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ISSN 2282-1694
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Saggi

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Imprese di comunità e riconoscimento giuridico

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Struttura e performance delle cooperative italiane

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I big players del settore socio-assistenziale

Andrea Bernardoni, Antonio Picciotti

Le startup salveranno il mondo?

Gianluca Salvatori

Recensioni

Il terzo pilastro

Carlo Borzaga

Numero 13 / 2019

Saggi brevi

I big players del settore socio-assistenziale: trasformazioni in corso

Andrea Bernardoni, Antonio Picciotti

Abstract

Dagli anni Settanta ad oggi, all’interno di un ampio percorso di riforma del sistema di welfare del nostro Paese, sono nate e si sono evolute le cooperative sociali. Dopo decenni in cui la collaborazione tra amministrazioni pubbliche e questo modello imprenditoriale aveva favorito l’innovazione dei servizi di welfare, le logiche collaborative sono sostituite da quelle competitive; si diffonde l’utilizzo delle gare di appalto quale strumento regolatore del mercato, aumenta la pressione da parte delle amministrazioni pubbliche sul lato dei costi, si realizzano politiche volte a favorire la concorrenza tra i soggetti erogatori dei servizi socio-assistenziali. Il presente lavoro intende analizzare gli effetti di tali trasformazioni sul tessuto imprenditoriale operante nel settore socio-assistenziale. Per questa ragione saranno identificate le principali imprese del settore cercando di definire, attraverso l’analisi della loro dinamica demografica e delle loro caratteristiche economiche, i percorsi competitivi che negli ultimi decenni hanno caratterizzato il mercato dei servizi socio-assistenziali.

DOI: 10.7425/IS.2019.13.04

Introduzione

Dagli anni Settanta ad oggi il settore dei servizi socio-assistenziali ha subito profonde trasformazioni, collegate all’evoluzione delle politiche di welfare e del contesto culturale, sociale ed economico del Paese. All’interno di un ampio percorso di riforma del sistema di welfare, in questo periodo, sono nate e si sono evolute le cooperative sociali, organizzazioni in cui lavoratori, volontari e utenti esercitano l’attività d’impresa non per il profitto ma per perseguire il benessere generale (Borzaga, Ianes, 2006).

Negli anni Duemila, dopo decenni in cui la collaborazione tra amministrazioni pubbliche e cooperative sociali aveva favorito l’innovazione di una parte importante dei servizi di welfare, le logiche collaborative vengono rapidamente sostituite da quelle competitive. Si diffonde l’utilizzo delle gare di appalto quale strumento regolatore del mercato, aumenta la pressione da parte delle amministrazioni pubbliche sul lato dei costi e, in modo più generale, si realizzano politiche volte a favorire la concorrenza tra i soggetti erogatori dei servizi socio-assistenziali (Fazzi, Longhi, 2009).

Il presente lavoro intende analizzare gli effetti di tali trasformazioni sul tessuto imprenditoriale operante nel settore socio-assistenziale. Per questa ragione saranno identificate le principali imprese del settore cercando di definire, attraverso l’analisi della loro dinamica demografica e delle loro caratteristiche economiche, i percorsi competitivi che negli ultimi decenni hanno caratterizzato il mercato dei servizi socio-assistenziali.

L’articolo presenta la seguente struttura: nel prossimo paragrafo vengono delineate le determinanti e definite le principali tappe che hanno condotto all’affermazione di una logica competitiva nel settore dei servizi socio-assistenziali. Nel paragrafo successivo viene descritta la metodologia di indagine utilizzata per identificare le principali imprese operanti in questo settore mentre a seguire sono esposti e discussi i risultati che emergono dalla ricerca. In conclusione vengono proposte alcune possibili indicazioni di policy.

Dalla collaborazione alla competizione

Negli ultimi decenni il settore socio-assistenziale in Italia ha evidenziato una particolare dinamicità. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso si è aperta una stagione di riforme del sistema di welfare volte a riconoscere i diritti alla cura e all’assistenza della parte più debole della popolazione, introducendo nuovi servizi sociali ed innovando quelli esistenti. Nel 1971 vengono istituiti i primi asili nido comunali, nel 1978 la riforma sanitaria porta alla soppressione del sistema delle mutue ereditato dal fascismo e alla costituzione del Sistema sanitario nazionale (Ascoli, 2011). Nello stesso anno, il 13 maggio, viene approvata la legge 180, la legge che ha determinato il superamento e l’apertura dei manicomi, ha regolamento il trattamento sanitario obbligatorio ed ha ridefinito finalità e modalità organizzative dei servizi psichiatrici (Foot, 2014).

