Sostienici! Rivista-Impresa-Sociale-Logo-Mini
Fondata da CGM / Edita e realizzata da Iris Network
ISSN 2282-1694
impresa-sociale-13-2019-imprese-di-comunita-e-riconoscimento-giuridico-e-davvero-necessaria-una-nuova-legge

Saggi

La scalabilità dei progetti di innovazione sociale

Fabrizio Montanari, Damiano Razzoli, Matteo Rinaldini

Imprese di comunità e riconoscimento giuridico

Jacopo Sforzi, Carlo Borzaga

Saggi brevi

Struttura e performance delle cooperative italiane

Manlio Calzaroni, Chiara Carini, Massimo Lori

I big players del settore socio-assistenziale

Andrea Bernardoni, Antonio Picciotti

Le startup salveranno il mondo?

Gianluca Salvatori

Recensioni

Il terzo pilastro

Carlo Borzaga

Numero 13 / 2019

Saggi

Imprese di comunità e riconoscimento giuridico: è davvero necessaria una nuova legge?

Jacopo Sforzi, Carlo Borzaga

Abstract

Le imprese di comunità stanno ricevendo sempre più attenzione da parte di ricercatori, operatori e policy maker ed è aumentato il dibattito sulla necessità di una legge che le riconosca. Ad oggi, sono ormai numerose le leggi e le proposte di legge regionali e nazionali al riguardo, ma nessuna sembra avere colto in modo convincente tutti gli elementi indispensabili per contraddistinguere queste imprese e garantire che operino realmente nell’interesse e a favore delle rispettive comunità locali. In generale si ha l’impressione che non si sia tenuto in considerazione che esistono già norme e forme giuridiche – anche più complete di quelle proposte o approvate a livello regionale – utilizzabili per creare e gestire imprese di comunità, come in particolare quella dell’impresa sociale recentemente riformata (D.Lgs. 112/2017). A partire da queste considerazioni, il presente lavoro si propone di riflettere criticamente sulla reale necessità di una legge specifica per le imprese di comunità o se, piuttosto, non sia sufficiente utilizzare le forme giuridiche esistenti, limitandosi semmai a intervenire con modifiche mirate. Nella convinzione che l’eccesso di norme non sia ciò che più serve allo sviluppo del settore e che anzi lo possa danneggiare creando inutili confusioni.

DOI: 10.7425/IS.2019.13.03

Introduzione

Le imprese di comunità sono un nuovo modello di organizzazione della produzione basato sull’iniziativa e sulla partecipazione diretta della società civile in attività di produzione di beni e servizi nell’interesse generale della comunità. Questo tipo di imprese sta riscuotendo sempre più visibilità grazie alle potenzialità che stanno dimostrando come nuovo strumento di sviluppo locale e attorno ad esse si sta intensificando il dibattito sulla necessità di una legge che le riconosca e dia uniformità al fenomeno a livello nazionale. Alcune regioni sono già intervenute, anche se con modalità diverse, con propri provvedimenti normativi per promuoverne lo sviluppo, anche attraverso la concessione di contributi a valere su fondi regionali. In alcune regioni (Puglia, Liguria, Abruzzo, Sardegna, Umbria e Sicilia) sono state approvate leggi specifiche, riconoscendo l’impresa di comunità come una qualifica che, a determinate condizioni, può essere applicata solamente alle diverse forme di impresa cooperativa già riconosciute dall’ordinamento. In altre (Emilia-Romagna, Lombardia, Basilicata, Toscana) questa qualifica è stata inserita in leggi regionali già esistenti sempre con riferimento alle sole imprese cooperative, con particolare riguardo alle cooperative sociali, enfatizzando ulteriormente il profilo “comunitario” che già caratterizza questa tipologia di impresa[1]. Queste iniziative regionali sono state seguite a livello nazionale da una proposta di legge sulle Cooperative di Comunità presentata alla Camera prima nel 2017 e poi, nuovamente, nel marzo 2018: proposte che vedono in questo tipo di imprese uno strumento capace di rilanciare lo spirito originario del movimento cooperativo.

Nonostante il crescente interesse e la spinta normativa, le leggi o proposte di legge approvate o depositate fino ad oggi non sono riuscite a evidenziare in modo sufficientemente chiaro, convincente e condiviso quali devono essere gli elementi indispensabili – tra cui in particolare quelli riguardanti le regole di governance – a garantire che questo nuovo modello di organizzazione della produzione svolga davvero le sue attività nell’interesse e a favore di tutta la comunità e con la reale partecipazione dei soggetti interessati o almeno di una loro significativa rappresentanza.

Se, ad esempio, la proposta di legge nazionale introduce – o meglio ribadisce, visto che è già in essere per la stragrande maggioranza delle cooperative – dei vincoli di destinazione d’uso per quanto riguarda il patrimonio dell’impresa di comunità in caso di scioglimento o liquidazione[2], essa non contiene né riferimenti espliciti all’obbligo di adottare alcune misure riguardanti l’impiego degli utili generati dalle attività economiche dell’impresa di comunità, come ad esempio l’introduzione di vincoli totali o parziali alla loro distribuzione – cosa poco compatibile con il perseguimento dell’interesse generale – né indicazioni relative alla diverse possibilità di coinvolgimento della comunità, attraverso ad esempio l’obbligo di adottare una governance aperta e inclusiva, senza cioè limitazioni di alcun genere. A dimostrazione di come il legislatore non abbia tenuto conto del dibattito che ormai da qualche decennio si è sviluppato intorno alle forme di governance delle imprese a finalità sociale.

A partire dalle discussioni sulla necessità o opportunità di una legislazione ad hoc per le imprese di comunità, e dalla lettura dei testi già approvati o proposti, si ha l’impressione che non si tenga in nessun conto l’esistenza di norme e forme giuridiche che già possono essere utilizzate per creare imprese di comunità, per molti aspetti decisamente coerenti con la particolare natura di queste imprese. Ci si riferisce in particolare non tanto alla legge sulla cooperazione sociale, il cui utilizzo è condizionato dalla indicazione di un numero limitato di settori di attività, bensì alla legge sull’impresa sociale così come recentemente riformata (D.Lgs. 112/2017).

A partire da queste considerazioni, il presente lavoro intende proporre una riflessione critica sulla reale necessità di una legislazione specifica per le imprese di comunità e valutare se, al contrario, sia sufficiente utilizzare le normative esistenti limitandosi semmai a intervenire con modifiche mirate. In particolare, a partire dalle principali caratteristiche che contraddistinguono le imprese di comunità (beneficio per la comunità, partecipazione della comunità e radicamento locale), si cercherà di capire se l’attuale legge sull’impresa sociale (D.Lgs. 112/2017) sia sufficiente per dar vita e gestire questo nuovo tipo di imprese e se i benefici da essa introdotti siano – una volta approvati dalla UE – in grado di sostenerne lo sviluppo, individuando anche quali eventuali modifiche della stessa potrebbero risultare necessari o almeno auspicabili. Nella convinzione che l’eccesso di norme non sia ciò che più serve allo sviluppo del settore e abbia spesso la conseguenza indesiderata di rendere più complessa e inefficiente la scelta.

Gli elementi fondanti l’impresa di comunità

L’impresa di comunità, che ha per oggetto la produzione di beni e servizi nell’interesse di tutti i membri della comunità di riferimento, si contraddistingue da altre forme di impresa principalmente per due caratteristiche fondamentali: il perseguimento del benessere comunitario e la partecipazione della comunità (direttamente o attraverso adeguati modelli di governance) alla gestione e alle attività dell’impresa (Mori, Sforzi, 2018).

A differenza di altri tipi di imprese – sia for-profit, orientate alla massimizzazione del profitto, che cooperative tradizionali, il cui scopo è generalmente rivolto alla soddisfazione dei propri soci – l’obiettivo delle imprese di comunità è quello di perseguire l’interesse generale della comunità in cui operano al fine di migliorare le condizioni di vita degli abitanti, indipendentemente dal fatto che essi siano soci o no dell’impresa[3]. Nella pratica, questo vuol dire che i beni e servizi prodotti devono essere accessibili senza distinzione a tutti i membri della comunità, indipendentemente se essi siano beneficiari diretti o indiretti, attuali o potenziali.

