lontano, malgrado varie seduzioni. Di fatto smise di essere ciò per cui era stato originariamente pensato e iniziò, con grande impegno e con mezzi significativi, frutto delle storiche relazioni costruite negli anni e di una buona capacità di marketing, un nuovo mestiere. Ciò che inesorabilmente venne meno fu l’idea di Cgm come soggetto chiamato a integrare l’intero mondo della cooperazione sociale. Si trattava di un obiettivo forse utopistico, in ogni caso perseguibile a patto di dedicarsi ad alcuni fattori di sviluppo utili a tutti, quali la ricerca, la formazione, l’assistenza tecnica, l’orientamento strategico. Scendendo nell’agone imprenditoriale con marchi e linee di prodotti socio-assistenziali e sanitari risultava inevitabile porsi come competitor più che come aggregatori strategici di altre realtà.

Come avresti potuto garantire il mantenimento di un approccio a partire dalle idee originarie?

FS. Non lo so esattamente. La verità è che le idee innovative d’impresa riescono in genere a svilupparsi se chi ne interpreta, o individualmente o come piccolo gruppo, l’ipotesi originaria resta insediato in posizione di leadership e procede continuamente alla manutenzione, all’adattamento e alla messa a punto del modello in un contesto che cambia. Forse avremmo dovuto insistere di più sul consolidamento istituzionale, quello che consente il passaggio di testimone senza virate improvvise (come accade in certe organizzazioni che potrebbero proseguire con il pilota automatico tanto è consolidato l’approccio). O forse era inevitabile seguire una nuova strada. Sarebbe interessante riflettere apertamente su tutto ciò. C’è da dire che fino a quando io mantenni congiuntamente la presidenza di Federsolidarietà e di Cgm le due organizzazioni risultarono perfettamente allineate. Quando in seguito, a reggere le due strutture non fu più una persona sola, emerse qualche incomprensione.

Se si smette di svolgere un ruolo super partes, viene meno la funzione di servizio, e si legittima l’ingresso di altri soggetti nell’arena in cui prima si era monopolisti, o quasi. È così?

FS. Accadde effettivamente questo. Alcune scelte politiche, come la decisione di acquisire e gestire direttamente alcune partite, fece venire meno il ruolo di Cgm come chiave di volta di un’architettura societaria inclusiva in grado di rappresentare la cooperazione sociale italiana, creando così i presupposti affinché altri si facessero avanti, come accadde per esempio con il Consorzio Nazionale Idee in Rete. Fu in realtà l’unico, ma creò un precedente. Si transitò verso un altro modello. E la logica non fu più quella di lavorare alla costruzione di un unico sistema di imprese, ma di diventare uno degli interlocutori possibili. Un decisivo cambio di strategia.

Hai qualche rimpianto? Come avresti cambiato la governance per gestire la seconda fase di sviluppo?

FS. Mi sembra importante sottolineare due questioni. La prima riguarda il tema della governance, l’altra quello di garantire la continuità delle risorse. Parto da quest’ultima: assicurare un flusso di risorse attraverso la capillarità delle cooperative di base ai consorzi locali e poi, su, fino al terzo livello, si rivelò oggettivamente un problema. Già le cooperative dovevano pagare la quota associativa a Federsolidarietà, difficilmente avrebbero potuto reggere da sole un impianto come quello del consorzio nazionale. In una prima fase, ci fu quello che io chiamai il “club degli amici di Cgm”, rappresentato da chi lavorava gratis come me e Carlo. Ciò permise a Cgm di esistere ancora prima di avere una base sociale e finanziaria su cui poter contare.

