Raghuram G. Rajan (2019), The Third Pillar: How Markets and the State Leave the Community Behind, Penguin (trad. it. Il terzo pilastro. La comunità dimenticata da Stato e mercati, Egea, Milano).
La comunità – genericamente intesa come gruppo di persone unite da qualche tipo di legame – dopo essere stata a lungo considerata un ostacolo sia alla piena realizzazione delle moderne democrazie che allo sviluppo dei mercati e della libertà di scelta degli individui e quindi dello sviluppo economico (con l’unica eccezione degli studi sui distretti industriali italiani), è tornata al centro dell’interesse di un numero crescente di persone. Lo dimostrano i sempre più numerosi richiami alla necessità di dare più spazio a iniziative delle comunità territoriali, come le imprese o cooperative di comunità, ma anche i riferimenti ai “beni comuni” o commons, al “welfare di comunità” o “a chilometro zero”, concetti che hanno senso solo se collocati dentro una comunità comunque definita. Richiami che però fino ad oggi hanno coinvolto un numero ancora molto limitato di economisti, sociologi e politologi.
Ha destato quindi non poco interesse l’uscita del libro The Third Pillar. How Markets and the State Leave the Community Behind, pubblicato in Italia da Egea con il titolo Il terzo pilastro. La comunità dimenticata da Stato e mercati, il cui autore, l’economista indiano Raghuram Rajan, ha un lungo ed importante curriculum professionale ed è oggi professore a Chicago, presso l’Università considerata il “tempio” dell’economia di mercato e del liberismo di matrice capitalistica. Non a caso gli organizzatori dell’edizione 2019 del Festival dell’Economia di Trento hanno affidato allo stesso Rajan l’intervento di chiusura, nella convinzione che la sua riflessione sia destinata ad influenzare il pensiero economico e politico nei prossimi decenni, in quanto in grado di contribuire a spiegare sia l’emergere dei populismi, che indicare una possibile strategia per affrontarli. Riconoscendo così all’opera un interesse che va oltre la stretta cerchia degli addetti ai lavori, anche perché in questo gli economisti mainstream non potranno dire che l’autore non sia un economista, come fecero in molti quando l’Accademia delle Scienze svedese assegnò il premio Nobel a Elinor Ostrom che nei suoi lavori ha sostenuto tesi molto vicine a quelle di Rajan (anche se, sorprendentemente, nel suo libro, non viene mai citata).
L’impianto analitico sviluppato dall’autore in oltre 500 pagine (dell’edizione italiana, un centinaio in meno in quella inglese) prende avvio dalla contestazione della convinzione diffusa che Stato e Mercato siano le uniche due istituzioni, gli unici due “pilastri”, che reggono una società. A questi deve essere aggiunto il terzo pilastro, quello della comunità. Il pilastro “dimenticato”, anche per colpa di chi ha pensato che i primi due fossero sufficienti per governare al meglio sia le transazioni economiche che i rapporti sociali. Non una comunità qualsiasi – ed in particolare non comunità virtuali o di tipo religioso – ma una comunità definita dal fatto che i suoi membri vivono in prossimità (fisica) e che include quindi tutte le istituzioni locali, sia gli organismi amministrativi pubblici come consigli e giunte comunali (che Rajan non considera far parte del pilastro Stato), sia le varie istituzioni e le varie forme di tipo associativo e non profit attraverso cui i cittadini si organizzano per affrontare in modo condiviso i problemi. Un pilastro, quello comunitario, che svolge ancora tutta una serie di funzioni economiche e sociali di grande importanza e in cui “per lo più si concentra l’attività economica” cioè prende corpo la maggior parte delle transazioni. E che è destinato a crescere di importanza poiché, a seguito della progressiva automatizzazione di molte attività produttive, è proprio dalla gestione delle relazioni e dei bisogni sociali che si esprimono nelle comunità che potranno scaturire molte professioni del domani. Un pilastro diverso da Stato (centrale) e dal Mercato, perché basato su relazioni (e transazioni) cooperative regolate non dal principio di equivalenza tipico dei contratti, ma da quello di reciprocità. Un pilastro che, come gli altri due, possiede anche dei limiti, non sempre funziona e non ha solo ruoli positivi: funzionano meglio le comunità di piccola dimensione (come ampiamente dimostrato dalla Ostrom) e quelle aperte ed inclusive. Le comunità possono essere anche disfunzionali, soprattutto se chiuse, ed in tal caso generano costi anziché benefici.