In questo contesto istituzionale, caratterizzato dall’ampliamento dei diritti, le prime cooperative sociali furono un importante elemento di innovazione che contribuì ad accrescere i diritti di fasce della popolazione particolarmente deboli come ad esempio le persone con disturbi psichici. Le cooperative sociali ebbero un ruolo importante nei processi di apertura dei manicomi, nella costruzione della rete dei servizi territoriali, nello sviluppo dei servizi di assistenza domiciliare e nella sperimentazione dei primi percorsi di inserimento lavorativo per le persone che sino a quel momento erano rimaste per anni chiuse in servizi istituzionalizzanti (Bernardoni, Picciotti, 2017).

Negli anni Ottanta in molte regioni del Paese inizia a formarsi un mercato dei servizi socio-assistenziali caratterizzato da una forte collaborazione tra settore pubblico e cooperative sociali. Attori pubblici e cooperative condividono valori e obiettivi. In questo periodo i confini tra pubblico e privato sono spesso allentati da una comune tensione verso il cambiamento sociale e l’estensione dei diritti di cittadinanza sociale (Bernardoni et al., 2012). Per tutti gli anni Ottanta, sino alla metà degli anni Novanta, la procedura più diffusa per l’esternalizzazione dei servizi è quella dell’affidamento diretto. In questo contesto le cooperative sociali sono divenute il principale interlocutore delle pubbliche amministrazioni nell’erogazione e nella progettazione degli interventi sociali.

Dalla metà degli anni Novanta si inizia a diffondere il sistema delle gare di appalto che viene progressivamente utilizzato in alternativa agli affidamenti diretti, uno strumento che genera un incremento della burocratizzazione e della formalizzazione dei servizi, fino a diventare il mezzo utilizzato dagli attori pubblici per esercitare il potere di regolazione del mercato e di programmazione degli interventi sociali.

A partire dagli anni Duemila le logiche collaborative vengono rapidamente sostituite da quelle competitive (Ascoli, Ranci, 2003). In questo nuovo contesto si riduce la possibilità di stipulare relazioni di lungo periodo tra attori pubblici e soggetti privati gestori dei servizi sociali e si orienta il sistema di governo del settore verso forme di contrattazione ripetuta (Cafaggi, 2002).

Questa tendenza subisce una forte accelerazione dopo il 2010 quando, in seguito alla crisi della finanza pubblica, si riducono le risorse destinate ai principali programmi di welfare (Censis, 2015), vengono introdotti processi di revisione della spesa sanitaria e sono azzerati i principali fondi nazionali che finanziano le politiche sociali. In questo periodo, in molte aree del Paese, le gare di appalto divengono lo strumento ordinario per la regolazione del mercato a cui sono affiancate, in alcune regioni, i processi di accreditamento di alcune specifiche tipologie di servizi. In questi anni, la co-progettazione, prevista dalla legge 328 del 2000, viene utilizzata solo marginalmente dalle amministrazioni pubbliche. La pratica della collaborazione tra attori pubblici e cooperative sociali è sostituita, in definitiva, dalla concorrenza tra i diversi soggetti privati erogatori.

Negli anni Duemila, infine, il personale tecnico assume un ruolo sempre più rilevante nelle amministrazioni pubbliche, cresce la spinta alla standardizzazione dei servizi, aumenta la dimensione media delle gare di appalto e, con la diffusione dei servizi accreditati, si riduce il livello di flessibilità della rete dei servizi.

Questa evoluzione del mercato dei servizi socio-assistenziali genera conseguenze significative sugli assetti dimensionali e sui comportamenti strategici delle cooperative sociali. In particolare, è possibile ritenere che le dinamiche appena delineate abbiano favorito la crescita dimensionale di queste imprese? Inoltre, in termini di modelli istituzionali, tali cambiamenti hanno contribuito a rafforzare la presenza delle cooperative sociali che, tradizionalmente, presidiano questo mercato o hanno, invece, generato le condizioni per l’affermazione di imprese con assetti differenti, come ad esempio le società di capitali? Sono queste le domande a cui la ricerca empirica condotta tenta di fornire risposte.

Metodologia

L’indagine condotta rappresenta il risultato di un lungo percorso di acquisizione e di elaborazione di dati avviato nel 2010, che ha permesso la costruzione di una banca dati contenente le informazioni relative alle imprese di maggiori dimensioni presenti, a livello nazionale, nel settore dei servizi socio-assistenziali.