Nel caso delle cooperative, grazie all’affermarsi di queste nuove imprese, lo scopo mutualistico assume un nuovo significato: una mutualità allargata a tutta la popolazione locale. O meglio, una nuova forma di solidarietà organizzata nella quale le persone che hanno a cuore e vivono in un dato luogo scelgono di prendersene cura, cooperare e condividere risorse e soluzioni per perseguire il bene comune (Sforzi, 2018). Accanto all’obiettivo di procurare benefici diretti o indiretti ai membri della comunità, le imprese di comunità si distinguono perché perseguono tale obiettivo attraverso la partecipazione della comunità nella gestione dell’impresa, nel suo finanziamento, nel processo decisionale, nelle attività realizzate e nel godimento dei frutti di tali attività. Questo non vuol dire che tutti gli abitanti della comunità devono necessariamente essere soci o finanziatori o essere presenti all’interno degli organi di gestione o di controllo dell’impresa. Contesti sociali, istituzionali ed economici diversi danno vita a modelli diversi di partecipazione per frequenza, intensità e modalità. Il livello di partecipazione può, inoltre, essere influenzato dal tipo di beni e servizi che l’impresa realizza o dal tipo di relazioni (forte o debole) che l’impresa è in grado di instaurare con i differenti soggetti che ruotano attorno alla comunità. Indipendentemente dalle differenze che caratterizzano i vari modelli di partecipazione, essa è garantita grazie ad un altro elemento che contraddistingue (o almeno dovrebbe) le imprese di comunità: la governance inclusiva. Un modello di governance aperto e capace di coinvolgere potenzialmente tutti i membri della comunità – siano esse persone fisiche o giuridiche, pubbliche o private – è un requisito fondamentale non solo per riuscire realmente a identificare e soddisfare i bisogni della comunità, garantire un accesso equo e non discriminatorio ai servizi prodotti o gestiti dall’impresa ed evitare il rischio di comportamenti opportunistici di singoli gruppi (es. lavoratori, finanziatori, ecc.), ma anche per condividere il rischio imprenditoriale tra i diversi soggetti che la compongono (società civile, istituzioni pubbliche, imprese private, enti di terzo settore) e per rispondere ai cambiamenti sociali ed economici che nel corso del tempo influenzano la comunità stessa. Attraverso il coinvolgimento dei membri della comunità è, infatti, possibile condividere risorse materiali e immateriali latenti che rischierebbero di rimanere inutilizzate o sottoutilizzate e rafforzare fiducia e coesione sociale (Sacchetti, 2018; Mori, Sforzi, 2018). Affinché un’impresa abbia una governance realmente inclusiva è necessario che a questa si affianchi il principio della porta aperta. Infatti, non è sufficiente che l’impresa di comunità includa al suo interno potenzialmente tutti i membri della comunità, ma è anche necessario che ciò sia garantito in qualsiasi momento. Nella realtà, infatti, la partecipazione degli abitanti può avvenire con tempi e modalità diverse a seconda degli interessi, dei bisogni, dei temi oggetto di discussione e del tipo di attività da realizzare. Nella fase di costituzione dell’impresa potrebbero, ad esempio, scegliere di partecipare solo alcuni soggetti, ma se questo avviene deve essere per un processo naturale di autoselezione e non perché la forma di governance adottata impedisce in qualche modo la partecipazione di differenti soggetti.

Ad oggi, come vedremo, in Italia c’è solo un tipo di impresa che prevede per legge l’obbligo di coinvolgere i diversi portatori di interessi come lavoratori, utenti e altri soggetti interessati alle attività dell’impresa: l’impresa sociale (D.Lgs. 112/2017)[4].

Un altro elemento fondamentale delle imprese di comunità riguarda la distribuzione degli utili generati dall’attività imprenditoriale. Come qualsiasi altra forma di impresa, anche le imprese di comunità devono produrre un surplus economico, attraverso le proprie attività, il quale non è però destinato ad essere distribuito ai soci o ad altri soggetti (es. finanziatori o utenti). Al contrario, il surplus prodotto rimane a disposizione della comunità. Gli (eventuali) utili generati dalle attività dell’impresa sono utilizzati per garantire sia la sostenibilità economica della stessa sia per sostenere altre attività e servizi utili alla comunità (es. servizi socio-assistenziali). Da alcune ricerche empiriche (MISE, 2016; Mori, Sforzi, 2018) emerge che nonostante non siano previsti dei vincoli statutari alla distruzione degli utili generati da queste imprese, questa è una condizione prevista da tutte.

Un’altra caratteristica delle imprese di comunità è la flessibilità dei settori di intervento. Contesti diversi in termini di bisogni e risorse socio-economiche a disposizione danno vita, infatti, a imprese diverse che operano in settori differenti e le attività realizzate possono essere, quindi, di tipo produttivo, sociale, culturale e ambientale. Purché funzionali al progetto locale di sviluppo, la diversificazione delle attività e il poter operare in qualsiasi ambito di intervento, senza limitazioni, offre all’impresa di comunità non solo, come già osservato, la possibilità di trarre beneficio economico da meccanismi di compensazione tra attività diverse, ma soprattutto di creare nuove reti di relazioni sociali ed economiche funzionali ad alimentare e rafforzare meccanismi cooperativi favorevoli allo sviluppo locale.

Oggi, a partire da queste caratteristiche e in assenza di un riconoscimento normativo a livello nazionale sulle imprese di comunità, queste possono assumere potenzialmente diverse forme giuridiche. Ma è proprio l’assenza di una legislazione specifica ad aver contribuito alla diffusione di questa nuova forma imprenditoriale su tutto il territorio nazionale, con soluzioni differenti in termini di attività realizzate e modalità di coinvolgimento degli abitanti. Soluzioni intraprese non per adeguarsi ad una normativa e a particolari requisiti richiesti, ma per rispondere alle diverse esigenze che ciascuna realtà locale esprimeva ed esprime, con le sue specificità e problematiche e con le proprie soluzioni per superarle.
Ciononostante, da più parti continua ad essere sostenuta la necessità di un intervento normativo nazionale che riconosca ufficialmente le imprese di comunità quasi che una legge possa essere l’unico strumento efficace per sostenere la promozione e lo sviluppo di queste imprese.

Le norme esistenti

In mancanza di un riconoscimento giuridico a livello nazionale, alcune caratteristiche che contraddistinguono le imprese di comunità possono essere garantite da altre forme di impresa già esistenti nell’ordinamento italiano, come quella cooperativa. In questa direzione sono andate tutte le norme regionali approvate fino ad ora a partire dal 2014. Ad oggi sono dodici le Regioni che hanno approvato delle specifiche norme al riguardo, anche se con modalità diverse, con il rischio già evidenziato di frammentare il quadro di riferimento e di dare vita a una molteplicità di tipologia di imprese di comunità (Tabella 1).

Tabella 1. Riferimenti normative sulle Cooperative di Comunità in Italia. Fonte: Elaborazione degli autori.

L’obiettivo di questo paragrafo non è tanto quello di proporre un’analisi comparata delle leggi esistenti, quanto mettere in evidenza come, da un lato, nessuna delle norme proponga delle specificità che dovrebbero caratterizzare le imprese di comunità, e, dall’altro, alcune di queste impongano anzi dei vincoli che rischiano di limitarne l’operatività.

In generale, gli unici elementi che accomunano queste leggi riguardano il fatto che a) si rivolgono solo al mondo cooperativo, riconoscendo nella cooperativa l’unica forma giuridica per questo tipo di imprese; b) queste imprese sono considerate uno strumento per contribuire a mantenere vive le comunità locali, con particolare riferimento in quasi tutti casi alle aree a rischio di spopolamento; c) le cooperative di comunità possono essere promosse da soggetti pubblici e privati, senza distinzione. In generale, quindi, a partire da quanto previsto dagli articoli 2511 e seguenti del Codice Civile, la cooperativa di comunità è una qualifica che può essere adottata da qualsiasi cooperativa che contribuisca a valorizzare o aumentare le competenze della popolazione residente e ne soddisfi i bisogni.

Le leggi delle Regioni Emilia-Romagna (L.R. 12/2014) e della Lombardia (L.R. 36/2015)[5] si limitano a inserire le cooperative di comunità nelle norme sulle cooperative sociali, indicando che sono cooperative che perseguono la realizzazione di attività economiche a favore della comunità, promuovendo la partecipazione dei cittadini alla produzione di beni e servizi, al recupero, alla valorizzazione e alla gestione di beni ambientali, culturali, monumentali, all’acquisto collettivo di beni o servizi di interesse generale e alla creazione di posti di lavoro. Di fatto, quindi, senza introdurre particolari distinzioni tra cooperative sociali e cooperative di comunità.

Le Regioni Toscana (L.R. 24/2014, art. 11 bis, comma 1) e Liguria (L.R. 14/2015) riconoscono e promuovono le cooperative di comunità come strumento per contribuire a rivitalizzare aree a rischio di spopolamento, limitando l’operatività di queste imprese alle aree montane e marginali, ma senza indicare altri elementi per distinguerle da altre imprese cooperative[6]. Nella stessa direzione si è mossa la regione Piemonte che inserisce le cooperative di comunità nella legge sulla valorizzazione e sviluppo della montagna, rilegando anche in questo caso la loro funzione alle aree marginali.