L’errore degli economisti (e non solo) è stato quello di dimenticare, di mettere in disparte la comunità affidandosi solo a Stato e Mercato. Se per un lungo periodo della storia umana tutte le relazioni sociali sono state gestite nelle e dalle comunità, con il passare del tempo, come dimostrato nella prima parte del libro, mercati e Stato si sono progressivamente separati dalla comunità e ciò ha consentito “ad ognuno di specializzarsi nell’attività che gli riusciva meglio, mettendo tutti in condizione di condurre una vita più prospera”. I problemi sono sorti in tempi più recenti – e a questa evoluzione è dedicata la seconda parte del volume – quando mercati e Stato hanno “sconfinato continuamente in attività che fino al quel momento avevano rafforzato i legami all’interno della comunità tradizionale”. Indebolimento del pilastro comunitario e rafforzamento eccessivo degli altri due (o di uno di essi) hanno contribuito al crescente indebitamento pubblico, al blocco della crescita e all’eccessiva concentrazione del potere economico in poche mani e impedito una gestione efficiente dei flussi migratori. Il venir meno dell’equilibrio tra i tre pilastri ha “fatto soffrire” la società, ha creato sempre più comunità disfunzionali e posto le premesse per l’affermarsi del populismo. La fonte delle difficoltà attuali, sia di ordine economico che politico, va quindi ricercata nel disequilibrio. Detto in altro modo, molti dei problemi attribuiti generalmente ai fallimenti di Stato o Mercato sarebbero dovuti non tanto ai limiti di queste due istituzioni, ma alla loro errata applicazione a situazioni dove invece avrebbe “funzionato meglio” la comunità.
Da questi presupposti analitici, Rajan trae la sua proposta: ripristinare l’equilibrio tra i tre pilastri rimettendo in salute le comunità, in particolare quelle disfunzionali, e restituendo loro potere attraverso una limitazione della presenza non tanto dei mercati – che, insieme alle grandi imprese, devono essere più regolati rispetto al passato me non “sottoposti ad un giro di vite” (e qui probabilmente emerge l’appartenenza dell’autore alla scuola di Chicago) – ma soprattutto dello Stato centrale. L’espansione dei mercati deve trovare un contrappeso ma non nell’aumento dei poteri dello Stato – come finora si è sostenuto quasi da tutti – ma attraverso un rafforzamento delle comunità realizzato conferendo loro più poteri. L’obiettivo è quello di sviluppare un “localismo inclusivo” restituendo “poteri alle persone, dalla sfera internazionale ai Paesi e dai Paesi al livello federale, regionale e infine comunitario”, seguendo “rigorosamente il principio di sussidiarietà”. Alle riforme e alle politiche necessarie a questo fine è dedicata la terza e ultima parte del libro. Esse sono essenzialmente rappresentate da: una serie di interventi pubblici volti a impedire che nelle comunità in generale, e in alcune di esse in particolare, si creino situazioni di disoccupazione, povertà ed esclusione sociale che ne minerebbero la funzionalità; interventi di decentramento di poteri nella gestione di alcuni servizi, in primis quelli scolastici; azioni di controllo dei flussi transfrontalieri – quelli finanziari in particolare – che non sono strettamente necessari per la prosperità di ogni paese; e infine dalla limitazione del potere dei grandi gestori della rete di utilizzare senza costi i dati personali degli utenti.
Si tratta tuttavia di proposte molto generali, solo in parte calibrate sulla comunità e che non danno indicazioni non solo su “come”, ma anche su “chi” possa contribuire a rilanciare le comunità, non solo dall’esterno – come finiscono per essere molti degli interventi proposti – ma soprattutto dall’interno. È vero che nell’epilogo Rajan afferma che dopo aver magnificato guerrieri, mercanti, banchieri e imprenditori di successo forse domani magnificheremo gli operatori sociali di comunità. Ma non ci dice come creare, formare, sostenere questi operatori e in che modo essi possono organizzarsi e organizzare la comunità per ottenere quelli spazi che oggi sono loro negati o dallo Stato (che ad esempio mette in concorrenza le organizzazioni della comunità) o dal potere di mercato delle imprese. Non ci dice, cioè, in che modo è possibile “istituzionalizzare” la comunità per ottenere esattamente ciò che lui stesso auspica: il rafforzamento del terzo (o del primo?) pilastro. Una maggior attenzione a quello cha sta succedendo nel terzo settore e tra le imprese sociali di molti paesi avrebbe probabilmente dato più concretezza propositiva a questo lavoro che è comunque destinato a restare un punto di riferimento per tutti colo che lavorano per un mondo migliore.
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