Le fonti dati utilizzate per acquisire queste informazioni sono state Aida e Amadeus, di Bureau Van Dijk, le quali pubblicano i dati di bilancio delle principali società di capitali ed imprese cooperative operanti, rispettivamente, in Italia e in Europa. Partendo da tali fonti, sono state estratte, ad intervalli di tempo diversi (nel 2010, nel 2014 e nel 2017) le informazioni relative alle imprese che presentavano le seguenti caratteristiche:

  • attività esclusiva o prevalente nell’ambito del settore dei servizi socio-assistenziali. A tal fine, sono state considerate le imprese la cui attività economica era corrispondente ai codici 87 (Assistenza sociale residenziale) e 88 (Assistenza sociale non residenziale) della classificazione Ateco 2007;
  • dimensione elevata in termini di fatturato. In base a questo secondo criterio di identificazione, sono state incluse nella banca dati le imprese con un valore della produzione superiore ai 10 milioni di euro. La scelta di questa soglia può ritenersi rappresentativa. Potevano essere utilizzati, infatti, anche valori più elevati (come 20, 25 o 50 milioni di euro) ma si è optato per questo “limite minimo” in quanto corrispondente alla circostanza in cui, generalmente, avvengono nelle imprese i maggiori cambiamenti di natura strategica ed organizzativa (Varaldo et al., 2009; Alzona, 2007; Coltorti, 2004).

La consultazione dei dati è avvenuta, come appena evidenziato, in periodi di tempo diversi e questo approccio ha permesso di estendere l’arco temporale oggetto di analisi. In particolare, considerando che i bilanci disponibili nelle banche dati sono relativi ad un periodo massimo di dieci anni rispetto alla data di osservazione, la molteplicità dei download ha consentito di ottenere una serie storica particolarmente estesa che, ad intervalli regolari di quattro anni, parte dal 2000 e giunge al 2016. È questo, presumibilmente, l’elemento di maggiore originalità della banca dati costruita: quella di essere stata realizzata ed ampliata nel corso del tempo, secondo un approccio metodologico omogeneo, per arrivare a contenere informazioni che, almeno in parte, ad oggi, non sono più disponibili.

Ad ogni osservazione effettuata, i dati ottenuti sono stati oggetto, inoltre, di diverse attività di selezione e di ripulitura. In primo luogo, sono state considerate soltanto le imprese attive, eliminando quelle cessate (per effettuo di fusioni), quelle che erano in liquidazione o sottoposte a procedure concorsuali e quelle che presentavano uno stato di insolvenza. In secondo luogo, sono state escluse le imprese che, pur assumendo un assetto di governance di tipo privatistico (società di capitali o consorzio), erano controllate da soggetti pubblici. In terzo luogo, sono state eliminate le imprese che presentavano dati incompleti. Sotto questo aspetto è necessario specificare che è stata effettuata la cancellazione di quelle imprese che, pur avendo una data di costituzione anteriore al periodo di osservazione, erano caratterizzate da una serie storica sostanzialmente assente. Nel caso in cui, invece, il valore mancante era singolo, si è proceduto alla sua determinazione attraverso un’interpolazione lineare.

Infine, per le imprese appartenenti a gruppi aziendali, sono stati considerati, qualora presenti, sia i dati riferiti alla capogruppo, sia quelli relativi alle singole controllate. Questa scelta potrebbe sembrare controversa in quanto tendente a sovrastimare il fenomeno ma può ritenersi corretta dal punto di vista metodologico per un duplice ordine di motivi. Da un lato, la necessità di considerare l’impresa capogruppo appare evidente soprattutto nel momento in cui anch’essa svolga, in modo autonomo e separato rispetto alle controllate, attività di erogazione di servizi socio-assistenziali. Dall’altro lato, questo approccio è coerente con le finalità del lavoro che intende rilevare la consistenza effettiva delle grandi imprese. In altri termini, la logica alla base dell’indagine è di tipo economico, volta ad individuare la numerosità delle imprese di maggiori dimensioni e non di tipo finanziario, diretta ad identificare, invece, le partecipazioni attive e, di conseguenza, l’esistenza di gruppi aziendali.

Sulla base di questa impostazione metodologica, vengono di seguito esposti i risultati ottenuti, evidenziando sia la numerosità e la dinamica dei big players, distinguendo in base al modello istituzionale d’impresa che viene assunto (cooperativa sociale, società di capitale o consorzio) e alla loro localizzazione geografica, sia il loro profilo e le loro performance economico-finanziarie.

I risultati della ricerca

L’emergere dei big players

Considerando l’entità strutturale del fenomeno, ossia la numerosità assoluta delle principali imprese operanti nel settore socio-assistenziale, l’aspetto di maggior rilievo è costituito da una netta tendenza alla crescita: nel 2016, queste imprese erano 183 rispetto alle 31 del 2000 (Tabella 1), con un incremento medio anno di oltre il 30% (Tabella 3).