Le Regioni Puglia, Abruzzo e Basilicata hanno adottato le stesse normative e sono le uniche regioni che hanno introdotto un elemento di distinzione dalle altre imprese cooperative: la comunità di riferimento. Come si vedrà in seguito, la comunità è identificata nel Comune o negli ambiti aggregativi previsti dagli stessi Comuni (come ad esempio le circoscrizioni) e nel fatto che deve essere esistere una relazione tra il numero dei soci e la popolazione residente nella comunità di riferimento. Su quest’ultimo punto, la normativa lucana, però, non entra nel dettaglio rispetto al numero minimo di soci in percentuale ai residenti, come fanno, invece, le altre due Regioni.

Rispetto alle altre Regioni, la norma introdotta in Sicilia aggiunge (come modificato recentemente dalla Regione Toscana) in maniera esplicita il riferimento alle aree urbane, sempre però “particolarmente esposte a rischio spopolamento e a disagio sociale” (art. 1, comma 1, L. 25/2018). In questo caso, la comunità di riferimento può essere rappresentata da “uno o più comuni, o circoscrizioni comunali, o anche parti di essi, affini per caratteristiche geografiche, culturali o economiche” (art. 4, comma 1, L. 25/2018). Al contrario, la legge dalla Regione Sardegna risulta molto generica, senza aggiungere niente di concretamente nuovo rispetto a ciò che altre cooperative possono già realizzare.

Infine, quelle delle Regioni Umbria e Campania, nonostante anche in questi casi non emergano elementi specifici in grado di definire cosa sia l’impresa di comunità, sono le uniche norme che offrono qualche spunto interessante. In particolare, le normative (L.R. 318/2019 per l’Umbria e L.R. 2/2019 per la Campania) prevedono l’obbligo di indicare negli statuti (art. 2, comma 1) adeguate forme di coinvolgimento dei membri della comunità, di partecipazione all’assemblea dei soci di soggetti appartenenti alla comunità e la possibilità di nominarli nel consiglio di amministrazione.

Un ultimo aspetto che accomuna tutte queste leggi riguarda le attività previste. Pur con sottili differenze, tutte le norme tendono ad essere molto generiche con l’indicazione di ambiti di intervento che vanno dalla gestione e valorizzazione del paesaggio, dell’ambiente e delle tradizioni culturali al recupero di beni ambientali e monumentali, fino alla creazione di posti di lavoro, con l’obiettivo di soddisfare i bisogni della comunità locale e migliorarne la qualità di vita.

Potenzialità e limiti delle norme in vigore

A partire da queste leggi è possibile mettere in evidenza come il riconoscimento giuridico di una data forma imprenditoriale possa essere importante perché solitamente prevede dei vantaggi, spesso legati ad agevolazioni di diversa natura (es. di tipo finanziario, tributario, previdenziale, accesso a incentivi, attività riservate, ecc.). Vantaggi che in genere contribuiscono ad aumentare il numero delle organizzazioni che presentano le caratteristiche previste dalla norma. In questa direzione sono andate alcuni regioni che, al riconoscimento delle imprese di comunità, hanno fatto seguire sostegni economici finalizzati a incentivare la nascita di queste imprese o a supportarne il potenziamento e consolidamento. Tra queste troviamo il bando promosso dalla Regione Toscana (maggio 2018), che, con un investimento di 1 milione e 400 mila euro, ha sostenuto la nascita di 24 cooperative di comunità e il consolidamento di una già esistente[7], o quello della Regione Puglia (novembre 2018) che inserisce le imprese di comunità in un intervento orientato a rafforzare le imprese sociali[8]. Altre Regioni, che riconoscono la funzione pubblica di queste imprese, prevedono la possibilità di agevolarle nell’espletamento di tale funzione (spesso però non si specifica quali sono queste agevolazioni).

Tuttavia, il sostegno economico da parte degli enti pubblici ed eventuali facilitazioni nell’esercizio della loro funzione sembrano, al momento, essere gli unici vantaggi del riconoscimento giuridico. Al contrario eventuali bandi promossi da soggetti privati – come ad esempio quello di Fondosviluppo (Confcooperative)[9] che ha investito 500mila euro a livello nazionale e ha finanziato la costituzione di 28 nuove cooperative di comunità e il consolidamento di 5 cooperative già costituite – possono essere realizzati anche in assenza di una normativa regionale o nazionale.

Il riconoscimento giuridico, oltre a rappresentare un’opportunità, può, però, trasformarsi anche in un vincolo e un limite allo sviluppo, soprattutto se i criteri previsti sono troppo stringenti e non opportunamente disegnati tenendo conto delle specificità e diversità che contraddistinguono i luoghi nei quali queste imprese operano. Questo è il rischio cui sono andate incontro (inconsapevolmente) alcune leggi regionali (Puglia e Abruzzo,) che – con l’intento di garantire che l’impresa di comunità sia davvero della comunità (e dei suoi interessi), piuttosto che per la comunità (e nei suoi interessi) ed evitare che nello stesso territorio possano nascere due o più imprese di comunità in competizione – hanno imposto criteri e requisiti eccessivamente stringenti, legati alla numerosità e alla composizione della base sociale rispetto alla comunità nella quale opera l’impresa.

Se guardiamo infatti alla legge pugliese 23/2014 “Disciplina delle Cooperative di comunità” – la prima legge regionale a normare questo nuovo tipo di imprese – il primo limite è rappresentato dal fatto che l’impresa di comunità, affinché sia considerata tale e possa ottenere i conseguenti benefici, deve avere obbligatoriamente un numero minimo di soci rispetto al numero di residenti nel comune (o circoscrizione)[10]. Questo imprescindibile requisito, necessario per ottenere la qualifica di “cooperativa di comunità”, impone che se il numero di soci di una cooperativa di comunità dovesse scendere sotto il numero minimo previsto dalla legge, la cooperativa ha un anno di tempo per recuperare i soci “persi”, pena la perdita delle agevolazioni previste, i beni e/o i servizi affidati alla cooperativa attraverso specifiche convenzioni sottoscritte con le stesse amministrazioni pubbliche operanti nell’ambito regionale (art. 7, comma 1) e la cancellazione dall’albo regionale delle cooperative di comunità (art. 4, comma 3).

Nel dettaglio, la legge pugliese 23/2014, stabilisce all’art. 4, comma 2 che l’impresa di comunità deve avere un numero di soci che, sulla base dell’ultimo censimento, deve rappresentare:

  • il 10% della popolazione per le circoscrizioni e i comuni con popolazione fino a 2.500 abitanti;
  • il 7% della popolazione per le circoscrizioni e i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti;
  • il 3% della popolazione per le circoscrizioni e i comuni con popolazione oltre i 5.000 abitanti[11].

Come emerge chiaramente, il primo problema determinato da questo requisito è la difficoltà di costituire (e gestire) imprese formate da persone fisiche e/o giuridiche che dovrebbero superare in alcuni casi i 1.000 soci[12].

Guardando ai processi generativi delle imprese di comunità (Euricse, 2016; MISE, 2016; Sforzi, Zandonai, 2018) emerge come queste difficilmente nascono grazie al coinvolgimento immediato della maggioranza o di un numero elevato di membri di una comunità (anche in contesti di piccolissime dimensioni caratterizzate da 60/80 abitanti). Esse solitamente sorgono grazie ad un gruppo promotore, una «massa critica» (Grillo, 2015) in genere di piccole dimensioni[13], che sceglie di farsi carico del progetto e, soprattutto, del rischio imprenditoriale che comporta avviare un’impresa. Solo in un secondo momento, grazie ad un modello di governance inclusivo e alla capacità e al lavoro realizzato dal gruppo promotore all’interno della comunità, quest’ultima inizia a condividere l’idea iniziale, a partecipare a vario titolo alle attività dell’impresa e a contribuire al progetto di sviluppo locale. Un processo che richiede, però, tempo e che leggi come quella pugliese non contribuiscono né a promuovere né a sostenere.

Il secondo limite della fissazione di un numero minimo di soci legato alle dimensioni demografiche della comunità è costituito dal fatto che, in virtù dello scambio mutualistico che si realizza tra impresa e comunità, possono assumere la qualifica di socio solo i soggetti che hanno la residenza o la sede legale nella comunità (art. 3, comma 2, L. 23/2014).

A parte il fatto che oggi la residenza formale di un cittadino non sempre corrisponde al luogo nel quale abita e lavora, questo vincolo impedisce a soggetti esterni (es. persone non più residenti, ma che continuano ad avere una seconda casa nel luogo di origine che, in qualità di soci, potrebbero essere intenzionati a mettere a disposizione per favorire modelli di ospitalità diffusa, o altre – ex-residenti o turisti – che semplicemente sono legate ad un dato luogo per differenti motivi) di poter diventare soci e contribuire allo sviluppo dell’impresa e della qualità di vita della comunità nella quale essa opera.