CB. Questo poteva funzionare in una fase di start-up, non certo in uno stadio successivo, quello della maturità. A quel punto si trattava di capire se il modello iniziale potesse essere in qualche modo gestito con un sistema dove, da un lato vi erano consorzi locali bisognosi di supporto, e dall’altro consorzi più robusti sui quali poter contare e con i quali poter costruire alleanze. E qui si arriva al punto nodale della governance: al di fuori delle cooperative di base, il voto capitario non funziona più. Dal secondo livello in poi si diventa una rete di imprese, e applicando il principio di una testa un voto si rischia di rimanere ostaggi dei piccoli e dei più bisognosi, in quanto sono in maggior numero. Nella rete Cgm avremmo dovuto dare ai soci un peso diverso in base a differenti parametri come l’entità contributiva, la dimensione, seguendo un meccanismo per cui il consorzio non risultasse frenato dai piccoli. Il voto capitario a livelli superiori non funziona: sicuramente per il terzo grado, ma non va bene neppure per i consorzi provinciali. Dirò di più: nemmeno in alcune cooperative di base funziona, quando i soci non sono persone fisiche ma imprenditori. Penso alle cooperative agricole che rischiano di essere prigioniere dei tanti soci part-time.

In quale caso potevano nascere altri problemi di governance?

CB. Proporsi come centro d’integrazione significava mediare tra alcune asimmetrie molto pronunciate fra consorzi. E qui avremmo dovuto optare per il sistema duale, che risulta molto utile quando la base si allarga in modo significativo ed emergono tratti di disomogeneità. Questo approccio permette di tenere molto stretto il livello gestionale, di avere un reale controllo sull’operato del management, visto che normalmente i soci non sono assolutamente in grado di fare delle valutazioni in assemblea.

Puoi spiegare meglio? Che cosa intendi per modello duale?

CB. Il duale serve quando si ha una molteplicità di soggetti con interessi diversi. In tal caso l’assemblea non è più sufficiente, diventa una sorta di “parco buoi”. S’introduce perciò un organo intermedio che svolga stabilmente e continuativamente quella che è la funzione normale dell’assemblea, di controllo sull’organo esecutivo, all’interno del quale è possibile far rientrare anche altri interessi, per esempio quelli dei lavoratori, assicurando loro una rappresentanza. Il duale sarebbe la soluzione di governance migliore non solo per le cooperative sociali, ma per tutta la cooperazione. Se le cooperative crescendo di dimensione avessero adottato il sistema duale, avrebbero commesso molti meno errori. Altrimenti si rischia la deriva della dissociazione tra proprietà e controllo, dove si ha una gestione puramente manageriale, senza nessun tipo di reale controllo. Ma è difficile far passare questo principio e convincere i cooperatori sulla necessità di adottarlo. Anche noi all’epoca non avevamo le idee molto chiare. Il nostro è stato un processo di approfondimento avvenuto sul campo.

In conclusione, l’esperienza storica di Cgm può insegnare qualcosa al sistema Italia e alle sue imprese?

FS. Oggi tutti parlano di innovazione e sviluppo delle risorse umane: ma continuo ad essere convinto che senza una struttura propria di Ricerca & Sviluppo e di formazione è difficile riuscire ad essere delle realtà leader in modo permanente. È su questo che puntammo all’epoca. Pensiamo al Centro Studi di Cgm e all’influenza orientante che ha generato. Sono convinto che se il sistema delle Banche di credito cooperativo avesse investito seriamente su di un centro studi, oggi non saremmo qui a piangere sul latte versato di una riforma subita e improntata ad una visione anticooperativa. Il punto è che molto spesso si fa solo della retorica sull’innovazione, anziché investire seriamente su Ricerca & Sviluppo. Questo vale più in generale a livello di sistema Italia e non solo all’interno del movimento cooperativo. Quanto a noi della prima ora di Cgm, ci siamo spesso trovati a fare le nozze con i fichi secchi, perché ci è sempre mancato l’investitore istituzionale, ma non abbiamo mai rinunciato alla sfida di costruire una argomentata e strumentata leadership orientante di pensiero e di visione. Avessimo avuto anche una base stabile di finanziamento per sostenere Ricerca & Sviluppo, formazione e attività di orientamento strategico e assistenza, la storia, forse, avrebbe potuto essere diversa. O forse è vero che a fronte di un cambiamento di contesto fu opportuno cambiare strategia. Ripeto, approfondire in modo sereno e informato queste questioni potrebbe aiutare il futuro della cooperazione sociale e, perché no, anche quello di Cgm, che resta il più entusiasmante progetto della mia vita di cooperatore.

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