Tabella 1. La numerosità dei big players per tipologia di impresa. Fonte: elaborazione degli autori su dati Bureau Van Dijk

In termini di composizione percentuale, le cooperative sociali rappresentano il modello d’impresa maggiormente diffuso (123 imprese, pari ad oltre il 67% del totale), anche se questa incidenza tende a diminuire nel periodo considerato (erano 26 nel 2000, corrispondenti a quasi l’84% del totale). Contrariamente a questo andamento, i consorzi e le società di capitali denotano un aumento della loro rilevanza: i primi rappresentano il 18% delle imprese, a fronte di un’incidenza iniziale del 9,7%, mentre le seconde costituiscono circa il 15% delle imprese, rispetto ad un peso iniziale del 6,5%. In dettaglio, la situazione appare alquanto eterogenea e variabile nel corso del tempo. Le cooperative sociali mostrano dinamiche e risultati alterni: da una crescita costante registrata nei primi anni della serie storica analizzata (+20 unità nel 2004 e +22 unità nel 2008), queste imprese manifestano una significativa flessione nel 2012, in cui il loro aumento è pari a quello delle società di capitali (+9 unità), che viene però ampiamente compensata dal forte incremento presentato nel 2016 (+46 unità). I consorzi denotano un andamento analogo, con una crescita elevata che emerge nell’ultimo periodo considerato (+16 unità nel 2016) mentre le società di capitali evidenziano una tendenza più regolare, con variazioni maggiori che possono essere rilevate soprattutto negli anni intermedi della serie storica (+9 unità nel 2008 e nel 2012).

Partendo da questi dati, può essere avanzato almeno un duplice ordine di considerazioni. Da un lato, l’aumento del numero assoluto dei big players comprova come il settore dei servizi socio-assistenziali sia stato caratterizzato, nel corso degli ultimi anni, da un significativo processo di riorganizzazione, in cui la “questione dimensionale” sembra aver assunto un ruolo di particolare rilievo. Si tratta, presumibilmente, di un cambiamento nel modo di essere presenti e di operare sul mercato che richiede l’attivazione di strategie di crescita che vengono perseguite sia per vie interne (attraverso la crescita dimensionale di imprese preesistenti o l’ingresso di nuove imprese che già assumono una dimensione elevata), sia per vie esterne (tramite la stipulazione di accordi di collaborazione con altre imprese, come nel caso delle aggregazioni consortili tra cooperative sociali). Dall’altro lato, in termini di affermazione dei diversi modelli istituzionali di impresa, le cooperative sociali continuano a rappresentare i principali attori del settore socio-assistenziale, con un’evidente tendenza alla crescita dimensionale che premia le imprese con migliori capacità di adattamento alle crescenti pressioni competitive. È tuttavia il ruolo assunto dalle società di capitale che potrebbe rappresentare l’indizio di un possibile processo di trasformazione in atto del settore. Si tratterebbe, infatti, dell’affermazione di una nuova logica competitiva: le condizioni di sviluppo del settore socio-assistenziale rendono lo stesso attrattivo per nuovi modelli istituzionali d’impresa che, apportando nuove logiche di efficienza e differenti modelli di organizzazione e di gestione dei servizi potrebbero innescare, in futuro, significative dinamiche di cambiamento.

L’analisi della distribuzione geografica dei big players (Tabella 2), la loro variazione e la loro densità (Tabella 3) permettono di comprendere ulteriori caratteristiche di queste trasformazioni del settore dei servizi socio-assistenziali.

Tabella 2. La distribuzione geografica dei big players nel 2016 per tipologia d’impresa. Fonte: elaborazione degli autori su dati Bureau Van Dijk

In primo luogo, la diffusione e la numerosità delle imprese per localizzazione geografica delle sedi legali conferma la presenza di rilevanti squilibri territoriali. Alcuni studi hanno messo in evidenza come la spesa sociale pro-capite, la struttura demografica della popolazione e la propensione cooperativa hanno un significativo livello di correlazione con il peso economico delle cooperative sociali nelle diverse regioni del paese, contribuendo all’affermazione di veri e propri modelli di sviluppo della cooperazione sociale su base regionale (Picciotti et al., 2014). L’analisi della composizione geografica delle imprese di maggiori dimensioni mostra come, in un sistema dei servizi sociali fortemente regionalizzato, la presenza di un “consistente” mercato interno regionale, rappresenti uno degli elementi che favorisce l’affermazione di imprese di maggiori dimensioni. La configurazione autonoma assunta dai singoli mercati e l’azione di specifici fattori sociali ed istituzionali appare inoltre evidente dai valori assunti dalla densità demografica (indicante quanti big players sono presenti ogni 1.000 imprese operanti nei settori dell’assistenza sociale residenziale e non residenziale nel 2015). Questo dato evidenzia l’esistenza di scelte e di percorsi estremamente eterogenei: alcune realtà regionali, indipendentemente dalla loro dimensione, rappresentano contesti favorevoli per lo sviluppo dei big players; altre regioni, pur costituendo mercati rilevanti, hanno generato condizioni di maggiore equilibrio; altre regioni ancora, di dimensioni demografiche contenute, pur avendo un importante sistema di servizi sociali ed un consistente peso economico delle cooperative sociali, non esprimono un elevato numero di big players.