In concreto, fermi restando i principi di governance inclusiva e porta aperta messi in evidenza in precedenza, la forma di governance di un’impresa di comunità dovrebbe al massimo prevedere che questa sia composta da più di una tipologia di soci differenti al fine di evitare il rischio che prevalgano comportamenti opportunistici legati al soddisfacimento dell’interesse di specifici gruppi (es. i lavoratori). Ma in generale, la forma di governance deve essere scelta (e se necessario modificata) sulla base del tipo di attività e del processo produttivo che l’impresa sceglie di realizzare per perseguire il benessere della comunità, alla tipologia di risorse che essa è in grado di valorizzare e (soprattutto) attrarre e alla disponibilità/volontà della popolazione locale di partecipare (spesso legata, almeno inizialmente, al livello di fiducia e coesione sociale esistente).

È per questo che, come emerge dalle ultime ricerche empiriche (Mori, Sforzi, 2018), i modelli proprietari e di governance delle imprese di comunità cambiano da caso a caso in base ai bisogni e alle caratteristiche sociali, economiche e istituzionali che contraddistinguono una data comunità.

In sintesi, quindi, norme che impongono limiti alla composizione della base sociale troppo stringenti rischiano, da un lato, di rallentare (se non addirittura impedire) la nascita di un’impresa di comunità, sia in aree rurali[14] sia, soprattutto, in aree urbane caratterizzate da un numero elevato di residenti o, nel caso in cui un’impresa riesca a nascere, di perdere le agevolazioni o i beni e servizi affidategli al venir meno di pochi soci. Dall’altro, questo tipo di vincoli mette in secondo piano il valore sociale ed economico e la finalità pubblica delle imprese di comunità legando la loro funzione solo ad una rappresentanza numerica della comunità piuttosto che alla sua capacità di modificare l’assetto sociale esistente e i tradizionali meccanismi di produzione; un’impresa capace di rimettere al centro della sua attività le persone (e il loro sviluppo) e l’autogoverno locale basato su valori e principi di solidarietà, inclusione e bene comune.

Un altro limite che caratterizza le varie leggi sulle cooperative di comunità riguarda il fatto che non viene fatto nessun riferimento chiaro ed esplicito alla possibilità o all’obbligo di includere nella base sociale differenti portatori di interessi. Se il tema della distribuzione di utili può essere in teoria garantito da quanto già previsto dall’ordinamento giuridico sulle società cooperative, purché a mutualità prevalente (art. 2545 del codice civile), senza una governance realmente aperta e inclusiva i limiti previsti sulla distribuzion degli utili generati dalle attività dell’impresa può essere una condizione necessaria ma non sufficiente. Per garantire, infatti, che il surplus prodotto dalle attività dell’impresa non sia appropriato da parte di chi la controlla (i soci) e che l’impresa operi realmente nell’interesse generale della comunità e per il soddisfacimento dei suoi bisogni, è fondamentale una governance aperta e inclusiva. Una governance dove le prerogative esercitate da coloro che effettivamente partecipano alla gestione dell’impresa siano accessibili a tutti i membri della comunità. Una soluzione in grado di garantire che l’impresa sia veramente della comunità e per la comunità.

La legge sull’impresa sociale: potenzialità e limiti

Le leggi regionali sulle imprese di comunità si sono focalizzate sulla società cooperativa in quanto essa, grazie alle sua natura (insieme di valori e principi basilari)[15] e alle sue caratteristiche normative[16] si adatta bene al modello di impresa di comunità. In particolare, alcuni elementi come l’uguale trattamento dei soci (indipendentemente dalla quota di capitale sociale sottoscritto), la presenza di limiti alla distribuzione degli utili, l’indivisibilità del patrimonio tra i soci e la non negoziabilità delle quote o azioni detenute dai soci, sono in grado di garantire le finalità non lucrative di queste imprese e di impedire che un soggetto esterno possa acquisirne il controllo. Detto ciò, differenti tipi di cooperative presentano, però, anche alcuni vincoli che non sono stati presi in considerazione dalle varie normative, come ad esempio quelli relativi ai potenziali soci dell’impresa, che inducono le varie cooperative ad adottare in genere forme di governance mono-stakeholder, nella quale cioè viene coinvolta nella gestione una sola categoria di soggetti (lavoratori, utenti, produttori, ecc.)[17]. Nel panorama delle società cooperative, l’unica nella quale possono partecipare alla gestione contemporaneamente lavoratori, volontari e utenti è la cooperativa sociale (Borzaga, Ianes, 2006). Tuttavia, il loro ambito di operatività è limitato, a seconda della tipologia, ad alcuni settori strettamente legati al welfare (sanitario, socio-sanitario, sociale ed educativo) (tipo A) o a garantire l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate (tipo B).

Al fine di superare queste limitazioni, nel panorama delle forme giuridiche che possono considerarsi funzionali alla costituzione e al buon funzionamento delle imprese di comunità è utile considerare attentamente anche le potenzialità dell’impresa sociale.

In linea con quanto previsto dalla legge delega 118/2005 (rettificata con il D.Lgs. 155/2006), il nuovo D.Lgs. 112/2017 stabilisce che possono assumere la qualifica di impresa sociale tutti gli enti privati [...] che esercitano in via stabile e principale un’attività di impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, adottando modalità di gestione responsabili e trasparenti e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti interessati alle loro attività [...] (art. 1, D.Lgs. 112/2017).

Questo articolo della norma mette già in evidenza due aspetti che ben si adattano all’esercizio dell’impresa di comunità: il primo riguarda il fatto che possono assumere questa qualifica tutti gli enti privati che perseguono l’interesse generale; il secondo che questo deve essere fatto “favorendo il più ampio coinvolgimento” di più soggetti con funzioni diverse (es. lavoratori, utenti, volontari, ecc.). Elemento quest’ultimo ribadito in modo ancora più esplicito nell’art. 11, dedicato al coinvolgimento di soggetti diversi nella gestione e nelle attività dell’impresa. In particolare, esso prevede che nei regolamenti aziendali o negli statuti delle imprese sociali devono essere previste adeguate forme di coinvolgimento dei lavoratori e degli utenti e di altri soggetti direttamente interessati alle loro attività (art. 11, comma 1, D.Lgs. 112/2017).

Il secondo comma dello stesso articolo stabilisce anche cosa si intende per coinvolgimento: un meccanismo di consultazione o di partecipazione mediante il quale lavoratori, utenti e altri soggetti direttamente interessati alle attività siano posti in grado di esercitare un’influenza sulle decisioni dell’impresa sociale, con particolare riferimento alle questioni che incidano direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla qualità dei beni o dei servizi (art. 11, comma 2, D.Lgs. 112/2017).

Non sono previste per legge specifiche modalità di coinvolgimento, ma esse sono giustamente affidate agli statuti delle singole imprese sociali, lasciando libera ciascuna impresa di sviluppare le proprie strategie di interazione, inclusione e coinvolgimento dei soggetti interessati a partecipare alla gestione o alle attività della stessa. È previsto soltanto l’obbligo di far partecipare lavoratori e utenti, anche tramite rappresentanti, all’assemblea dei soci, e di garantire ai lavoratori e/o utenti di imprese sociali di media o grande dimensione il diritto di nominare almeno un membro negli organi di governo e di controllo dell’impresa (comma 4, a e b). Il coinvolgimento e la rappresentatività dei membri della comunità riguarda anche le cariche sociali, in quanto è prevista la possibilità di riservare a soggetti esterni all’impresa di far parte degli organi sociali, sempre, però in numero minore rispetto ai soci (art. 7). Detto ciò, quindi, le forme e modalità di partecipazione saranno differenti tra un’impresa sociale e l’altra a seconda delle attività e dei soggetti che potrebbero beneficiare direttamente o indirettamente da tali attività. Elemento, questo, fondamentale anche per le imprese di comunità vista la loro differente natura.

Sempre legato al coinvolgimento dei membri della comunità, un altro articolo del D.Lgs. 112/2017 offre un’opportunità fondamentale per le imprese di comunità: la possibilità di avvalersi di lavoro volontario. Questo è, infatti, un elemento spesso indispensabile per le imprese di comunità, come dimostra il fatto che quasi tutte le esperienze esistenti oggi in Italia hanno membri della comunità, che, pur non essendo dipendenti e spesso neppure soci dell’impresa, dedicano parte del loro tempo alle attività della “propria” impresa di comunità.