Tabella 3. La variazione e la densità dei big players per regione. Fonte: elaborazione degli autori su dati Bureau Van Dijk e Istat

In secondo luogo, anche considerando la dinamica temporale, si configurano due distinti scenari: da un lato, quello delle regioni fortemente orientate allo sviluppo delle imprese di maggiori dimensioni, corrispondente all’area settentrionale del paese e, dall’altro lato, il gruppo delle regioni, generalmente del centro e del sud Italia, in cui il fenomeno dei big players non ha ancora trovato un’elevata diffusione. Considerando congiuntamente questo dato con quello della densità, possono essere identificate ulteriori specificità. Le regioni con una dinamica più accentuata, in cui emergono circa due big players ogni tre anni, come la Lombardia e il Lazio, sono anche quelle che presentano condizioni di minore concentrazione settoriale, determinate, con ogni probabilità, dall’elevato numero di imprese esistenti nei territori regionali e dalla vivacità del loro tessuto imprenditoriale. Altre regioni, come il Friuli-Venezia Giulia, sembrano assecondare questo fenomeno mentre per altre, come l’Emilia Romagna, l’elevata diffusione dei big players rappresenta il risultato di un percorso avviato in passato. Per le regioni rimanenti, tassi di crescita e densità si attestano su valori e configurano situazioni intermedie.

Infine, considerando i diversi modelli istituzionali d’impresa, emerge il ruolo di alcune regioni che si presentano come contesti in grado di supportare lo start-up e la crescita delle imprese del settore socio-assistenziale. In particolare, tra le regioni in cui la cooperazione sociale presenta un’elevata diffusione e una tradizione consolidata nel tempo, spicca la situazione della Lombardia in cui risulta particolarmente evidente la numerosità assoluta delle società di capitali. Questi dati mostrano, quindi, il possibile ruolo delle politiche pubbliche nell’incentivare non solo la costituzione e lo sviluppo delle imprese ma anche i diversi modelli di organizzazione regionale dei servizi socio-assistenziali.

Le performance economico-patrimoniali

L’identificazione delle performance economiche e patrimoniali delle principali imprese che operano nel settore assistenziale costituisce la seconda direttrice di ricerca empirica e può contribuire a cogliere ulteriormente le trasformazioni in atto nel settore, in termini soprattutto di condotta strategica e di modelli organizzativi adottati. A tal fine, vengono identificate le performance di queste imprese attraverso l’elaborazione di alcuni indicatori di natura economica (valore della produzione aggregato e medio, incidenza del costo del lavoro, degli acquisti e andamento della redditività aziendale) e di natura patrimoniale (incidenza delle immobilizzazioni e livello di capitalizzazione).

Considerando il valore della produzione, si nota che le imprese aumentano, nel corso del periodo considerato, le loro dimensioni economiche. Il valore medio di tale indicatore passa da 17,2 milioni di euro nel 2000, ad oltre 29 milioni di euro del 2016, evidenziando come il settore socio-assistenziale sia stato caratterizzato non solo da una crescita numerica ma anche dimensionale dei big players.

Tabella 4 Il profilo economico-finanziario dei big players. Fonte: elaborazione degli autori su dati Bureau Van Dijk

In termini di modelli istituzionali di impresa, emergono risultati differenziati. Le cooperative sociali generano, nel 2016, larga parte del valore della produzione complessivo (il 67%). Tuttavia, in termini dinamici, tali soggetti, pur mostrando un aumento del valore della produzione medio, presentano una diminuzione del loro peso economico (che, nel 2000, era dell’82,8%). D’altro canto, le società di capitali rappresentano, nel 2016, il 20% del valore della produzione delle imprese di maggiori dimensioni. Sotto l’aspetto dinamico, tali imprese denotano una crescita elevata sia del loro valore della produzione medio che, nel 2016, risulta essere più elevato di oltre 10 milioni di euro rispetto a quello delle cooperative sociali, sia della loro incidenza percentuale che, nel 2000, era del 9,3%. In definitiva, è possibile sostenere che larga parte del valore della produzione dei big players del settore socio-assistenziale è generato dalle cooperative sociali, che le società di capitali stanno progressivamente aumentando la loro presenza ed il loro peso economico e, infine, che le cooperative sociali, al fine di fronteggiare tali cambiamenti, stanno attivando strategie competitive basate sul loro sviluppo dimensionale.

Nell’ambito dell’analisi delle performance economiche, l’approfondimento relativo ad alcune voci di costo può contribuire a comprendere gli specifici modelli organizzativi adottati dalle principali imprese del settore socio-assistenziale. Tra questi, il costo del lavoro rappresenta la maggiore voce di costo per le cooperative sociali in quanto costituisce, nel 2016, il 64,2% del valore della produzione. Le società di capitali mostrano, invece, un’incidenza inferiore che si attesta, nello stesso anno, al 25,8%. Questo primo dato evidenzia che le cooperative sociali tendono ad assumere configurazioni organizzative maggiormente labour intensive, determinate sia dalla tipologia dei servizi offerti (presenza di servizi che richiedono un maggior impiego di addetti, come nel caso dei servizi assistenziali a domicilio), sia specifiche modalità di organizzazione del lavoro che, rispetto alle società di capitali, potrebbero prevedere un minor ricorso a politiche di esternalizzazione dei servizi. Sotto l’aspetto dinamico, invece, il costo del lavoro per le cooperative sociali tende ad incidere in misura decrescente sul valore della produzione. Ciò potrebbe rappresentare il risultato delle politiche di riorganizzazione che queste imprese stanno attualmente perseguendo. In altri termini, le cooperative sociali, al fine di fronteggiare le dinamiche competitive del settore socio-assistenziale, stanno agendo soprattutto su tale voce di costo per aumentare la loro competitività, mediante la razionalizzazione delle strutture di costo (con l’adozione di strumenti interni di controllo gestione e la riduzione dei costi di struttura) e, soprattutto, attraverso il cambiamento dei modelli di offerta dei servizi (con la modifica della tipologia e/o del mix dei servizi, sempre più orientati verso servizi di tipo labour saving).

Collegato a questo aspetto, vi è sicuramente il discorso della redditività. Dai dati esposti, le condizioni dei big players subiscono un marcato peggioramento nel corso degli anni, con un’incidenza del risultato ante-imposte sul valore della produzione che, sostanzialmente, si dimezza nel periodo considerato (dal 4,5% del 2000 al 2,3% del 2016). Questa tendenza negativa colpisce in modo generalizzato tutte le tipologie di impresa: la redditività delle cooperative sociali si abbassa a meno di un terzo rispetto a quella del 2000 mentre quella delle società di capitali, pur rimanendo più elevata, subisce una drastica riduzione (dal 9,3% del 2000 al 5,9% del 2016). In sintesi, se da un lato è possibile affermare che la redditività delle maggiori imprese operanti nel settore socio-assistenziale tenda a ridursi, dall’altro lato, può essere evidenziato come, a parità dimensionale, le società di capitali riescano a conseguire performance più elevate, a testimonianza, presumibilmente, dei maggiori livelli di efficienza operativa e delle differenti tipologie di servizi offerti.

Un discorso analogo può essere effettuato per l’aspetto patrimoniale e, in particolare, per l’entità e l’andamento delle immobilizzazioni. Questa voce di bilancio tende generalmente ad aumentare nel periodo considerato. Tuttavia, considerando i differenti modelli istituzionali di impresa, è possibile registrare degli andamenti contrastanti in quanto diminuiscono gli investimenti delle società di capitali mentre crescono quelli delle cooperative sociali. Anche a fronte di questo progressivo avvicinamento, il gap tra i due modelli istituzionali di impresa resta consistente. Le società di capitali, infatti, mostrano un’incidenza delle immobilizzazioni sul capitale investito pari, nel 2016, al 62,3% mentre le cooperative sociali evidenziano un valore di tale indicatore, nel medesimo anno, pari al 30,2%. Questo divario è sicuramente riconducibile al modello di specializzazione dei servizi offerti che, nel caso delle cooperative si configura, come osservato in precedenza, essenzialmente labour intensive, ossia con una prevalenza di quelli ad elevata intensità di lavoro., La mancata attuazione di adeguate politiche di investimento da parte di queste imprese rispetto alle società di capitali potrebbe generare, in futuro, problematiche di ordine strategico nell’attività di riorganizzazione dei servizi offerti. Inoltre, in un’ottica di consolidamento e di co-evoluzione delle relazioni con gli stessi committenti pubblici, caratterizzate dalla diminuzione delle risorse finanziarie destinate ai servizi socio-assistenziali e dall’aumento della domanda proveniente dai territori, le politiche di investimento in immobilizzazioni potrebbero costituire il presupposto per attivare strategie di lock-in nei confronti degli enti locali. In altri termini, la realizzazione di investimenti specifici nelle relazioni pubblico-privato potrebbe rappresentare la chiave strategica in grado di trasformare il ruolo delle cooperative sociali: da uno stato attuale che rischia di diventare quello di “semplice fornitori” di servizi, ossia di gestione degli stessi mediante la fornitura all’ente pubblico di personale specializzato, le cooperative sociali potrebbero rinnovare la loro prerogativa di “partner strategici”, ovvero di attori con un’elevata capacità di proposta e in grado di implementare sistemi completi di offerta che includano anche la disponibilità e la gestione di strutture destinate all’erogazione stessa dei servizi.