Altri elementi che rendono la normativa sull’impresa sociale particolarmente adatta alla costituzione e all’esercizio di un’impresa di comunità sono le norme che prevedono l’assenza di scopo di lucro (art. 3) – imponendo limiti stringenti alla distribuzione degli utili – e quelle relative alla attività che le imprese sociali possono realizzare nell’interesse generale “per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” (art. 2, comma 1).

In merito al primo punto, l’impresa sociale è obbligata a destinare eventuali utili ed avanzi di gestione allo svolgimento delle attività previste dallo statuto o ad incremento del patrimonio dell’impresa stessa. Questo sta a significare che è vietata la distribuzione diretta e indiretta degli utili ai fondatori, ai componenti degli organi sociali, ai soci, ai lavoratori e ai collaboratori anche in caso di recesso o scioglimento del rapporto individuale dei soggetti coinvolti nell’impresa[18].

Questo vincolo non è, però, totale. Infatti, come emerge dal comma 3 dello stesso articolo le imprese sociali costituite in forma societaria possono destinare una quota inferiore al cinquanta per cento degli utili e degli avanzi di gestione annuali ai soci oppure in favore di enti del Terzo settore diversi dalle imprese sociali, che non siano fondatori, associati, soci dell’impresa sociale o società da questa controllate, finalizzate alla promozione di specifici progetti di utilità sociale (D.Lgs. 112/2017, art. 3 comma 3, b).

Quest’ultimo punto è particolarmente interessante proprio per le imprese di comunità. Grazie a quanto già previsto da questo comma, gli eventuali utili generati dall’impresa di comunità in forma di impresa sociale possono essere reinvestiti nella comunità non solo attraverso beni e servizi offerti dalla stessa impresa, ma anche sostenendo le attività di altri attori locali eventualmente già presenti e operanti in specifici settori. In questo modo un’impresa che opera in ambito agricolo, turistico e culturale, potrebbe destinare una parte degli utili generati dalle sue attività per sostenere un’associazione o una cooperativa sociale che offre servizi socio-sanitari. In questa ottica, grazie alla costruzione di reti di relazioni locali, l’impresa di comunità potrebbe concentrarsi solo su alcune attività specifiche (es. turistiche), riducendo così i costi che potrebbero derivare dalla gestione di troppe attività (es. servizi socio-sanitari) senza ridurre la sua capacità di perseguire il benessere e lo sviluppo della comunità.

A vantaggio delle imprese sociali operano anche alcuni strumenti di sostegno economico ad esse dedicati, che potrebbero rilevarsi particolarmente significativi per sostenere lo sviluppo delle imprese di comunità. Tra questi, ci limitiamo a ricordare la possibilità per le persone fisiche e per le imprese di partecipare al capitale di rischio delle imprese sociali, prevedendo significativi vantaggi fiscali[19]. Grazie a questo strumento gli abitanti hanno l’opportunità di contribuire attivamente allo sviluppo sociale ed economico della propria comunità destinando parte dei loro risparmi a un’impresa sociale impegnata nella produzione di beni e servizi di interesse generale.

Infine, un ultimo elemento che rafforza l’idea che, tra quelle esistenti, la normativa sulle imprese sociali sia quella più coerente con il modello di impresa di comunità riguarda gli ambiti di intervento[20]. Le imprese sociali, infatti, possono operare praticamente in molti dei settori di attività tipici anche delle imprese di comunità[21]. Non in tutti però. Infatti dalle ricerche condotte fino a questo momento in Italia (Bandini et al., 2015; Mori, 2014; Borzaga, Zandonai, 2015; Euricse, 2016; MISE, 2016; Mori, Sforzi, 2018; Teneggi, 2018) emerge come le imprese di comunità operino, come vedremo di seguito, anche in attività non incluse tra quelle previste per le imprese sociali.

I limiti della normativa sull’impresa sociale

La legge sull’impresa sociale, disegnata pensando ad un modello di imprese diverso da quello di comunità presenta però anche una serie di limiti.

In particolare, nella legge sull’impresa sociale non sono presenti, almeno in modo chiaro ed esplicito alcuni elementi, che invece sono fondanti per le imprese di comunità.

Il primo riguarda il “vincolo territoriale”. Quando si parla di imprese di comunità non si fa riferimento semplicemente ad un gruppo di persone, ma a una comunità fisica associata a un luogo fisico: «una comunità di soggetti il cui interesse per il bene/servizio nasce dal fatto che essi vivono in un dato luogo» (Mori, 2018, p. 22). La comunità è, quindi, associata ad un territorio (es. un quartiere, un comune, una valle). Questo non vuol dire che deve esserci un confine di operatività dell’impresa (es. di tipo amministrativo) oltre il quale essa non può andare, ma che almeno deve esserci un legame tra i soggetti che vivono in un dato territorio, il bene/servizio offerto dall’impresa in quel territorio e i soggetti gestori dell’impresa che lì è nata grazie alle persone che appartengono a quel territorio. L’elemento che qualifica la partecipazione alla gestione e alle attività dell’impresa di comunità deve essere, quindi, il legame territoriale che li unisce. In merito a questo, il D.Lgs. 112/2017 sull’impresa sociale non fa nessun riferimento, lasciando aperta la possibilità che un’impresa sociale possa offrire i suoi servizi (teoricamente) su tutto il territorio nazionale e senza il coinvolgimento di persone che vivono nel luogo dove l’impresa opera.

Il secondo elemento da considerare riguarda gli ambiti di operatività. Se guardiamo ai processi generativi delle imprese di comunità in Italia (Euricse, 2016; MISE, 2016; Sforzi, Zandonai, 2018), compiuti con percorsi differenti dà luogo a luogo a seconda sia dei bisogni e delle necessità da soddisfare che delle condizioni di partenza, risulta evidente che esse sono nate a seguito di shock di diversa natura (sociale, economica o ambientale) che ne hanno condizionato la fase di avvio. A partire da queste differenze, è stata proprio la possibilità e, spesso, la necessità di operare in qualsiasi settore, senza nessun tipo di limitazioni o vincoli, che ha influenzato positivamente il loro sviluppo.

In generale, è possibile classificare le imprese di comunità in due macro gruppi. Il primo è costituito da quelle imprese che hanno deciso di far leva sulla diversificazione delle attività (sociali, produttive, sociali, culturali e ambientali). Il secondo, invece, racchiude quelle imprese che, per motivazioni differenti, hanno preferito (almeno nella fase di avvio) operare solo in specifici settori ritenuti funzionali al proprio progetto di sviluppo locale. Tra questi rientrano spesso settori non previsti dalla normativa sulle imprese sociali (D.Lgs. 112/2017, art.2), come l’agricoltura. In alcuni casi, infatti, l’agricoltura è il principale settore di intervento dell’impresa di comunità sia per recuperare terreni incolti o produzioni tipiche locali (es. Cooperativa di Comunità Terre Normanne di Calabria) sia per ripensare i modelli di agricoltura tradizionale (es. Cooperativa di Comunità Roccamadre o Cooperativa di Comunità BGO)[22] attraverso nuove forme di produzione e scambio che, grazie al radicamento di queste imprese nella comunità, reintroducono elementi di reciprocità e redistribuzione intercettando bisogni interni ed esterni alla comunità (Mori, Sforzi, 2018).

Oltre all’agricoltura, tra le attività non previste nella normativa sull’impresa sociale, ma portate avanti dalle imprese di comunità, ci sono quelle legate alla gestione di negozi e punti vendita orientati alla distribuzione di generi di consumo e prodotti di ogni natura e tipo, spesso unici presidi di comunità, a cui si aggiunge la gestione di bar e di attività di ristorazione. Sono da segnalare, inoltre, quelle esperienze imprenditoriali di comunità che si occupano della produzione e gestione di beni e servizi di pubblica utilità (es. energia elettrica da fonti rinnovabili, servizi idrici, trasporti pubblici, servizi postali, ecc.) sia come unico fornitore che in alternativa a quelli già esistenti (Mori, 2014; Tricarico, 2015; Mori, Sforzi, 2018). Questi ambiti di intervento, tra cui soprattutto la produzione e gestione di energia da fonti rinnovabili, non sono previsti dalla normativa sulle imprese sociali, ma rappresentano attività che sempre di più stanno attirando l’interesse di numerose comunità e si stanno diffondendo tanto a livello nazionale che internazionale (Magnani, 2018; Tricarico, 2018).