Infine, possono essere rilevati delle differenze sostanziali anche in termini di capitalizzazione, intesa come incidenza del capitale netto sul capitale investito. Questo indicatore risulta essere, nel 2016, più elevato per le società di capitali (33,5%) rispetto alle cooperative sociali (21,7%). Inoltre, sotto l’aspetto dinamico, mentre le società di capitali riescono ad incrementare il loro patrimonio, le cooperative sociali denotano, nel periodo considerato, una sostanziale stabilità. Questo dato conferma, pertanto, le possibili difficoltà che, in un’ottica patrimoniale, le cooperative sociali potrebbero incontrare nei loro percorsi di riorganizzazione strategica ed organizzativa ed evidenzia, in modo ulteriore, l’estrema dinamicità e i risultati positivi conseguiti dalle società di capitali che hanno deciso di entrare ed operare nel settore dei servizi socio-assistenziali.

Un focus sulle imprese capitalistiche

Per le dinamiche appena esposte, ovvero per il ruolo che le società di capitali stanno progressivamente assumendo in questo settore, viene infine proposto, in questa sezione, un focus su questa tipologia d’impresa, analizzando il loro assetto proprietario. La motivazione di un simile approfondimento è riconducibile al fatto che non è rilevante stabilire quante e quali imprese questi big players controllano (partecipazioni attive) in quanto, come specificato nella parte metodologica, la logica di indagine è di tipo economico. Potrebbe essere interessante, invece, conoscere da chi questi big players sono controllati (partecipazioni passive). Dato che le cooperative sociali non sono, per definizione, controllabili da soggetti esterni di natura pubblica o privata, questa indagine specifica si limita a verificare la situazione delle imprese capitalistiche, in modo da comprendere anche ulteriori possibili tendenze che stanno attualmente caratterizzando il settore dei servizi socio-assistenziali.

Tabella 5. L’assetto proprietario dei big players capitalistici. Fonte: elaborazione degli autori su dati Bureau Van Dijk

Considerando gli shareholders con partecipazioni superiori al 50%, i big players capitalistici possono essere distinti in base alla tipologia di controllo a cui sono assoggettati: diretto se la partecipazione di maggioranza è detenuta da una persona fisica o giuridica indipendente; indiretta se la controllante è a sua volta partecipata da altre imprese. Le imprese controllate in modo diretto da una persona fisica o giuridica nazionale sono sette, corrispondenti a circa il 32% del totale (escludendo dal numero complessivo le cinque per le quali non si hanno dati disponibili). Solo un’impresa, invece, è controllata direttamente da una società estera. In questo caso, la società controllante e Korian, un’impresa francese, leader europea nella gestione di residenze per anziani che, in base alle informazioni diffuse dalla stessa azienda, è presente in sei paesi, con 53 mila dipendenti, 850 strutture e 81 mila posti letto. Korian, tra l’altro, controlla attraverso questa società anche quattro delle otto imprese appartenenti alla categoria “gruppo a controllo estero” (CGE), gestendo quindi, in modo diretto o indiretto, circa il 23% dei big players capitalistici. Le altre quattro imprese di questo raggruppamento sono controllate indirettamente da ulteriori imprese francesi. Infine, i big players appartenenti alla categoria “gruppi a controllo nazionale” (GCN) sono sei e rappresentano il 27% delle società di capitali. Di queste, due sono controllate da KOS, società operante nel settore del long-term care, costituita e controllata a sua volta da CIR e che, in base alle informazioni rese pubbliche dall’azienda, oltre ad aver avviato strategie di crescita all’estero, attraverso l’acquisizione di altre imprese operanti nel settore dei servizi socio-assistenziali, occupa 4.200 dipendenti, gestisce 86 strutture tra residenze per anziani, ospedali e centri di riabilitazione ed è presente con le proprie strutture e le proprie attività in undici regioni italiane.

In definitiva, l’ingresso delle società di capitali, se in passato poteva essere considerato un elemento di forte novità, attualmente, vista la crescita che queste realtà hanno registrato, rappresenta un’evidenza dei profondi cambiamenti che stanno avvenendo nell’organizzazione dei servizi e nelle logiche competitive del settore dei servizi socio-assistenziali.

Indicazioni di policy

A partire dagli anni Duemila le amministrazioni pubbliche hanno realizzato, nell’ambito del settore socio-assistenziale, politiche volte a promuovere la standardizzazione dei servizi e l’aumento del livello di concorrenza tra gli operatori. Il lavoro di ricerca ha dimostrato che queste scelte hanno favorito: la crescita numerica e dimensionale dei big players, la maggiore presenza delle società di capitali in questo mercato e l’apertura del settore alla concorrenza internazionale.

Crescita numerica e dimensionale dei big players. Le imprese censite sono passate, infatti, dalle 31 unità nel 2000 alle 183 unità nel 2016, con un valore della produzione medio che è sensibilmente aumentato ed un valore della produzione aggregato che ha fatto registrare un incremento del 906% nel periodo 2000-2016 raggiungendo i 5,362 miliardi di euro.

Rilevanza delle società di capitali. L’analisi della composizione dei big players in base ai modelli istituzionali di impresa evidenzia come nel periodo preso in esame si sia verificato un forte incremento della presenza di società di capitali. Nel 2000, le società di capitali erano 2 e rappresentavano il 6,5% degli operatori mentre, nel 2016, avevano raggiunto le 27 unità, rappresentando il 14,8% delle imprese ed il 20% del valore della produzione aggregato.

Apertura alla concorrenza internazionale. La crescente apertura del mercato dei servizi socio-assistenziali alle società di capitali ha favorito l’ingresso ed il consolidamento, in Italia, di operatori stranieri che controllano società di capitali italiane.

Nei prossimi anni i policy maker dovranno decidere se continuare ad operare in continuità con quanto fatto negli anni Duemila o introdurre degli elementi di discontinuità nelle politiche di regolazione del settore socio-assistenziale.

Si ritiene che potrebbe essere utile effettuare un cambio di rotta: anziché continuare a puntare sulla competizione tra i soggetti erogatori, che sta favorendo il rafforzamento di grandi player nazionali, potrebbe essere vantaggioso tornare a sostenere lo sviluppo di rapporti collaborativi tra attori pubblici e soggetti privati. Piuttosto che continuare a favorire la standardizzazione dei servizi, potrebbe essere più utile investire nella personalizzazione degli stessi, in modo da renderli più rispondenti alle attese dei cittadini, integrati in filiere costruite partendo dalle biografie delle persone. Operando in questo modo si potrebbe contrastare la crescente tendenza ad istituzionalizzare servizi nati negli anni Settanta e Ottanta per superare le istituzioni totali come, ad esempio, quelle manicomiali (De Leonardis et al., 1994).

In questa prospettiva sarà importante dare piena applicazione l’Art 55 del Codice del Terzo settore in forza del quale le amministrazioni pubbliche, nell’esercizio delle proprie funzioni di programmazione degli interventi in una pluralità di settori, tra cui quello sociale, socio-sanitario e sanitario, devono assicurare il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore attraverso forme di co-programmazione, co-progettazione e accreditamento finalizzate alla definizione dei bisogni da soddisfare, degli interventi realizzabili per soddisfare tali bisogni e delle risorse disponibili.

In un più ampio processo di ridefinizione delle politiche di regolazione del settore potrebbe, inoltre, essere incentivata dai policy maker la ricerca delle economie di rete piuttosto che delle economie di scala. In settori ad alta intensità di lavoro, in cui il rapporto tra operatore e utente è spesso legato a standard fissi, le economie di scala producono risultati contenuti in termini di aumento della produttività e rischiano di determinare importanti esternalità negative dovute alla minore efficacia dei servizi che, anziché essere diffusi nel territorio, sono concentrati in alcuni grandi punti di erogazione.

Infine, potrebbe essere utile riflettere sulle conseguenze generate nel medio-lungo termine dalla crescente presenza nel settore socio-assistenziale di grandi players esteri che già oggi, attraverso società controllate, assumono il ruolo di leaders e che, in un settore stabile e caratterizzato da un basso livello di rischio, potrebbero essere incentivati ad adottare strategie di “pura estrazione” di valore economico dal mercato italiano dei servizi socio-assistenziali.

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