Infine, un ultimo punto, che meriterebbe però ulteriori approfondimenti, riguarda non tanto l’indivisibilità del patrimonio o limiti alla distribuzione di utili, previsti dalla normativa sull’impresa sociale, quanto la garanzia che ciò che è stato creato a servizio della comunità e in funzione al benessere dei suoi membri lo sia anche nel corso del tempo, nell’interesse delle generazioni future. Se pensiamo ai beni immobili (es. un edificio) di proprietà di un’impresa sociale, secondo l’art. 12, comma 5 del D.Lgs. 112/2017 questi, in caso di scioglimento dell’impresa, devono essere devoluti o ai fondi mutualistici, in base a quanto previsto in tema di società cooperative, o ad altri enti del Terzo settore, costituiti ed operanti da almeno tre anni, o a fondi per la promozione e lo sviluppo delle imprese sociali (come indicato all’art. 16 della stessa legge). E questo, se pensiamo alle imprese di comunità, rappresenta un altro limite della legge sulle imprese sociali.

Indicazioni di policy

Dall’analisi della Legge 117/2017 sull’impresa sociale emergono una serie di elementi che la rendono al momento la legge più adatta per costituire e gestire imprese di comunità. I limiti individuati sono sicuramente meno rilevanti dei vantaggi e potrebbero essere superati più che da una nuove legge sulle imprese di comunità, da una semplice modifica della legge sull’impresa sociale che riconosca la suo interno l’impresa di comunità come una delle tipologie di impresa sociale da affiancare a quelle finalizzate a gestire una delle attività previste dalla legge e a quelle che indipendentemente dall’attività svolta hanno come obiettivo l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati. Le modifiche da considerare riguardano a nostro avviso quattro aspetti della legge attualmente in vigore.

Governance inclusiva e radicamento locale

L’articolo 11, comma 1 della D.Lgs. 112/2017 sull’impresa sociale prevede il coinvolgimento di soggetti diversi all’interno dell’impresa. Questo passaggio è un punto importante e critico allo stesso tempo. Importante, perché sottolinea che il coinvolgimento di portatori di interesse diversi (teoricamente anche non soci) è un obbligo di legge. Critico, perché non pone alcun vincolo al numero minimo delle diverse tipologie di soggetti che devono essere coinvolti, come invece previsto, ad esempio, dalla normativa francese del 2001 che, nell’introdurre una nuova forma di impresa (SCIC, Société Coopérative d’Intérêt Collectif), stabilisce obbligatoriamente la presenza di almeno tre tipologie di soci all’interno dell’impresa. Tra questi devono rientrare lavoratori e beneficiari (European Commission, 2016; Fici, 2016). A nostro avviso, fermo restando il principio della porta aperta e di una governance inclusiva (indicando che possono assumere la qualifica di soci le persone fisiche, le persone giuridiche, gli enti di Terzo Settore e gli enti pubblici), per far sì che l’impresa di comunità sia il più possibile rappresentativa degli interessi e dei bisogni della comunità nella quale opera, è necessario prevedere una base sociale plurima indicando che l’impresa di comunità debba essere costituita, come avviene in Francia, da almeno tre tipologie diverse di soci. Strumento, questo, più efficiente in termini di rappresentanza della comunità locale rispetto ad un numero minimo di soci residenti in percentuale al totale della popolazione locale residente (previsione presente nelle leggi delle Regioni Puglia e Abruzzo). Per garantire che l’impresa di comunità non sia controllata da soggetti esterni alla comunità, è sufficiente introdurre nella legge sull’impresa sociale una norma specifica rivolta alle imprese di comunità nella quale sia previsto che i residenti di un dato territorio debbano rappresentare la maggioranza dei soci e/o degli amministratori o, ancora, attribuendo loro maggiore peso rispetto ai non residenti. Criteri simili, ad esempio, sono già previsti nell’ordinamento cooperativo per altre tipologie di soci, come quella dei soci sovventori (Legge 59/1992, art. 4), i quali non possono rappresentare la maggioranza degli amministratori – che deve obbligatoriamente essere costituita da soci cooperatori – o i cui voti non devono superare un terzo dei voti spettanti a tutti i soci. Introdurre elementi di questo tipo potrebbe, inoltre, contribuire a delimitare l’ambito territoriale di operativa dell’impresa (che sarà indicato negli statuti delle imprese, dando libertà alle stesse, quindi, di definire i confini entro i quali realizzare le loro attività), cosa non prevista dalla legge sull’impresa sociale, e a salvaguardare il fatto che le attività perseguite dall’impresa di comunità siano davvero fatte dalla comunità per la comunità.

Un altro punto connesso al radicamento locale delle imprese di comunità riguarda il loro patrimonio, con particolare riguardo ai beni immobiliari (es. edifici). Nella legge sull’impresa sociale, infatti, da nessuna parte è previsto che questi beni debbano rimanere di proprietà (o gestiti) della comunità. Anche in questo caso sarebbe sufficiente una modifica della legge sulle imprese sociali con cui, con specifico riguardo all’impresa di comunità, si introduce l’obbligo di devolvere il patrimonio residuo all’interno della stessa comunità, aggiungendo semplicemente il vincolo territoriale a quanto previsto dall’art. 12 comma 5 del D.Lgs. 112/2017: «altri enti del Terzo settore costituiti ed operanti da almeno tre anni [nel territorio di riferimento dell’impresa di comunità». Infine, per quanto riguarda i beni immobili di proprietà pubblica o privata, ma non dell’impresa di comunità, potrebbe essere eventualmente introdotto un articolo che offra l’opportunità alla stessa comunità di rilevare il bene (e perché no anche un servizio), come previsto ad esempio dall’ordinamento inglese (Community Right to Bid/Buy o Community Right to Challenge)[23].

Attività e ambiti di intervento

L’impresa di comunità si sviluppa a partire dalla capacità degli attori locali di valorizzare le risorse interne alla comunità e di attrarne di nuove. Per fare questo, però, è necessario che l’impresa possa svolgere qualsiasi attività senza alcuna limitazione. Come abbiamo visto, l’elenco delle attività di interesse generale previste per le imprese sociali (art. 2, D.Lgs. 112/2017) è molto ricco, ma non abbastanza. Detto ciò, anche questo problema può essere facilmente risolto non tanto con una modifica dell’art. 2 del D.Lgs. 112/2017 – opzione prevista dal comma 2 dello stesso articolo – quanto introducendo la possibilità per le imprese di comunità di realizzare “qualsiasi tipo di attività” purché nell’interesse generale della comunità (come indicato sempre nell’art. 2 al comma 4 per le imprese che inseriscono particolari categorie di persone – svantaggiate, con disabilità, beneficiarie di protezione internazionale).

In aggiunta, affinché l’impresa sia in grado di dimostrare che attraverso le attività realizzate persegue davvero l’interesse generale della comunità potrebbe (eventualmente) essere inserito un obbligo di certificazione, come avviene, ad esempio con il community test delle Community Interest Company inglesi.

Mutualità prevalente

Un altro aspetto riguarda la necessità di superare il criterio della mutualità prevalente (intesa nel senso che più del 50% degli scambi deve avvenire con soci) nel caso le imprese di comunità siano costituite in forma cooperativa. A questo fine le strade da percorrere potrebbero essere due. Indicare all’interno della legge sull’impresa sociale che a) le cooperative di comunità sono di diritto a mutualità prevalente (come previsto per le cooperative sociali) oppure b) inserire una deroga alla definizione di prevalenza così come previsto per altre tipologie cooperative dal Decreto del Ministero delle Attività Produttive del 30 dicembre 2005 (in Gazz. Uff. 25-01-2006, Serie Generale n.20) “Regimi derogatori ai criteri per la definizione della prevalenza di cui all’articolo 2513 del codice civile” per le società cooperative.

Lavoro volontario

Infine, un ultimo aspetto, che sicuramente necessiterebbe di approfondimenti che eccedono le finalità di questo lavoro e per cui ci limitiamo a una considerazione di carattere generale, è la necessità per le imprese di comunità di poter coinvolgere nell’attività dell’impresa persone a titolo volontario senza limitazioni sulla loro numerosità, soprattutto con riferimento al numero dei dipendenti dell’impresa, superando le limitazioni attualmente previste sia per le cooperative sociali che per le imprese sociali.

Nella legge sull’impresa sociale è prevista l’opportunità di coinvolgere nell’attività dell’impresa persone a titolo volontario, a patto che il loro numero non sia superiore a quello dei lavoratori. Questo è un passaggio delicato e importante al tempo stesso.

Delicato perché è bene impedire che il lavoro volontario non si trasformi, specie in alcuni contesti, in uno strumento per non riconoscere il lavoro giustamente retribuito come uno strumento di sviluppo umano, di realizzazione personale e integrazione sociale, capace di contribuire al benessere individuale oltre che collettivo.

Importante perché per quasi tutte le imprese di comunità esistenti oggi in Italia il contributo volontario che gli abitanti (siano essi finanziatori o beneficiari diretti o indiretti delle attività realizzate dall’impresa) possono apportare per il funzionamento dell’impresa è indispensabile non solo per la sostenibilità economica di queste imprese, ma anche come modo per coinvolgere attivamente i membri della comunità e promuovere l’aggregazione e l’inclusione. Prevedendo questa possibilità per tutte le imprese di comunità (indipendentemente dalla forma giuridica scelta) i soggetti interessati potrebbero decidere in accordo con l’impresa (inserendo le diverse modalità di coinvolgimento negli statuti) la quantità di tempo da mettere a disposizione a titolo gratuito e concordare con la stessa le attività da realizzare, senza necessariamente diventare soci dell’impresa, ma ricevendo tutte le tutele assicurative necessarie.

Conclusioni

Come delineato, la normativa sull’impresa sociale presenta già molti elementi indispensabili a garantire che l’impresa operi realmente per la comunità e nel suo interesse, attraverso la partecipazione dei suoi membri (o almeno di una parte). Al momento, quindi, essa è sufficiente nell’offrire il “vestito” giusto ad un fenomeno come quello delle imprese di comunità ancora in fase di sviluppo e, soprattutto, di consolidamento. Un vestito che potrebbe essere facilmente reso ancora più adatto intervenendo con una modifica dedicata della stessa legge sull’impresa sociale.

L’attenzione verso il fenomeno potrebbe così spostarsi dal dibattito sulle leggi regionali e nazionali – spesso interessate solo alla capacità delle imprese di comunità di rilanciare le aree marginali del Paese, tralasciando le loro potenzialità in contesti urbani, o concentrate solo su alcuni aspetti, come la composizione della base sociale, senza tenere in considerazione il complesso di specificità che le imprese di comunità rappresentano – agli strumenti di policy più adatti a promuovere nuovi processi socio-economici che stanno alla base di questo tipo di imprese.

L’attenzione dei policy maker dovrebbe, infatti, concentrarsi su interventi mirati a promuovere e sviluppare nuove capacità imprenditoriali di tipo comunitario, a rafforzare il senso di appartenenza comunitario e a incoraggiare, promuovere e facilitare la partecipazione degli abitanti e la costruzione di reti di relazioni tra questi, tra le organizzazioni (profit e non profit) già esistenti e con la pubblica amministrazione, favorendo un’integrazione tra le loro azioni.

La partecipazione della comunità è sicuramente l’aspetto più delicato. Se un modello di governance inclusivo può essere un obbligo normativo (indipendentemente dalla presenza di vincoli più o meno stringenti), la partecipazione può essere prevista, ma non forzata, come, invece, fanno alcune normative regionali, né può limitarsi solo ad alcune categorie di stakeholder (es. lavoratori e soci). Ma piuttosto che insistere nel voler affidare ad una normativa questo importante elemento che caratterizza le imprese di comunità, gli interventi di policy dovrebbero accompagnare e sostenere le imprese in questo compito, contribuendo a quel processo di trasformazione e riorganizzazione della pubblica amministrazione in senso più partecipativo, che sempre più deve imparare a cooperare con i propri cittadini. In questa direzione vanno ad esempio:

  • la riforma del Titolo V, parte II della Costituzione (Legge 3/2001, art. 118, comma 4), che ha introdotto il principio di sussidiarietà orizzontale nell’ordinamento italiano;
  • il Regolamento dell’Unione Europa n. 390/2014, con cui è stato istituito il programma “L’Europa per i cittadini” orientato alla promozione della cittadinanza europea e alla partecipazione democratica e civica dei cittadini dell’Unione, che riafferma la centralità del principio di “cittadinanza attiva”;
  • gli articoli 55, 56 e 57 del Codice del Terzo settore, che puntano sulla co-progettazione, la co-programmazione, la cooperazione, la sussidiarietà e la condivisione di obiettivi comuni tra pubblica amministrazione e popolazione locale.

Tutti interventi, che se realmente applicati, potrebbero sostenere le stesse imprese di comunità nel promuovere e incentivare il coinvolgimento dei soggetti (singoli o associati) che vivono e lavorano nelle rispettive comunità. Stimolare la partecipazione dentro e con l’impresa, e più in generale all’interno della stessa comunità, non deve essere solo una necessità economica: deve avere piuttosto una valenza sociale. I soggetti coinvolti devono sentirsi parte di un progetto più ampio. La funzione dell’impresa di comunità va, infatti, oltre quella meramente economica in quanto rappresenta uno strumento nel quale gli abitanti di un dato luogo hanno l’opportunità di confrontarsi, collaborare e contribuire con le proprie idee e risorse alle attività dell’impresa. Un’impresa nella quale gli abitanti, attraverso la condivisione dei mezzi e i fini dell’azione – sociale prima ed economica poi – realizzano collettivamente i propri bisogni e le proprie aspirazioni individuali, innestando un processo di cambiamento culturale e politico che aiuti a superare un modello bipolare Stato-mercato che non è riuscito a garantire non solo la crescita ma neppure la sopravvivenza di un numero crescente di comunità.

Bibliografia

Bandini F., Medei R., Travaglini C. (2015), “Territorio e persone come risorse: le cooperative di comunità”, Impresa Sociale, n. 5.2015, pp. 19-35.

Bartocci L., Picciaia F. (2013), “Le ‘non profit utilities’ tra Stato e mercato: l’esperienza della cooperativa di comunità di Melpignano”, Azienda Pubblica, n.3.2013, pp. 381-402.

Borzaga C., Ianes A. (2006), L’economia della solidarietà. Storia e prospettive della cooperazione sociale, Donzelli, Roma.

Borzaga C., Zandonai F. (a cura di) (2015), “La morfogenesi dell’impresa di comunità. Processi generativi, forme organizzative e percorsi di institution building”, Impresa Sociale, n. 5.2015, special issue.

Euricse (2016), Libro bianco. La cooperazione di comunità. Azioni e politiche per consolidare le pratiche e sbloccare il potenziale di imprenditoria comunitaria, Euricse, Trento.

European Commission (2016), Social Enterprises and their Eco-systems: Developments in Europe, Authors: Carlo Borzaga, Giulia Galera, DG for Employment, So¬cial Affairs and Inclusion, Bruxelles.

Fazzi L. (2012), “I percorsi dell’innovazione nelle cooperative sociali”, in Venturi P., Zandonai F. (a cura di), L’impresa sociale in Italia. Pluralità dei modelli e contributo alla ripresa, II Rapporto Iris Network, Altreconomia, Milano.

Fici A. (a cura di) (2016), Diritto dell’economia sociale. Teorie, tendenze e prospettive italiane ed europee, Editoriale Scientifica, Napoli.

Grillo M. (2015), “Servizi pubblici e beni comuni”, in Sacconi L., Ottone S. (a cura di), Beni comuni e cooperazione, Il Mulino, Bologna, pp. 255-280.

Magnani N. (2018), Transizione energetica e società. Temi e prospettive di analisi sociologica, Franco Angeli, Milano.

MISE (2016), Lo sviluppo delle cooperative di comunità, Studio di fattibilità, Report finale, Ministero dello sviluppo economico, Roma.

Mori P.A. (2014), “Community and Cooperation: The Evolution of Cooperatives towards New Models of Citizens’ Democratic Participation in Public Services Provision”, Annals of Public and Cooperative Economics, 85(3), pp. 327-352.

Mori P.A. (2018), “Cos’è l’impresa di comunità”, in Mori P.A., Sforzi, J. (a cura di) (2018), Imprese di comunità. Innovazione istituzionale, partecipazione e sviluppo locale, Il Mulino, Bologna.

Mori P.A., Sforzi J. (a cura di) (2018), Imprese di comunità. Innovazione istituzionale, partecipazione e sviluppo locale, Il Mulino, Bologna.

Sacchetti S. (2018), “Perché le imprese sociali devono avere una governance inclusiva", Impresa Sociale, n. 11.2018, pp. 15-22.

Sforzi J. (2018), “Quando la cooperazione riscopre la comunità”, in Borzaga C. (a cura di), Cooperative da riscoprire. Dieci tesi controcorrente, Donzelli, Roma, pp. 115-128.

Sforzi J., Zandonai F. (2018), “I processi generativi delle imprese di comunità”, in Mori P.A., Sforzi J. (a cura di) (2018), Imprese di comunità. Innovazione istituzionale, partecipazione e sviluppo locale, Il Mulino, Bologna, pp. 73-85.

Teneggi G. (2018), “Cooperative di comunità: fare economia nelle aree interne”, in De Rossi A. (a cura di), Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Donzelli, Roma.

Tricarico L. (2015), “Energia come community asset e orizzonte di sviluppo per le imprese di comunità”, Impresa Sociale, n. 2015.5, pp. 53-64.

Tricarico L. (2018), “Community energy enterprises in the distributed energy geography: A review of issues and potential approaches”, International Journal of Sustainable Energy Planning and Management, 18, pp. 81-93.

Note

  1. ^ In effetti il riferimento esplicito al perseguimento dell’interesse delle comunità e i servizi ad essa offerti era già presente nella legge 381/91 istitutiva della cooperativa sociale.
  2. ^ In questi casi, se per le imprese cooperative è previsto un vincolo di indivisibilità del patrimonio e la devoluzione ai fondi mutualistici, la proposta di legge sulle cooperative di comunità mantiene il vincolo ma prevede che il patrimonio sia devoluto non ai fondi mutualistici o ad altra cooperativa di comunità, ma all’ente locale o a un ente pubblico operante nel territorio in cui ha sede legale la cooperativa (art.1, “Disciplina delle cooperative di comunità”, n. 288, 23 marzo 2018).

  3. ^ Un elemento questo, in realtà, già introdotto dalla normativa sulla cooperazione sociale (L. 381/1991 – art. 1, comma 1), anche se nella pratica, soprattutto negli ultimi venti anni, queste imprese hanno spesso adottato modelli organizzativi basati prevalentemente su servizi standardizzati e mercati di subfornitura pubblici, facendo emergere limiti evidenti riguardo alla dimensione comunitaria di queste imprese (Fazzi, 2012).
  4. ^ Già la legge 381/1991 sulle cooperative sociali aveva introdotto (art. 2) l’opportunità di includere nella base sociale la figura del socio volontario, cioè di una categoria di socio che condivide le finalità della cooperativa e ne supporta l’attività operando a titolo gratuito. Ma se la sua presenza presuppone l’adozione di una forma di governance multi-stakeholder, questa è, come detto, una possibilità e non un obbligo.
  5. ^ In Lombardia, la norma prevede che alle cooperative di comunità, come a quelle sociali, siano riservate procedure competitive nel caso gli enti locali decidano di affidare a terzi la gestione di servizi pubblici locali privi di rilevanza economica (L.R. 36/2015, art. 5, comma 3).
  6. ^ Dopo la modifica alla L.R. 73/2005 “Norme per la promozione e lo sviluppo del sistema cooperativo della Toscana” fatta l’8 maggio 2014, la regione Toscana ha approvato il 6 novembre 2019, un’ulteriore modifica ampliando l’ambito di operatività di queste imprese anche alle aree urbane, riconoscendo e promuovendo le cooperative di comunità anche in “aree metropolitane o periferie urbane, caratterizzati da minore accessibilità sociale, economica e di mercato che si traduca in rarefazione dei servizi e presenza di marginalità sociali”.
  7. ^ Inizialmente la dotazione finanziaria disponibile prevista dal bando era di € 400.000, ma visto il numero elevato di progetti e la loro rilevanza per il rilancio di alcuni piccoli borghi toscani, la stessa è stata integrata (come previsto nel bando) per sostenere un numero maggiore di progetti: 25 progetti su un totale di 33 domande presentate.
  8. ^ Il bando rientrava nell’ambito del programma “Pugliasociale In” sulla base di quanto previsto dal POR PUGLIA 2014-2020 – Asse IX – Promuovere l’inclusione sociale, la lotta alla povertà e ogni forma di discriminazione. Azione 9.6 - “Interventi per il rafforzamento delle imprese sociali” (FSE). Obiettivo specifico 9 - c) Rafforzamento dell’economia sociale, per favorire innovazione di processo e di prodotto tra le organizzazioni del Terzo Settore e le imprese sociali, la riduzione della frammentazione e il rafforzamento delle imprese sociali in termini di radicamento nelle comunità locali e di capacità di supportare la strategia per l’inclusione sociale attiva e il contrasto alle povertà.
  9. ^ A questo si aggiunge il bando “Coopstartup Rigeneriamo Comunità” (giugno 2019) promosso da Legacoop e Coopfond con l’obiettivo di promuovere la creazione, il consolidamento e lo sviluppo di cooperative di comunità.

  10. ^ Questo riguarda comuni di dimensioni molto grandi come ad esempio il comune di Bari (con una popolazione residente di 324.198 abitanti, Istat 2017), suddivisa in 9 circoscrizioni (raggruppate in 5 municipi a partire dal 2014) dove l’unità di riferimento per calcolare il numero di soci dell’impresa di comunità è la circoscrizione.
  11. ^ La legge 25/2015 della Regione Abruzzo prevede esattamente la stessa tripartizione, ma cambiano le percentuali: 10% della popolazione per le circoscrizioni e i comuni con popolazione fino a 2.500 abitanti; l’8% della popolazione per le circoscrizioni e i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti; il 5% della popolazione per le circoscrizioni e i comuni con popolazione oltre i 5.000 abitanti e comunque non meno di 400 soci.
  12. ^ Prendendo ad esempio il comune di Bari, la circoscrizione più piccola (Madonnella) conta poco più di 15 mila residenti, mentre quella più grande (Libertà-Marconi-San Girolamo-Fesca) ne conta quasi 59 mila. Questo si traduce, nel primo caso, in un’impresa formata da un minimo di 460 soci circa e, nel secondo caso, in una composta da minimo 1.800 soci circa.
  13. ^ In contesti di piccole dimensioni il gruppo promotore è in genere formato da un numero che varia dalle 4 alle 10 persone, mentre in contesti più grandi ci sono casi in cui il gruppo è formato anche da 50-80 persone.
  14. ^ È quello che sta succedendo ad esempio in Abruzzo dove, avendo adottato gli stessi criteri previsti dalla normativa della Regione Puglia riguardo al rapporto tra soci e popolazione residente, sono state costituite alcune cooperative di comunità che non possono essere riconosciute ai sensi della normativa perché presentano un numero di soci residenti inferiore a quello previsto.
  15. ^ Si veda al riguardo la Dichiarazione d’Identità Cooperativa adottata dall’Alleanza Cooperativa Internazionale (International Co-operative Alliance – ICA) in occasione del XXXI Congresso del Centenario (Manchester, 20-22 settembre 1995).
  16. ^ Codice civile, Libro Quinto, Titolo VI delle Società Cooperative e delle Mutue Assicuratrici.
  17. ^ Riguardo a questo fa eccezione la figura del socio sovventore (Legge 59/1992, art. 4).
  18. ^ Per approfondire nel dettaglio cosa la normativa intende per “distribuzione indiretta di utili” si rimanda alla stessa, D.Lgs. 112/2017, art 3, comma 2.
  19. ^ Relativamente a questo aspetto, ci limitiamo a sintetizzare che la norma prevede la possibilità per le persone fisiche di detrarre il 30% della somma investita in una o più imprese sociali dall’imposta lorda sul reddito (l’investimento massimo detraibile per ciascun periodo d’imposta è fissato a 1 milione di euro). Per le imprese, invece, è stabilito che il 30% delle somme investite nel capitale sociale di una o più imprese sociali non concorre alla formazione del reddito della società. In questo caso, l’investimento massimo detraibile in ciascun periodo d’imposta è fissato a 1,8 milioni di euro.
  20. ^ Si ricorda che se i vincoli e le opportunità appena descritte per le imprese sociali sono praticamente uguali a quelli delle cooperative sociali, queste ultime, in base a quanto previsto dalla Legge 381/1991, sono obbligate o a fare inserimento lavorativo o ad operare solo in attività legate al welfare.
  21. ^ Per il dettaglio delle attività si rimanda al D.Lgs. 112/2017, art 2.
  22. ^ BGO sta per Bürger Genossenschaft Obervinschgau – Cooperativa di Cittadini dell’Alta Val Venosta.
  23. ^ Il primo è uno strumento orientato a proteggere localmente beni immobili (edifici, terreni ad uso agricolo, stadi di calcio, parchi cittadini, rive dei fiumi, ecc.) della comunità. Gli abitanti della comunità possono nominare qualsiasi bene immobile situato all’interno del proprio territorio come di “interesse della comunità” in un apposito registro. Se il dato bene viene messo in vendita, essi hanno sei mesi di tempo per raccogliere i fondi necessari per acquistarlo. Il secondo consente ai membri di una comunità di presentare un’offerta di acquisto per sostituire la gestione pubblica di un servizio locale che pensano di poter gestire in modo diverso e migliore.
Sostieni Impresa Sociale

Impresa Sociale è una risorsa totalmente gratuita a disposizione di studiosi e imprenditori sociali. Tutti gli articoli sono pubblicati con licenza Creative Commons e sono quindi liberamente riproducibili e riutilizzabili. Impresa Sociale vive grazie all’impegno degli autori e di chi a vario titolo collabora con la rivista e sostiene i costi di redazione grazie ai contributi che riesce a raccogliere.

Se credi in questo progetto, se leggere i contenuti di questo sito ti è stato utile per il tuo lavoro o per la tua formazione, puoi contribuire all’esistenza di Impresa Sociale con una donazione.